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Josè Saramago - Cecità


Un giorno, se qualcuno volesse riprodurre artificiosamente l'atmosfera e le condizioni in cui era immersa la vita dei nostri antenati, cosa potrebbe escogitare, quale situazione dovrebbe immaginare per rendere la finzione verosimile e presentare, dunque, un quadro il più realistico possibile? 
Non è facile, al mondo d'oggi, in pieno progresso tecnologico, immaginare e fantasticare su ipotetiche condizioni primigenie. 
Nel caso di un repentino ritorno al passato, come potremo, oggi, sopperire alle tante mutate necessità? Quali nuovi valori etici, morali e mondani s'imporrebbero alla nostra quotidianità? Quali le difficoltà da affrontare, le possibilità di sopravvivenza? L'esistenza di ciascuno di noi 
riacquisterebbe, in un sol colpo, la mitizzata freschezza e naturalezza di un tempo, o, viceversa, le debolezze, le peggiori e infide inclinazioni della natura umana, prenderebbero il sopravvento rispetto agli altri tratti caratteriali della "bestia"? 
Saramago, nel romanzo "Cecità" (1995), propone una sua chiave di lettura, un'originalissima interpretazione di quanto potrebbe accadere se, inaspettatamente, l'intera umanità, un popolo o comunità dovesse sprofondare nelle tenebre più assolute; anzi, più che tenebre, in una cecità avvolta in un manto lattiginoso, bianco e, forse, ancor più disperante e tetro dell'oscurità più assoluta. 
Un'improvvisa epidemia, in una qualsiasi parte del mondo, non importa dove, colpisce l'intera comunità che, all'improvviso, ritrovatasi cieca, sprofonda nello sgomento e in un disperato e sempre più disperante isolamento. La malattia, causa di questa singolare cecità (mal bianco, è subito battezzata), le cui origini non si conosceranno mai, già da subito si manifesta in tutta la sua perniciosa e contagiosa violenza. Per arginare l'angosciante fenomeno, le autorità locali decidono di internare il primo gruppo di malati in un vecchio manicomio oramai in disuso. 
Qui, pian piano, si plasma e assume concretezza il primo nucleo della nuova umanità. 
Impossibilitati ad interagire col mondo esterno ed a comprendere cosa accade al di fuori di quelle ristrette mura, respirano l'atmosfera dei naufraghi: privi di tutto, di tutto bisognosi. Anche per gli approvvigionamenti quotidiani, dipendono, in tutto e per tutto, dall'esterno. L'edificio che li ospita è presidiato da drappelli di militari armati, con l'ordine di sparare a vista su chiunque oltrepassi un determinato limite (quello che appunto separa i due universi). 
Ben presto, con il progredire della malattia, il manicomio si riempie di gente, di un'umanità sempre più oltraggiata e variegata. 
Ha inizio così la lotta per la sopravvivenza. 
Gli occupanti di una camerata s'impossessano, con la forza, delle razioni giornaliere di cibo e per la distribuzione pretendono prima tutti i soldi e gli oggetti di valore e, successivamente, impongono ai compagni di sventura di poter godere, a rotazione, delle donne del piccolo microcosmo venutosi a creare. 
La situazione descrittaci da Saramago assume contorni tragici: cadaveri seppelliti frettolosamente nel giardino che circonda lo stabile, la spazzatura e gli escrementi umani abbandonati nei corridoi e all'interno delle camerate, senza acqua ("...sapeva di essere sporco, sporco come non ricordava di essere mai stato in vita sua. Ci sono molti modi di diventare un animale, pensò, questo è solo il primo...") e col poco cibo che quotidianamente si riesce a procurare, l'esistenza, privata com'è della speranza di guarigione ("...Ormai è chiaro, nessuno potrà salvarsi, la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza..."), preda di assalti e sussulti animaleschi, si trasforma in un 
vero inferno ("...Perdonami, amore, se tu sapessi, Lo so, lo so, ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l'unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un'anima, e se gli occhi si son perduti...", "...Siamo ciechi perchè‚ siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perchè‚ siamo ciechi..."). 
Parrà pure un assurdo, la sofferenza causata dall'impossibilità di vedere le brutture del mondo e il dolore che avvolge pian piano, ma inesorabilmente, l'umanità, è ben poca cosa rispetto allo strazio di cui può essere preda colui o colei che quel dramma, oltre che viverlo, lo vede e registra nel suo animo. Una pena che induce l'unica vedente, pur di sottrarre sè‚ stessa all'abisso in cui ciò che vede la sospinge, a bramare la cecità degli occhi per non patire quella del cuore. 

Ma noi vediamo attraverso i suoi occhi, scopriamo e viviamo la tragedia attraverso la sua sensibilità e, quindi, non possiamo rinunciare alla sua vista. La vediamo sottomettersi alla bestialità infoiata dei maschi dominanti; ribellarsi ed uccidere ("...e qund'è che è necessario ammazzare, si domandò avviandosi verso l'atrio, e si rispose da sola, Quando ormai è morto ciò che ancora è vivo..."); consolare, patire e compatire; aiutare e guidare il proprio gruppo fuori della ristretta prigione, per condurre i suoi amici all'esterno, "liberi"(?), in una galera più ampia, senza apparenti sbarre di metallo, in cui tutto è concesso, dove la libertà si espande fino a scontrarsi con l'impossibilità di... 
VEDERE. 

La vediamo condurre i suoi compagni di sventura per le vie e le piazze di una città spenta silenziosa e lercia, dove i cani fanno scempio dei corpi di uomini lasciatisi morire per strada. Città 
prigione, che puzzano di morte, abbandonate da un'umanità allo sbando, preda dei propri istinti animaleschi... 
Eppure... 

...Eppure, non tutto è perso. La speranza che nasca e rifiorisca una nuova e più coesa umanità, non è del tutto spenta. La fiammella illumina ancora; il lumicino, seppur ridotto quasi ad un fuoco fatuo, uguale a quelli terrorizzanti che lei, la "moglie del medico", unica vedente, ha visto all'interno di un supermercato, è ancora vivo e vitale, necessita solo di essere alimentato. 

Il gruppo, guidato dalla "moglie del medico", è sempre più coeso. Nascono e si schiudono, come fiori in un campo di battaglia intriso di sangue, sentimenti ed emozioni insospettabili. I personaggi, 
tutti anonimi, pur ricercando ciascuno una propria ragione, l'identità persa o infiacchita dalle tribolazioni, decidono di rimanere uniti e lottare solidali per la sopravvivenza, combattendo la loro 
incomprensibile battaglia, guidati dalla "moglie del medico", nella cui casa hanno, nel frattempo, deciso di acquartierarsi. 

Qui, all'improvviso, li coglie la guarigione. 
Senza alcuna causa apparente. 
Come li aveva colti a suo tempo la malattia, così accade per la guarigione. 

Il racconto termina con una constatazione disarmante e, allo stesso tempo, colma di speranza 
(giacché comprendere, è già risolvere per metà): 

"...Perchè siamo diventati ciechi? 
Non lo so, forse, un giorno si arriverà a conoscerne la ragione? 
Vuoi che ti dica cosa penso? 
Parla? 
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono...". 

I personaggi non sono mai ben definiti, tanto che l'autore, piuttosto che svelarci i loro nomi, preferisce appellarli utilizzando elementi più che altro descrittivi ("la ragazza dagli occhiali scuri"; 
"l'uomo della benda nera", "il ragazzino strabico", "il medico", "la moglie del medico", "il primo cieco", "la moglie del primo cieco"). Lo stratagemma assolve forse il compito di evitare che il 
lettore operi una chiara e compiuta identificazione, tale da comunicare la sensazione di essere al cospetto di una storia privata, non riguardante l'intera umanità, circoscritta ad un gruppo d'uomini. I sette personaggi, così spersonalizzati, assurgono a nuovo archetipo di un'umanità; forgiatasi nella cecità (cioè in una condizione di difficoltà) che, una volta guarita, si ripropone al mondo con un nuovo bagaglio emozionale, più denso e ricco di significato, che pone al suo centro la solidarietà fra esseri uguali. 

Esplosive le pagine in cui questo sentimento prende le mosse (per i cultori della statistica, si tratta della pagina 168 nell'edizione dell'Einaudi); da quel momento in poi, un repentino mutamento di 
ritmo accompagna il lettore attraverso una strada costellata di perle, in cui le emozioni, la compassione, il sentimento di solidarietà, l'amore riempiono ed invadono il romanzo. Il contegno 
tenuto da questo ristretto gruppo d'uomini, riscatta l'intero genere umano dalle bassezze e dalle brutture cui si è abbandonato in occasione della malattia. Terribili le pagine delle violenze 
all'interno del manicomio. 

Saramago, ancora una volta, ci consegna un romanzo in cui i sentimenti allo stato puro assurgono a veri ed unici protagonisti delle vicende umane.