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TULLO OSTILIO

Nella cronologia tradizionale dei Re di Roma, al pacifico e religioso Numa Pompilio successe un re più fiero e bellicoso: Tullo Ostilio, nipote di Ostio Ostilio caduto eroicamente durante la guerra fra Roma ed i Sabini ai tempi di Romolo.
Anche in questo caso si ebbe un interregno per consentire la continuità del governo durante la scelta del nuovo monarca.
All'elezione (che tradizionalmente si svolse nel 673 a.C.) concorse anche Numa Marcio, genero di Numa Pompilio e padre di Anco Marzio. Vedendosi battuto Numa Marcio si lasciò morire di fame.
Tullo Ostilio, figlio del figlio di Ostio Ostilio e di una matrona di nobile famiglia, era uomo facoltoso e dotato di molto prestigio, si era trasferito a Roma da Medullia, città dell'area albana.
Fu eletto per volontà del Senato e la sua nomina venne confermata dal popolo con il parere favorevole degli indovini. Per conquistare la fiducia e la benevolenza della popolazione, Tullo Ostilio inaugurò il suo regno con un atto liberale di considerevole entità: distribuì i terreni e le ricchezze che appartenevano al monarca dichiarando di poter vivere con i propri mezzi.
A Tullo Ostilio la tradizione attribuisce inoltre un ampliamento dei confini cittadini includendo il territorio del Celio, territorio che venne distribuito gratuitamente a quanti, fra i cittadini, non avevano mai ricevuto un'area sulla quale costruire la propria abitazione.
Macrobio, nei Saturnali, attribuisce a Tullo Ostilio anche la costruzione del tempio di Saturno e l'istituzione della festa detta dei Saturnalia, precisa però che Varrone e Gellio erano di diverso avviso. Si trattava di feste dedicate al dio Saturno durante le quali era costume far godere agli schiavi un po' di libertà e di riposo, mentre i signori si dedicavano alle umili attività domestiche che per il resto dell'anno assolutamente evitavano.
La "politica estera" di Tullo Ostilio si presentò presto ben diversa da quella del suo predecessore e, quando si verificarono alcuni incidenti di frontiera con la vicina Albalonga, il nuovo re non protrasse a lungo le trattative diplomatiche e dichiarò guerra alla città rivale. Quali furono le circostanze che portarono alla guerra con gli Albani non è difficile immaginare: incidenti fra pastori, dispute sul possesso dei terreni e dei luoghi dove pascere ed abbeverare il bestiamno, e così via. Governava Albalonga Gaio Cluilio, un nobile albano della stessa famiglia alla quale apparterrà la più famosa Clelia, eroina della guerra contro gli Etruschi agli albori della Repubblica.
Dionisio di Alicarnasso, che non brilla per imparzialità, attribuisce la a questo Cluilio responsabilità delle prime aggressioni, tramite bande di predoni appositamente organizzate. Comunque siano andate le cose Cluilio morì in circostanze misteriose, fu infatti trovato esanime nella propria tenda senza che il suo corpo presentasse alcun segno utile a spiegare le causee del decesso. Non si trattava certamente di un presagio incoraggiante per gli Albani che si trovavano senza un capo alla vigilia di una guerra pericolosa e non mancarono fra loro superstiziosi e menagrami, pronti a parlare dell'avversa volontà degli dei. Si decise, ad Albalonga, di creare un dittatore al quale conferire l'autorità necessaria per fronteggiare la situazione e fu scelto Mezzio Fufezio.
Ci troviamo qui in presenza di un personaggio che potrebbe avere un concreto fondamento storico. Il fatto che a sostituire il defunto re sia un dittatore e non un nuovo monarca (come sembrerebbe naturale), il nome certamente non latino di Fufezio, il contesto di belligeranza in cui il personaggio compare, fanno pensare all'intromissione di uno straniero nella vita politica e sociale dei Latini.
Fufezio propose a Tullo Ostilio di comporre pacificamente il conflitto in quanto era venuto a sapere (e poteva dimostrarlo con prove e documenti) che Veienti e Fidenati intendevano approfittare della situazione e che si stavano preparando per attaccare Albalonga e Roma quando queste, combattendo fra loro, si sarebbero sufficientemente indebolite.
Tullo Ostilio considerò la proposta ragionevole ma, non soddisfatto della prospettiva di quella che avrebbe potuto essere una pace effimera, propose a sua volta di riunire la popolazione e creare un unico senato.
Consultati gli Albani, Fufezio rispose che questi non erano disposti a lasciare le proprie case per trasferirsi a Roma ma erano propensi all'unificazione del consesso senatorio.
A questo punto, tuttavia, si presentava la delicata questione dell'assegnazione dei poteri di governo: gli Albani li richiedevano in virtù della maggiore antichità di Albalonga e dicevano di considerare Roma una loro colonia. Da parte loro i Romani negavano l'esistenza di una legge naturale che potesse impedire ad una colonia di prevalere sulla città di origine, inoltre vantavano la potenza di Roma come titolo per prevalere nella contesa.
Si giunse così alla decisione di affidare all'esito di un duello fra pochi combattenti la soluzione della questione. Il fatto che due famiglie fra loro imparentate (gli albani Curiazi ed i romani Orazi) comprendessero ciascuna tre gemelli maschi in età adatta al combattimento e molto abili con le armi era forse una pura coincidenza ma Fufezio la interpretò come un segno del destino e propose che fossero proprio questi sei giovani a scontrarsi nel fatale duello. Da canto suo, invece, Tullo Ostilio si disse timoroso che far combattere fra loro persone legate da vincoli di parentela fosse un sacrilegio ma infine, sentito il parere favorevole degli Orazi stessi e del loro padre, accettò la sfida come proposta da Fufezio.
Come si usava in occasioni così importanti, la dichiarazione ufficiale del duello fu affidata ai Feziali. Questi erano un'antica istituzione presente in molte popolazioni italiche ma la tradizione ne faceva risalire l'origine a Numa Pompilio. Si trattava di un collegio i cui membri potevano essere considerati magistrati per le caratteristiche del loro operato e per l'autorità della quale erano investiti, ma anche sacerdoti per i significati sacrale della loro funzione.
Il loro compito principale, di natura sostanzialmente diplomatica, era quello di svolgere le opportune trattative quando si profilava un conflitto con uno stato confinante, ma quando queste trattative fallivano allora spettava ai Feziali pronunciare la dichiarazione di guerra seguendo un preciso rituale per comunicare all'avversario l'apertuta delle ostilità.
Inoltre i Feziali dovevano vigilare sul rispetto dei trattati di pace e dei patti di alleanza, nonché ascoltare gli ambasciatori stranieri che fossero venuti a chiedere soddisfazione di un torto subito.
Il caso del duello fra Romani ed Albani non era a rigore una dichiarazione di guerra in quanto, come si è visto, il conflitto era in pieno svolgimento, tuttavia è ragionevole pensare che questi magistrati siano stati chiamati a farsi in qualche modo garanti della chiarezza die patti prima dello scontro e della loro effettiva attuazione a duello concluso.
Due solenni cortei accompagnarono i duellanti fino al luogo concordato per la prova. La gente, racconta Dionigi di Alicarnasso, procedeva indirizzando loro manifestazioni di onore e di lutto: si trattava ormai di vittime consacrate, consapevoli di andare verso il sacrificio.
Orazi e Curiazi, si è detto, erano legati da vincoli di parentela: uno dei Curiazi era fidanzato ad Orazia, sorella dei rivali, mentre Marco Orazio aveva sposato una sorella dei Curiazi. Per le due giovani la situazione era dunque tragica qualunque fosse l'esito dello scontro, si trattava, quanto meno, di perdere l'uomo amato o i fratelli.
Ne parlò nel Seicento Pierre Corneille nella tragedia Horace mettendo in risalto questi legami amorosi fra membri di famiglie rivali tanto da far pensare ad echi della shakespeariana Giulietta e Romeo. Alla tragedia di Corneille si ispirò anche Antonio Simeone Sografi, autore del libretto di Orazi e Curiazi musicato da Domenico Cimarosa mentre, in tutt'altro contesto storico e culturale nel 1846 Saverio Mercadante presentò la tragedia lirica in tre atti Orazi e Curiazi su libretto di Salvadore Cammarano.
Come si svolse il combattimento e come si conclise è cosa nota anche ai bambini. Se ben ricordo i tempi dei miei studi elementari, questo degli Orazi e Curiazi insieme agli episodi di Romolo e Remo, di Orazio Coclite e di Attilio Regolo, entravano in quel confuso coacervo di anedottica e moralismo che pedestri insegnanti con voglia ossidata e visione ristretta somministravano a disinteressati scolari durante "l'ora di storia". Se il povero Tito Livio avesse saputo quale uso meschino si sarebbe fatto della sua opera monumentale tanti secoli più tardi ... ma tant'è e noi, per amor di completezza, racconteremo per l'ennesima volta anche questa vicenda.
In un primo momento, dunque, i Curiazi ebbero la meglio e due romani vennero uccisi, ma i tre albani erano feriti mentre l'unico Orazio superstite era ancora illeso. Approfittando di questo vantaggio, l'uomo decise di giocare di astuzia e cominciò a correre per distanziare gli avversari ed affrontarli uno ad uno. I Curiazi lo credettero un vile e presero ad inseguirlo, più o meno rallentati dalle loro ferite; volgendosi improvvisamente all'indietro, Orazio trafisse il suo primo insegitore, poi il secondo ed infine, ucciso l'ultimo Curiazio, fu il vincitore del duello e spogliò gli avversari delle armi per recarle a Roma come trofeo.
Il giovane eroe venne accolto dai Romani con grande esultanza, quindi ci si occupò di dare sepoltura ai caduti.
Ancora oggi lungo l'antico percorso della Via Appia sono visibili i tumuli che i Romani di epoca imperiale credevano (o amavano credere) fossero l'ultima dimora degli Orazi e dei Curiazi. Si trovano nei pressi di un luogo che era detto "Valle Cluilia", dove la via Appia compie una deviazione: forse i suoi artefici vollero rispettare un sito sacro che, se non fu teatro dell'epico scontro, fu certamente legato ad arcaiche devozioni.
In uno dei tumuli si vuole giacciano i due Orazi caduti, gli altri sono discosti fra loro, come a confermare le parole di Livio: Sepulcra exstant quo quisque loco eccidit, duo Romana uno loco propius Albam, tria Albana Romam uersus sed distantia locis ut et pugnatum est (Restano i sepolcri dove ciascuno cadde, quelli dei due Romani in un solo luogo più prossimo ad Alba, quelli dei tre Albani verso Roma ma distanziati, così come avevano combattuto).
L'archeologia moderna ha appurato dalla presenza di elementi in calcestruzzo che queste costruzioni risalgono al secondo secolo a.C. e che probabilmente furono sistemate e restaurate ai tempi di Augusto. Questo intervento conservativo che dava risalto alla tradizione degli Orazi e Curiazi, si collocherebbe bene nella propaganda di Augusto a favore della "romanità" e contro quei costumi esotici che Antonio avrebbe voluto importare dall'Egitto, propaganda del resto della quale Livio era attivo portavoce.
Anche Dante ricorda la vicenda degli Orazi e dei Curiazi facendola citare a Giustiniano (Paradiso VI, 39) fra gli episodi elencati per dimostrare la predestinazione della storia di Roma e, dunque, quanto errato fosse il comportamento dei guelfi (che combattevano il potere imperiale) e quello dei ghibellini che sfruttavano la gloriosa aquila romana per la loro propaganda di parte.
Anche nel campo delle arti figurative questo famoso duello ha avuto ampie fortune, basti citare gli affreschi del Cavalier d'Arpino nella sala degli Orazi e Curiazi, sontuoso ambiente di rappresentanza del Comune di Roma, nei Musei Capitolini o lo splendido "Giuramento" dipinto nel 1784 da Jacques-Louis David che fu un'icona della Rivoluzione Francese ed oggi è custodito al Louvre. Se ad Alba dopo la conclusione dello scontro ci si doleva per la morte dei Curiazi e per la sconfitta subita, anche a Roma qualcuno piangeva. Era Orazia, la sorella del vincitore e fidanzata di uno degli albani caduti. Riconoscendo fra le spoglie degli sconfitti il mantello da lei stessa confezionato, racconta Livio, la giovane si era sciolta le chiome ed aveva dato libero sfogo alla sua disperazione chiamando fra la gente il nome dello scomparso. Non lo aveva tollerato il fratello (qui la pagina liviana si fa drammatica, teatrale) e l'aveva uccisa maledicendo tutte le donne romane disposte a piangere per i nemici.
Il gesto di Orazio era atroce, ma si trattava di condannare colui che aveva appena dato la vittoria alla città e quando a Tullo Ostilio toccò di pronunciare una sentenza si trovò in grave imbarazzo, così decise di nominare i duumviri perduellionis. Si trattava di due magistrati ai quali veniva conferito l'incarico di giudicare nei casi di alto tradimento. Tullo ritenne quindi che il delitto di Orazio che si era arbitrariamente sostituito allo stato nel punire la sorella fosse, prima di tutto, un caso di tradimento.
Dice Livio che i duumviri "non si ritenevano autorizzati ad assolvere neanche un innocente", vale a dire che la loro nomina equivaleva automaticamente - se non nella norma, nella consuetudine - alla sicura condanna dell'imputato ed infatti Marco Orazio fu destinato alla terribile pena prevista per i traditori: con il capo velato, le mani legate, doveva essere appeso ad un albero e fustigato. La pena doveva svolgersi nel pomerio (lo spazio sacro adiacente le mura) e fuori di esso, fino alla morte.
Tullo Ostilio, tuttavia, aveva lasciato ad Orazio una via di uscita che consisteva nel diritto di appellarsi al giudizio popolare ed il giovane vi fece ricorso. Davanti al popolo Orazio fu difeso dal padre che dichiarò di ritenere giusta la morte della figlia, lei sì colpevole di tradimento, e che egli stesso l'avrebbe punita se fosse scampata all'ira del fratello. Inoltre il vecchio pregava che non privassero dell'ultimo figlio lui che tanto aveva perduto della sua famiglia per servire la patria. E non mancò, ovviamente, di mensionare la recentissima vittoria del figlio: la pena si sarebbe dovuta influggere nel pomerio fra le spoglie dei nemici che aveva appena sconfitto, fuori dal pomerio fra le loro tombe. Si trattava di straziare le carni del liberatore di Roma.
Le parole dell'uomo e la prospettiva dell'atroce tortura che avrebbe dato la morte ad Orazio riuscirono a toccare il cuore dei Romani più della fine improvvisa della giovane fidanzata ed il popolo deliberò la grazia.
Un fratricidio commesso in pubblico, tuttavia, non poteva rimanere impunito, così fu affidato al padre il compito di punire simbolicamente il figlio per purificarlo dalla sua colpa. Il vecchio Orazio svolse gli opportuni sacrifici quindi fece passare il figlio con il capo coperto sotto una trave come si faceva con i prigionieri di guerra che venivano costretti a transitare sotto il giogo. E' opinione di molti critici che dietro a questo episodio, riferito da Livio e da Dionigi di Alicarnasso, si celi la memoria di un antico rito di iniziazione al quale venivano sottoposti i ragazzi al momento del passaggio alla pubertà.
I racconti di Livio e di Dionisio non concordano, invece, per quanto riguarda la sepoltura di Orazia: stando al primo fu innalzato per lei un grandioso tumulo sul luogo in cui era stata uccisa, mentre il secondo sostiene che il padre le negò ogni sepoltura e che furono i passanti impietositi a coprire di terra le sue membra.
Dionisio aggiunge che furono decretati onori per gli Orazi ed un contributo pubblico a favore della loro famiglia.
Ma torniamo a Tullo Ostilio. A Mezzio Fufezio che si rimetteva al suo volere come previsto dall'accordo egli garantì che gli Albani sarebbero stati trattati con onore e che le loro istituzioni sarebbero rimaste intatte. Dispose quindi che Albalonga preparasse un esercito e lo tenesse pronto per agire a fianco dei Romani contro Etruschi e Fidenati, quindi se ne tornò a Roma con le sue truppe intatte e celebrò il trionfo.
Trascorse un anno mentre Tullo Ostilio preparava la guerra, intanto la pace con Albalonga era soltanto apparente. Fufezio aveva perso gran parte del suo prestigio, gli Albani lo ritenevano responsabile della sconfitta subita e se era ancora al potere ciò era dovuto soltanto al precario equilibrio politico che si era creato dopo il duello degli Orazi e Curiazi. L'uomo, inoltre, era infido e rancoroso, almeno così lo hanno immaginato gli antichi storici che ci parlano di lui, e da buon doppiogiochista andava intessendo accordi segreti con Veienti e Fidenati mentre predisponeva le schiere che avrebbero dovuto combattere con i Romani.
Quando infine Tullo Ostilio decise di scendere in campo, fra le sue truppe ausiliarie figuravano quelle albane ma Fufezio, durante la battaglia, si posizionò su un colle, lontano dal vivo degli scontri, temporeggiando in attesa di capire chi sarebbe stato il vincitore. La sua intenzione era quella di attaccare i Romani, ma se Tullo Ostilio si fosse dimostrato troppo forte e pericoloso avrebbe fatto muovere le sue truppe contro i Fidenati sperando di dissimulare così i suoi propositi di tradimento. Tullo Ostilio comprese il comportamento di Fufezio ma ebbe la presenza di spirito di far credere ai suoi soldati di aver personalmente ordinato la manovra degli Albani per accerchiare il nemico, in questo modo evitò che i Romani fossero presi dal panico e vinse la battaglia.
Se i Romani nutrivano ancora dubbi sul tradimento di Fufezio li risolsero interrogando alcuni Fidenati catturati durante la battaglia i quali confermarono le segrete proposte di alleanza che il dittatore di Albalonga aveva avanzato alla loro città.
Tullo Ostilio convocò il Senato e venne decretata la distruzione di Albalonga.
Marco Orazio, il vincitore del duello, ebbe dal re l'incarico di eseguire la sentenza, con l'ordine di non recare danno alle persone e risparmiare gli edifici sacri. Quanto a Fufezio venne convocato insieme ai suoi ufficiali e fu smascherato davanti all'assemblea. Mentro Orazio, secondo l'ordine ricevuto, distruggeva meticolosamente Albalonga, a Roma si svolgeva il processo contro il dittatore destituito.
L'imputato cercò di difendersi attribuendo al senato albano la responsabilità del suo comportamenteo: "ho soltanto eseguito gli ordini" affermò come fanno ancora ai nostri giorni i criminali nazisti quando vengono processati per le stragi compiute sessanta anni fà. Scoppio una rissa ma Tullo Ostilio aveva previdentemente circondato il tribunale di uomini in armi ed i disordini furono rapidamente placati.
La condanna fu esemplare: riconosciuto colpevole di tradimento, Mezzio Fufezio venne legato a due coppie di cavalli che straziarono il suo corpo al cospetto dell'assemblea. L'episodio doveva avere un certo impatto sull'immaginario romano se anche Virgilio (Eneide VIII) decise di menzionare l'immagine del supllizio di Fufezio fra le decorazioni dello scudo preparato da Vulcano per Enea.
La cittadinanza di Albalonga venne interamente deportata a Roma. I suoi membri più autorevoli vennero ammessi al Senato e ed alcune famiglie ottennero il rango patrizio; a queste vicende facevano infatti risalire le proprie origini le gentes Giulia, Servilia, Curiazia, Quintilia, Cleia, Gegania e Metilia.
Per sistemare questa nuova e consistente popolazione, Tullo Ostilio fece ampliare la cinta di mura includendo il Celio, assegnò lotti di terreno e prese provvedimenti per aiutare gli Albani a costruire nuove abitazioni. Finiva così la gloriosa Albalonga, fondatoa secondo la tradizione 487 anni prima da Ascanio, ricca ed importante, forse la più prestigiosa delle vittime dell'espansionismo romano ai suoi primordi.
In generale agli Albani venne imposta la condizione di clienti, cioè di abitanti di Roma privi di cittadinanza, condizione che comportava una serie di doveri verso i patroni dai quali ricevevano protezione ed agevolazioni.
Anche la guerra con i Fidenati ribelli (Fidene era già colonia romana) si concluse con la vittoria di Tullo Ostilio il quale, dopo alcuni mesi di assedio, si impadronì della città ed eliminò i caporioni della rivolta.
Tullo Ostilio, che per alcuni studiosi è un "doppio" di Romolo, era un guerriero e la sua missione era quella di rendere Roma sempre più potente, così dopo aver distrutto Albalonga e ridotto al silenzio i Fidenati, si rivolse contro i Sabini. Ancora una volta la versione tradizionale fornisce, con il suo linguaggio ed i suoi personaggi, una versione semplificata della realtà storica che in questo caso è descritta in modo estremamente lapidario dalle parole di Mommsen: "le ostilità (dei Romani contro i loro vicini) si fecero presto guerra, la rapina divenne conquista". E per suffragare questa affermazione lo storico tedesco fa presente che il territorio romana, che inizialmente comprendeva solo i pochi chilometri quadrati dell'area del Palatino, crebbe nel giro di poche generazioni annettendo tutta la regione densamente popolata compresa fra il Tevere e l'Aniene, una superficie di oltre cinquecento chilometri quadrati.
Tanta belligeranza arcaica venne rappresentata dagli storici e dagli antiquari della prima età imperiale come un glorioso passato e spesso si ricorreva all'espediente di giustificare le aggressioni romane ai danni delle popolazioni limitrofe come sacrosante reazioni a violazioni di accordi, a soprusi, scorrerie, tentativi di invasione. In pratica Roma sarebbe cresciuta "per legittima difesa".
E' il caso della guerra mossa da Tullo Ostilio contro i Sabini. Stando a Dionigi di Alicarnasso la causa della guerra fu un'aggressione ai danni di alcuni cittadini romani operata dai Sabini durante le celebrazioni della dea Feronia, in un santuario comune. Livio convalida questa versione ma, più obiettivo, riporta anche la versione dei Sabini che lamentavano il rapimento di alcuni loro conterranei avvenuto nella stessa occasione.
In ogni caso fu la guerra. L'esercito romano era corroborato dall'arruolamento più o meno coatto di quanti fra gli Albani recentemente trasferiti erano idonei alla vita militare; dal canto loro i Sabini, consapevoli della superiorità dell'avversario, avevano accresciuto le proprie risorse cercando l'alleanza dei Veienti ed ingaggiando mercenari. Si creava così un equilibrio di forze e gli scontri della prima parte della guerra non portarono a risultati significativi. La situazione fu sbloccata l'anno successivo dalla cavalleria Romana che Ostilio aveva particolarmente curato e rafforzato durante una pausa del conflitto e che ebbe facilmente ragione dell'esercito sabino. Si dice che in questa occasione Tullo Ostilio abbia istituito le feste in onore di Saturno e di Opi (Saturnalia ed Opalia) in ottemperanza ad una promessa votiva fatta a quelle divinità alla vigilia del combattimento decisivo.
Secondo Macrobio che, come si è detto, riporta la notizia dell'istituzione dei Saturnalia, inoltre, Tullo Ostilio dedicò a Saturno il tempio nel quale veniva custodito il tesoro dello Stato le cui colonne svettano ancora oggi nel Foro Romano ma, come precisa lo stesso Macrobio, Varrone e Gellio erano di diversa opinione; in realtà il tempio fu inaugurato nel 497 a.C., risale quindi alla prima età repubblicana.
Gli sconfitti subirono le rivalse abituali per quei tempi: il loro territorio venne razziato dai Romani e fu loro imposto il pagamento di pesanti tributi. Successivamente tentarono di violare il trattato di pace ma Tullo Ostilio li sconfisse di nuovo in una guerra, questa volta, brevissima.
Intanto Roma aveva cercato di affermare la propria supremazia sulle città che formavano la Lega Latina, città che per lungo tempo avevano fatto riferimento ad Albalonga. Gli Albani avevano infatti tenuto la presidenza di una lega di almeno trenta comuni confederati che finirono col riconoscere a Roma l'eredità politica della vetusta città conquistata. Si stabilirono tuttavia rapporti ben diversi: Roma era già troppo più forte ed organizzata delle altre città per non realizzare un'egemonia di fatto, tanto che anche l'esercito confederato era comandato soltanto da generali romani. I tentativi di resistenza da parte dei Latini nel periodo che andò dalla distruzione di Albalonga al definitivo consolidarsi della posizione dominante di Roma sono narrati da Dionisio di Alicarnasso. I Latini, scrive lo storico, nominarono due comandanti: Anco Publicio di Cora e Spurio Vecilio di Lavinio i quali intrapresero una guerra fatta di brevi incursioni, minacce, azioni di guerriglia senza mai dispiegare un vero e proprio esercito, parole queste che dimostrano chiaramente come gli sforzi indipendentisti dei comuni laziali fossero ben poca cosa davanti alla struttura militare ed amministrativa dello stato romano. Questa situazione si protrasse comunque per cinque anni ed infine vennero stipulati accordi e trattati che portarono ad una stabile situazione politica del Lazio e, come si è detto, al potere incontrastato di Roma sulla Lega Latina.
La fine di Tullo Ostilio fu preceduta da sinistri presagi e da una grave pestilenza che colpì anche il re inducendolo a ripristinare i culti religiosi che durante il suo regno bellicoso erano stati trascurati o del tutto abbandonati. Questo pentimento tardivo non giovò a Tullo Ostilio che, dopo aver regnato per trentadue anni, perì insieme alla famiglia nell'incendio improvviso che distrusse la sua casa.
I superstiziosi videro nell'incendio la mano divina: certo Giove aveva voluto punire con i suoi fulmini quel monarca tanto poco diligente nel culto e nella liturgia, i più maligni, invece, sospettarono di Anco Marzio, nipote di Numa Pompilio ed aspirante al trono che avrebbe eliminato, con un incendio doloso, i figli di Tullo, suoi potenziali rivali. Quest'ultima diceria la riferisce il solito Dionisio di Alicarnasso, pur dichiarando apertamente di ritenerla inverosimile.