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Nella competizione elettorale seguita alla morte di Numa Pompilio, aveva vinto Tullo Ostilio superando un illustre avversario, il genero del predecessore di nome Numa Marcio.
Costui aveva sposato Pompilia, figlia di Numa Pompilio, ed era stato pontefice massimo, sembrava dunque avere tutte le carte in regola per succedere al suocero, eppure gli fu preferito Tullo Ostilio, forse perché la gente di Roma aveva voglia di tornare a costumi più bellicosi dopo il lungo e pacifico regno di Numa.
Lo sconforto di Numa Marcio fu tale che il pover'uomo si lasciò morire di fame. Non tutte le fonti però, dovevano riportare questo episodio o non tutti dovevano ritenerlo credibile se Tacito cita Numa Marcio come praefectus urbis sotto Tullo Ostilio.
Comunque siano andate queste cose, Numa Marcio ebbe da Pompilia un figlio che chiamò Marcio (o Marzio) il quale dopo la scomparsa di Tullo Ostilio venne eletto ed assunse il nome di Anco Marcio con cui la storia e la tradizione lo ricordano come quarto re di Roma.
Tullo Ostilio morì nell'incendio della sua casa insieme alla moglie e a tutti i suoi figli. Dioniso di Alicarnasso racconta che molti ritennero l'incendio una punizione inviata dagli dei a questo re che li aveva trascurati ma qualcuno sospettò che Anco Marzio avesse trovato il modo di appiccare il fuoco alla dimora di Tullo, magari approfittando delle sue amichevoli frequentazioni con il re.
Lo storico rifiuta questa diceria con formale indignazione ma in effetti il movente non mancava: Anco Marzio aspirava al trono come già suo padre e certamente non avrebbe gradito di vedersi soppiantare da uno dei figli di Tullo Ostilio.
Generalmente l'elezione di Anco Marzio viene datata 640 a.C., Dionisio di Alicarnasso precisa che la sua conferma da parte del popolo e degli aruspici avvenne nel secondo anno della trentacinquesima Olimpiade, cioè nel 638 a.C.
Considerando il regno del suo predecessore, Anco Marzio valutò che sotto Tullo Ostilio si era andata perdendo quella religiosità che Numa Pompilio si era sforzato di instaurare nei costumi del popolo romano. Del resto Tullo era stato un combattente e si era occupato più volentieri del suo esercito che dei riti e delle istituzioni religiose. Così Anco, perché profondamente religioso come l'antenato o perché come questi sinceramente amante della pace, decise di tornare "ai vecchi tempi", rinverdì le pratiche religiose istituite da Numa e si astenne da ogni iniziativa militare.
I Latini che abitavano villaggi, paesi e cittadine non lontano da Roma e che avevano dovuto difendersi dalla belligeranza di Tullo Ostilio, a poco a poco ripresero coraggio e pensarono di approfittare dell'atteggiamento pacifista di Anco Marzio (atteggiamento che sentivano come sintomo di debolezza) per permettersi di scorrazzare liberamente in territorio romano, dedicandosi a violenze e ruberie.
Arrivò per Anco Marzio (e soprattutto per i cittadini che lo avevano eletto, ai quali il re doveva sempre rispondere del proprio operato) il momento di reagire.
E' questa l'occasione per Livio di descrivere un antico rito, quello del feziale. Considerabile un magistrato per l'importanza e l'ufficialità dei suoi compiti ed un sacerdote per la sacralità del suo ruolo, il feziale aveva l'incarico di chiedere soddisfazione a quelle popolazioni che avevano recato danno o offesa al popolo romano e, non ottenendola, di formalizzare la dichiarazione di guerra.
La descrizione di Livio del rituale che il feziale doveva eseguire è minuziosa: dopo essersi coperto il capo con una benda di lana egli pronunciava un solenne giuramento chiamando Giove a testimone del suo operato.
La formula, comprensiva delle richieste che era incaricato di presentare, veniva più volte ripetuta nel corso del viaggio dalle porte di Roma al Foro della città con la quale si era aperto l'incidente diplomatico.
Se dopo trentatre giorni il feziale non riceveva soddisfazione pronunciava un'altra formula, chiamando nuovamente gli dei a testimoni del comportamento ingiusto di quelli che ormai si potevano considerare nemici e faceva ritorno a Roma per esporre la situazione al re ed al senato. Quando una votazione aveva decretato guerra il feziale tornava presso il nemico, questa volta portando con se dei testimoni, pronunciava la dichiarazione di apertura del conflitto e scagliava una lancia dalla punta di ferro tinta di sangue.
Sono alcuni particolari, la benda di lana, la lancia insanguinata, il ripetere la formula alla prima persona incontrata che ci fanno avvertire una componente di magia nel rito del feziale, rito attribuito dalla tradizione ad Anco Marzio o a Numa Pompilio ma le cui origini, in realtà, risalgono a popolazioni italiche molto più antiche dei primi re di Roma.
Il feziale, ai tempi di Anco Marzio, andò a scaglaiare la sua lancia in una cittadina a sud di Roma, Politorio, e fu la guerra.
I Romani conquistarono rapidamente tutta la regione costiera circostante la foce del Tevere occupando i centri di Politorio, Ficana, Tellene dei quali non rimane identificazione certa anche se, probabilmente, i resti di Politorio corrispondono alle rovine riportate alla luce con gli scavi di Castel di Decima, nei pressi di Pomezia.
Verso il mare, dunque. L'obiettivo era quello di garantire libertà e sicurezza alla navigazione del Tevere per incentivare il commercio e, come diremmo oggi, "diversificare" le attività economiche della cittadinanza. Latini e Sabini, che avevano contribuito a formare la popolazione romana, erano gente di antica vocazione agricola e pastorizia ma la componente etrusca aveva il commercio nel sangue e forse fu proprio questa componenete a spingere i Romani verso la costa. Gli Etruschi, a voler contare gli anni sulla falsa riga della tradizione, avrebbero avuto il predominio una generazione più tardi con l'ascesa al potere della dinastia dei Tarquini ma forse già ai tempi di Anco Marzio riuscivano ad avere un peso importante nelle deliberazioni comunali.
Fare ordine nel materiale spesso confuso della storia arcaica era la missione dei memorialisti che ci hanno tramandato racconti più o meno ingenui sforzandosi di rappresentare gli eventi in maniera lineare, consequenziale. Così quando Diodoro Siculo (frammenti libro VIII) parla dell'amicizia fra Anco Marzio ed il suo giovane consigliere Tarquinio si riferisce forse a questa crescente influenza degli Etruschi nella realtà romana del settimo secolo a.C.
A fare le spese dell'espansione di Roma verso il mare furono tutti i piccoli centri, prevalentemente agricoli, che si trovavano fra la costa e la città, in particolare Ficana (non lontano dall'attuale Acilia) che venne cancellata per fare spazio al nuovo porto, il primo costruito dai Romani, il porto di Ostia.
E' dubbia la datazione della fondazione di Ostia all'epoca di Anco Marzio: Pallottino non la esclude, anzi ritiene che i trovamenti archeologici la confermerebbero mentre altri collocano la costruzione del primo porto fra la seconda metà del quinto secolo ed i primi anni del quarto.
Probabilmente la tradizione è derivata dall'esistenza in epoca arcaica di un luogo di culto e di un modesto abitato nei siti dove più tardi sorse il vivace centro urbano del quale gli scavi di Ostia Antica rendono testimonianza.
A causa dei cambiamenti del territorio intervenuti nei secoli, gli scavi si trovano oggi a circa due chilomentri dalla costa mentre nell'antichità quell'area si affacciava sul mare non lontano dallo sbocco del Tevere nel Tirreno, il nome Ostia, infatti, deriva dalla parola latina "Ostium" che significa "foce". Nei pressi si trovavano le antiche saline che Anco Marzio sistemò per garantire un migliore approvvigionamento di sale alla sua capitale.
Che Anco Marzio abbia fondato o meno il porto di Ostia è, dopo tutto, questione di secondaria importanza. Possiamo comunque ritenere che la foce del Tevere fosse già un porto naturale per piccole imbarcazioni e che comunque sul finire del settimo secolo in quei pressi sorse un abitato che qualcuno vuole considerare la più antica colonia romana.
Per collegare questa colonia e le sue saline a Roma, forse ampliando un antico sentiero, nacque la via Ostiense che correva parallela alla riva sinistra del Tevere e che ancora oggi attraversa l'Agro Romano fino alla costa.
Quanto agli abitanti di Politorio e degli altri centri conquistati, furono deportati a Roma (come già gli Albani ai tempi di Tullo Ostilio) e vennero loro destinate alcune aree del colle Aventino e, più tardi, del Gianicolo.
Anche se non erano considerati prigionieri, questi deportati non furono certo ammessi a godere di tutti i diritti dei cittadini romani ed andarono a fondersi con il proletariato urbano contribuendo ad originare quella estesa e composita classe sociale che, con il nome di plebe, tanta importanza avrà nella storia repubblicana di Roma. L'Aventino in particolare rimase sempre legato alle sorti della plebe (ciò che indica ancora una volta un collegamente fra realtà e tradizione stabilitosi nei secoli tramite eventi e processi ormai non più ricostruibili) si pensi ad esempio alla secessione della plebe nel 459 a.C., iniziata appunto sull'Aventino, o alla "lex Icilia" del 459 che concedeva ai plebei la possibilità di costruire su quel colle abitazioni che avrebbero potuto vendere o trasferire agli eredi.
Probabilmente quanti furono sistemati da Anco Marzio sull'Aventino rimasero in contatto con le popolazioni di origine e nel tempo altri abitanti li raggiunsero attratti dalle possibilità della città che stava crescendo. Non è forse illecito paragonare l'Aventino di età antica ad un quariere di oggi, in una qualsiasi città occidentale, abitato dagli immigrati. Infatti nella generazione successiva a quella di Anco Marzio fu costruito sull'Aventino il Tempio di Diana che divenne sede della confederazione delle popolazioni laziali che orbitavano nella sfera politica romana.
Quanto al Gianicolo si trattava a tutti gli effetti di un'area extraurbana che fu annessa più per evitare che fosse occupata da nemici che per reale necessità di spazio. Situato oltre il Tevere, quel colle che offre oggi una delle più belle viste panoramiche sulla città, rimase sempre al di fuori delle mura. Solo l'imperatore Aureliano, che regnò dal 270 d.C. al 275 d.C., ne comprese una piccola parte nella cerchia muraria che volle costruire per difendere l'Urbe dalle ormai prevedibili invasioni barbariche, poi si dovette attendere fino al 1642 quando il colle entrò finalmente a far parte dell'area cittadina con la costruzione delle mura di Urbano VIII, mura che duecento anni più tardi sarebbero servite, contro i Francesi, a Giuseppe Garibaldi.
Fuori dalla città, dunque, o se si preferisce "a quattro passi da Roma" fu costruito ai tempi di Anco Marzio un nuovo quartiere popolare sul Gianicolo e subito sorse il problema di recarvisi dalla città (e viceversa) dato che l'antico guado del Tevere a valle dell'Isola Tiberina non era certamente adeguato alle nuove esigenze.
Il problema fu brillantemente risolto con la costruzione del primo ponte sul Tevere, il Ponte Sublicio, che prese il nome dalla parola volsca "sublicae" indicante le travi di legno con le quali era costruito. Questo ponte, che si trovava più a monte dell'attuale Ponte Sublicio (che è opera del ventesimo secolo) risaliva certamente all'età arcaica ed era legato nella tradizione romana ad episodi eroici (lo difenderà Orazio Coclite sbarrando da solo il passo agli Etruschi) e a rituali religiosi. Da questo ponte infatti i Romani usavano gettare gli Argei, sorta di fantocci di paglia, dopo aver attraversato la città in processione, come racconta Varrone.
Il concetto stesso di ponte, del resto, richiamava alla mente dei Romani un'idea di sacralità, lo dimostra il fatto che a vigilare sulla costruzione e sulla manutenzione dei ponti di Roma erano chiamati i Pontefici che forse proprio da ciò traevano nome e che rivestirono sempre la massima autorità in campo religioso.
Molto si lavorò e costruì lungo le sponde del fiume all'altezza di Ponte Sublicio: il Gianicolo venne fortificato e vi fu stanziata una guarnigione per vigilare sulla navigazione fluviale mentre sulla riva opposta nasceva il Foro Boario, cioè il mercato del bestiame, nel sito dell'attuale piazza della Bocca della Verità.
Con il crescere della città, scrive Livio, in una grande moltitudine di uomini divenne più difficile distinguere il bene dal male e vennero commessi molti delitti. Per frenare, con il terrore della punizione, l'audacia dei criminali venne costruito il primo carcere di Roma. Oggi lo si visita, quel carcere, a due passi dal Foro Romano sotto la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami. Nel Medioevo prese il nome di Carcere Mamertino ma gli antichi lo chiamavano Tulliano, da "Tullus", sorgente. Si trattava infatti di una cavità nella cinta muraria che proteggeva il Campidoglio e vi sgorgava una piccola fonte, in origine probabilmente quella cella circolare era stata una cisterna destinata a raccogliere le acque sorgive, poi tramutata in luogo di detenzione.
Nel secondo secolo a.C. il carcere venne ampliato con la costruzione di una seconda cella sovrastante la precedente alla quale era collegata soltanto da un foro nel pavimento ed ai tempi di Ottaviano venne restaurato assumendo l'aspetto attuale. Per secoli vi morirono i nemici dello Stato, quanti cioè, sconfitti nelle lotte politiche o caduti in disgrazia presso i potenti, venivano segnati con questo marchio di infamia, fu questo - ad esempio - il destino di Gaio Sempronio Gracco e di Seiano. Nell'oscurità umida della cella inferiore trovarono la morte per strangolamento anche illustri prigionieri di guerra dopo aver subito l'umiliazione di sfilare dietro al carro del trionfatore: così Giugurta, re di Numidia, così Vercingetorige sconfitto da Giulio Cesare.
Nel Medioevo nacque una leggenda che alla lunga portò alla consacrazione del Carcere Tulliano. Si diceva che qui era stato detenuto, prima del martirio, San Pietro che aveva usato l'acqua del "tullus" per battezzare i suoi compagni di prigionia. Quando fu scaraventato nella cella inferiore - precisava la credenza popolare - l'apostolo colpì la parete con il capo lasciando un'impronta che, protetta da una grata, fu a lungo oggetto di venerazione.
La città dunque cresceva e veniva arricchita di nuove opere ed edifici, ma nei suoi dintorni non regnava la pace: quanti erano già stati sottomessi dalle armi romane, come i Fidenati, di tanto in tanto si ribellavano; quanti erano ancora indipendenti come i Sabini o gli abitanti di Vejo approfittavano di ogni occasione per razziare il territorio romano. Così, almeno, riferisce Dionisio di Alicarnasso che racconta come Anco Marzio, mentre era impegnato contro i Latini di Politorio, Medullia e Ficana fu costretto ad intervenire anche a Fidene in rivolta.
Situata nel punto in cui la Salaria più si avvicina al Tevere, Fidene godeva di un'ottima posizione sulle vie del commercio fra Sabini, Romani ed Etruschi, posizione che la rendeva particolarmente interessante per chi quegli scambi commerciali intendeva controllare e dominare. Ma i Fidenati erano gente orgogliosa ed irrequieta e mal sopportavano la supremazia romana. Sottomessi già ai tempi di Romolo continuarono per secoli, spesso con l'aiuto dei Veienti, a cercare la libertà tramite la rivolta e solo nel 435 a.C. il dittatore Quinto Servilio Prisco riuscì ad averne definitivamente ragione. Nel corso dell'insurrezione contro Anco Marzio i Fidenati si comportarono in modo particolarmente sleale: alla vista dell'esercito romano attribuirono i disordini all'iniziativa privata di pochi facinorosi e chiesero tempo per individuare i colpevoli ma in realtà, come fu scoperto, stavano organizzando una più grave offensiva.
Anco Marzio assediò Fidene e per prenderla rapidamente fece infiltrare i soldati nell'abitato attraverso cunicoli sotterranei. E', questo dell'assedio risolto tramite uno stratagemma, un topos caro alla storiografia tradizionale così come quello della slealtà del nemico, del suo comportamento sempre aggressivo ed ingiusto. Per l'antico storico romano, a prescindere dai fini propagandistici che spesso le circostanze politiche del suo tempo imponevano, si trattava di trovare una motivazione eticamente giustificabile per le gesta dei condottieri e, nello stesso tempo, di mettere in evidenza le doti morali, il coraggio e l'acume di quei comandanti collocandoli nel novero delle glorie nazionali romane. Questa tendenza, e gli espedienti per soddisfarla, sono più comuni nella narrazione delle epoche arcaiche che favorivano con il loro sapore di mito il ritratto di personaggi eroici ed assolvevano l'autore da ogni tema di smentita grazie alla loro distanza nel tempo.
Anche i Sabini tentarono la guerra contro Anco Marzio ma furono presto sconfitti e proposero una pace che il re accettò volentieri per non dover distogliere le sue risorse militari dal fronte latino.
Più grave fu, alcuni anni dopo, lo scontro con Vejo. L'oggetto del contendere era lo sfruttamento delle saline del Tevere che i Veienti avevano ceduto a Romolo con un trattato, dette saline dei "septem pagi", dei sette villagi.
Anche Vejo, come Fidene, combattè per secolo contro Roma una guerra per il possesso del territorio e per il controllo del commercio, guerra della quale questo contro con Anco Marzio è soltanto un episodio. Ma Vejo era più grande e forte di Fidene, protetta da una possente cinta di mura di tufo i cui resti sono ancora visibili e dotata di un sofisticato sistema idraulico che in caso di assedio metteva la cittadinanza al riparo dalla sete.
Anco Marzio combattè due battaglie contro i Veienti, a distanza di due anni, vincendole entrambe ed assicurando definitivamente a Roma il possesso delle saline, tuttavia il nemico era battuto ma non debellato e dovranno trascorrere più di due secoli di continua ostilità e di periodici conflitti prima che Furio Camillo conquisti e distrugga l'antica città etrusca.
L'ultima guerra di Anco Marzio fu combattuta contro i Volsci di Velitre e si concluse rapidamente con un trattato di pace.
In quegli anni era giunto a Roma un uomo di Tarquinia, figlio di un esule greco, ed era diventato un porsonaggio di rilievo alla corte di Anco Marzio. Livio lo chiama Lucumone (che in effetti era parola etrusca che significava re) e spiega che, una volta stabilitosi fra i Romani volle assumere il nome latino di Lucio Tarquinio.
Le influenze etrusche nella vita di Roma nel settimo secolo sono documentate dai reperti archeologici e dalle analogie dell'alfabeto latino con quello usato nelle iscrizioni etrusche, ma quell'antica e per molti versi ancora misteriosa gente che abitava la Toscana e l'Alto Lazio era a sua volta sensibile a molti elementi culturali greci. Tutto questo spiega forse, come si è già visto, elementi del racconto quali la presenza di Tarquinio presso Anco Marzio e la sua origine corinzia.
Quando Anco Marzio morì dopo ventiquattro anni di regno (intorno al 614 a.C.) gli interreges elessero re Lucio Tarquinio. Con la morte di Anco Marzio, che lasciava due figli che più tardi cercarono di prendere il potere, si chiudeva l'epoca della monarchia di origine sabina e si apriva quella della dinastia etrusca. Questo transito descritto dalla tradizione adombra forse un periodo di sottomissione di Roma agli Etruschi la cui memoria era troppo negativa ed umiliante per essere tramandata dagli antiquari latini.
Certo è che cambiamento ci fu, e fu importante perché si concludeva il periodo dei "re agrari" e Roma, aprendosi alla cultura etrusca ed ai suoi forti influssi ellenizzanti si apriva al commercio, alla navigazione, a una più ampia concezione del mondo. Di quel mondo che era destinata a dominare.