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I BANCHETTI DELL'ILIADE
Mi sembra giusto riconoscere ai Greci il primo posto in questa rassegna, non fosse altro, per il primato di Platone nella "Letteratura Conviviale". Del resto già nei poemi omerici alle scene di banchetto è riconosciuto un ruolo di tutto rispetto, forse perché, come si ritiene, quei versi erano spesso cantati o declamati di fronte ad un pubblico intento, appunto, a banchettare o forse perché, come nota Luciano De Crescenzo con bonaria ironia, in tempi magri quelle descrizioni di opulenza assumevano un fascino intrigante e consolatorio.
E' un fatto che raramente il potente Agamennone, nell'intero corso dell'Iliade, prende una decisione o consulta i principali capi del suo esercito se non di fronte alle carni fumanti degli animali arrostiti, raramente ordina o discute se non tenendo in mano uno di quei calici che il traduttore Monti chiama "nappi", sempre colmo di vino, sia pure diluito come gli antici usavano fare.
Anche per i misteriosi Inni Omerici è lecito immaginare il cantore intento ad esibirsi nella sala da pranzo di questo o di quel signore locale mentre intorno a lui si beve e si mangia vino e cibi ai quali, terminata la declamazione, anche all'aedo sarà concesso accostarsi.
E' breve la delusione per il lettore moderno nello scoprire che il mitico Omero, il vate cieco autore dei poemi immortali, forse non è mai esistito e che il suo nome - al quale si attribuiscono ipotetiche etimologie più o meno complicate - rappresenta in realtà generazioni di verseggiatori che si chiamano rapsodi, così numerosi e diffusi da costituire una vera e propria categoria professionale, proficuamente attiva per secoli e secoli. La delusione è breve, dicevo, se la si considera subito compensata da un senso più universale e pregnante che la parola "tradizione" viene ad acquisire. Forse nessun altro esempio offre la letteratura occidentale che sia così chiaro ed importante di quel processo che potremmo definire "genesi del mito" le cui origini si perdono nella preistoria. Sulla trama inesauribile dell'epos si intrecciano tutti i prodotti dell'immaginario poetico, religioso e popolare di un'età lunghissima e creativa senza la quale la "nostra" vita sarebbe oggi imperscrutabilmente diversa. Ma questa sorta di testamento dell'uomo antico in favore dell'uomo moderno non reca soltanto miti complessi e straordinari, ma anche le tracce di un vissuto elementare e realistico, né potrebbe essere altrimenti. Fra queste tracce, come sempre, il cibo, il banchetto, il nutrirsi.
Il cibo che ridona le forze spese nella fatica e nel combattimento, il banchetto che con una sua solennità in qualche modo sancisce l'importanza del momento della decisione, il nutrirsi che arriva ad essere di quando in quando, sentito o suggerito come reazione catartica all'orrore della devastazione, dove ogni valore dell'uomo è compresso, talvolta schiacciato, dalla presenza universale ed immancabile delle cose di guerra.
Certo la guerra di Troia, così come descritta nell'Iliade è la più famosa della letteratura ed anche la meno credibile per i suoi momenti cavallereschi, per lo stuolo di eroi "deiformi" che il rapsodo non manca di elencare in un lungo e minuzioso "catalogo", per i frequenti interventi divini, per i pittoreschi duelli. Chi scrive non cesserà di ringraziare le stelle per non aver mai dovuto misurarsi con alcunché di militare ma, nonostante la personale inesperienza, ritiene di aver sentito e letto abbastanza di guerre per poterle immaginare ben diverse ed assai più feroci della kermesse omerica.
Quello che in Omero è eroismo, nella realtà temo che sia un coacervo di emozioni, dalla disperazione all'incoscienza, dall'abnegazione alla rabbia. Le stragi che l'aedo descrive con pittoreschi paragoni che non di rado tirano in gioco la forza della natura, corrispondono nella guerra vera e propria a scene atroci che esprimono quanto di più aberrante e bestiale la natura umana può arrivare a dimostrare.
E' forse proprio questa poetica illusione che riscatta il poema e ne fa un capolavoro, che fa perdonare a quei greci l'aver insegnato a centinaia di generazioni di ragazzini a giocare a "Io ero Achille, tu Ettore". Del resto non è certo colpa di Omero se i maestri di scuola raccontano delle meravigliose armi di Achille e tacciono sulla fine di Astianatte, infante figlio di Ettore strappato alle braccia della madre e precipitato dalla torre più alta per vendetta e prudenza, perché crescendo non abbia ad emulare le gesta paterne. Questi ed altri aspetti non si raccontano ai bambini, se mai li leggeranno più avanti quando, ormai, come sia fatta una guerra vera l'avranno appreso dai giornali e dalla televisione, se non per esperienza personale.
Ma torniamo ai nostri "ghiottoni" che, come si diceva, nell'Iliade sono numerosi ed assidui. Valga, per tutto il poema, l'esempio della notte narrata nei canti nono e decimo. L'inattività di Achille sta compromettendo la situazione degli Achei a tutto vantaggio dei Troiani, in particolare di Ettore che non perde occasione per dar spettacolo del proprio valore sul campo di battaglia.
Achille, del resto, non si è limitato ad incrociare le braccia ed a ritirare dalla flotta il nutrito contingente di Mirmidoni del quale è comandante, ma ha chiesto alla sua divina genitrice, la nereide Teti, di intercedere per lui presso Zeus perché, con la disgrazia degli Achei, soddisfi il suo astio e la sua sete di vendetta. Teti lo ha accontentato e dal canto suo Zeus, proverbialmente sensibile al fascino femminile, non ha saputo negare alla ninfa marina il favore richiesto.
Quella notte, dunque, il morale dei greci era prossimo alla disperazione ed è un ben triste banchetto quello che Agamennone offre ai suoi più fidati consiglieri. Gli eventi hanno portato l'altero monarca a stemperare la propria superbia ed egli è ora pronto a ricompensare Achille di ogni offesa e a promettergli grandi onori e doni degni di un re, ma Achille si trova nel suo accampamento, inavvicinabile.
Si decide infine di inviare da lui una delegazione ben assortita, la compongono Ulisse, Aiace Telamonio e l'anziano Fenice. I motivi della scelta sono evidenti: Ulisse è maestro di astuzia e di eloquenza, nessun miglior persuasore può vantare il campo acheo. Aiace è fra i più valorosi eroi della guerra, affine ad Achille per età e per vigore, probabilmente è o potrebbe essere suo amico oltre che commilitone. Fenici, infine, è una sorta di precettore di Achille che l'anziano Peleo ha inviato a Troia con il figlio, per consigliarlo a vegliare su di lui.
Achille, tuttavia è inamovibile. Ha deciso di abbandonare il campo e di tornare a Ftia, la sua terra dove vivrà una vita lunga e serena, rinunciando alla sua gloria. Ribadisce la sua determinazione durante un colloquio che ovviamente, si tiene a tavola. Non intendendo venir meno ai doveri dell'ospitalità, egli ha infatti offerto un banchetto ai tre ambasciatori che hanno accettato senza esitazioni nonostante abbiano nonostante abbiano appena lasciato il desco di Agamennone.
Le offerte e le promesse di Agamennone sono dunque inutili e tardive, Achille non è più disposto a sacrificarsi per lui, a farlo partecipe della gloria delle sue gesta e della sua morte, preannunciata e famosa: agli ambasciatori non rimane quindi che rientrare delusi.
Ma la notte, almeno per Ulisse è ancora molto lunga. Durante la sua assenza, infatti, l'amico Diomede si è preparato per compiere una missione di spionaggio presso il campo nemico ed Ulisse, appena rientrato, si offre di accompagnarlo. Diomede accetta volentieri la sua compagnia, "Se andiamo insieme - gli dice - riusciremo a passare perfino fra le fiamme". Forse proprio questo brano aveva presente Dante quando presentò gli spiriti dei due eroi avvolti dalla stessa "fiamma antica".
Avvicinandosi al nemico Ulisse e Diomede intercettano il troiano Dolone che a sua volta cercava di spiare le intenzioni degli achei. Nella speranza di salvarsi Dolone fornisce loro preziose informazioni sugli alleati di Troia, in particolare sul contingente dei Traci, appena giunto al comando di Reso.
Diomede uccide Dolone nonostante la promessa di immunità di Ulisse, quindi i due si introducono furtivamente nel campo dei Traci e qui uccidono Reso nel sonno. Rubati i destrieri di Reso ritornano alla tenda di Agamennone, galvanizzati dal successo dell'impresa notturna. I compagni, che li attendevano con grande preoccupazione, vogliono festeggiare degnamente il loro ritorno e tutti insieme, giocondamente, siedono a banchetto ringraziando gli dei. A ben contare, almeno per Ulisse, si tratta del terzo pasto durante la stessa notte !