4/vgF0McT6WBi1RPOKg40mK96lk1bJq1dTncfbVzjMYsVgdkLfU3L2ZoQ

Sunelweb
    
Guida rapida
A B C D E F G H I J K L M
N O P Q R S T U V W Y Z  

FRANCISO DE QUEVEDO Y VILLEGAS

SUEÑOS



Composta fra il 1607 e il 1622, l'opera è costituita da una serie di brani corrispondenti ad altrettanti sogni nei quali l'autore dimostra il suo spirito satirico tratteggiando tipi umani, difetti e peccati con estrema efficacia.
Il tono è sempre divertito e divertente, ma il contenuto è spesso serio e di genere morale, tanto che la locuzione castigat ridendo mores si direbbe creata proprio per Quevedo.

Il sogno del Giudizio


E' giunto il giorno del Giudizio Universale nel sogno di Quevedo: i morti escono dalle tombe rimettendo insieme come possono le proprie ossa, spesso incomplete o frantumate.
Non tutte le anime voglionio ricongiungersi alle loro membra mortali: i ladri non vorrebbero riavere le mani, i guardoni lussuriosi rinuncerebbero volentieri ai loro occhi.
Davanti al Tribunale dell'estremo giudizio sfilano i tipi umani che l'autore amava stigmatizzare per i loro vizi e le loro debolezze, gli angeli fanno da avvocati difensori, i demoni sono gli accusatori.
Medici e speziali, che cercano di addossarsi reciprocamente le responsabilità dei loro insuccessi, devono vedersela con la peste e le sofferenze che, affermano, sarebbero state molto meno incisive senza l'aiuto di questi dottori della scienza medica.
Un rosticcere è costretto ad ammettere di aver confezionati i suoi pasticci con la carne di molti animali e a volte con quella dei condannati a morte. Un giudice si lava ossessivamente le mani unte dall'olio servito a renderlo più clemente.
Quevedo ride sulla vanità, quella delle donne imbellettate, quella di uno schermidore, di un vanesio cavaliere spagnolo, sulla vacuità dei discorsi di filosofi e poeti.
Colpisce con la sua ironia la disonestà dei tesorieri, procuratori, notai, banchieri, le frodi di un oste che ha venduto vino annacquato e i furti di un sacrestano che il vino lo rubava in chiesa.
Giuda e Maometto vorrebbero discutere su chi di loro ha commesso una colpa più grave ma nessuno ha voglia di ascoltarli e vengono sprofondati nell'inferno senza troppi complimenti. L'ultima comica entrata in scena è quella di un astrologo che pretende di sostenere che non si è scelto il giorno giusto per il Giudizio Universale.
Tutti, o quasi tutti, i giudicati vengono inviati all'eterna dannazione e Quevedo si sveglia contento di ritrovarsi nel suo letto: ha in mente buoni propositi per poter trovare scampo quando sarà giunta anche per lui l'ora del processo.

Della casa dei pazzi innamorati


Il secondo sogno è ambientato nella casa dei pazzi innamorati. Si tratta di un magnifico palazzo circondato da un giardino nel quale scorrono due ruscelli, uno di acqua amarissima, l'altro di acqua dolcissima.
Nel palazzo si apre un grande portale tramite il quale entrano continuamente molte persone. Anche Quevedo vi entra attratto dalle grazie dell'affascinante portinaia che non a caso è la Bellezza fatta persona.
Gli ospiti del palazzo sono tutti pazzi, nel senso che la loro mente è obnubilata dagli effetti dell'amore, il Nostro, invece, visiterà il palazzo proprio per evitare di ammalarsi della stessa infermità: mentre stava "fantasticando in un amoroso pensiero", infatti, il genio del disinganno lo induce a questa esperienza per mostrargli le dolorose conseguenze dell'amore.
Quevedo entra in un grande cortile dove trova una folla di persone pallide e macilente. Fra quei volti sconvolti si aggira un essere androgino dotato di molti occhi e molte orecchie che spiega al visitatore di essere la Gelosia, colei che tormenta gli sciagurati che si trovano in quel luogo, colei che raramente dice la verità.
Un vecchio gentile, che accoglie garbatamente Quevedo e gli indica la via da seguire, è il Tempo.
Dal cortile l'Autore passa a visitare una serie di ambienti abitati da donne impazzite per amore, ossessionate dalla gelosia o dal desiderio, come quelle che scrivono continuamente lunghe e confuse lettere appassionate, come quelle che spendono il loro tempo davanti allo specchio per rendersi più affascinanti.
Ci sono donne maritate furibonde per i vincoli imposti loro dai mariti e quelle che volentieri approfittano delle assenze dei coniugi per tradirli.
Ci sono vedove spesso consolabili e consolate, ci sono le "ciarlone" mantenute da uomini ricchi e le "dame da celibato" facili da conquistare.
Quevedo, si sa, è un misogino e non perde occasione per sferzare la vanità, l'infedeltà e ogni altro difetto femminile, ma anche verso gli uomini innamorati non si lascia intenerire.
Passato infatti agli ambienti del palazzo occupati dagli uomini vi trova personaggi che più che pazzi sembrano dementi. La loro malattia, spiega, è il desiderio inesauribile di stare con le donne e non ne vogliono guarire.
Perdono la propria dignità esibendosi con abbigliamenti indecorosi e con stolte vanterie, dissipano i loro beni per accontentare le donne che amano, a volte ignorano o fingono di ignorare i tradimenti delle mogli e anzi diventano amici degli amanti di queste. Tutti, donne e uomini, si disperano per amore, si arrovellano per ottenere ciò che vogliono, tramano per prendere per se il compagno o la compagna altrui.
Al termine della visita Quevedo si ritrova nel primo cortile e ora, con le idee più chiare, distingue cose che prima non aveva notato: il Tempo lentamente restituisce la salute ai pazzi, la Gelosia castiga la fiducia nella persona amata, la Memoria fa bruciare vecchie ferite, l'Intelletto è rinchiuso in un carcere oscuro, la Ragione è stata privata degli occhi così che nulla possa vedere di quanto accade nella casa dei pazzi.
Una porta, piccolissima, è quella da cui passano quei pochi che guariscono grazie all'ingratitudine o all'infedeltà di chi hanno amato.
La usa Quevedo per uscire dal palazzo risvegliandosi nel suo letto.

Dell'interno del mondo


Quevedo vive seguendo i suoi desideri, le sue inclinazioni, la vanità e l'ambizione quando gli appare un vecchio decrepito miseramente vestito che lo mette in guardia facendogli notare come il tempo perduto non tornerà e come i giorni formino una catena al termine della quale c'è la morte.
Quel vecchio e il Disinganno e lo invita a vedere il mondo con i suoi occhi per comprendere come ciò che è all'interno delle cose sia diverso dalle apparenze.
La strada principale del mondo si chiama Ipocrisia e ben pochi non vi hanno una casa o almeno una camera.
Inizia la rassegna degli ipocriti e degli ingannatori: l'uomo di umile condizione che si spaccia per gran signore con servi che non paga e falconi a cui non può dare da mangiare; il finto sapiente; i vecchi che cercano di ingannare sull'età; giovinastri che si danno importanza.
Un sarto si veste come un cavaliere e un bottaio si definisce sarto di Bacco perché confeziona gli abiti del vino.
Anche le manifestazioni di dolore sono spesso ingannevoli: è finzione il cordoglio di quanti seguono il funerale di una signora, è finzione il lutto delle amiche di una vedova che mentre la consolano le consigliano di trovare un amante.
Uno sbirro insegue un ladro e Quevedo lo crede giusto e coraggioso ma il Disinganno spiega che lo sbirro è adirato perché non ha avuto la sua parte di bottino. Anche i notai, spesso produttori di documenti falsi e false testimonianze, fanno la loro parte lungo la via dell'ipocrisia.
Infine una meretrice affascina Quevedo per la sua bellezza ma il Disinganno avverte che è l'ennesima finzione e che togliendo belletti, busto e parrucca rimarrebbe soltanto un'orribile creatura.

Della morte


A precedere o provocare questo sogno sono alcune letture che hanno per tema centrale la brevità della vita umana: Lucrezio, il Libro di Giobbe, un sonetto del Cavalier Marino.
La visione ononirica ha inizio con una sfilata aperta da numerosi medici a cavallo di mule sontuosamente bardate. Hanno lunghe barbe, dita inanellate e un nutrito seguito di praticanti pieni di adulazione per i loro maestri.
Il corteo prosegue con gli speziali armati dei loro strumenti e medicinali dai nomi oscuri ed inquietanti (anche quando in realtà sono solo decotti di legumi e radici), poi vengono i cerusici, quelli del "taglia, trapana, sega", i cavadenti, i barbieri e infine la folla dei chiacchieroni, pettegoli, seminatori di discordia, mediatori di affari altrui.
Al termine della sfilata si presenta una donna dal bel portamento, carica di gioielli, corone, scettri ed altri segni del comando, ma il suo aspetto è misterioso: procede con un occhio aperto e uno chiuso, da una parte sembra giovane, dall'altra vecchissima e il vestito dai mille colori, l'andatura ineguale ricordano a tratti un Arlecchino della commedia italiana.
A Quevedo che le chiede chi sia risponde "Sono la morte" e lo invita a visitare il suo regno. Insieme alla sua guida Quevedo entra in un antro dove i tre nemici dell'anima, il Mondo, la Carne e il Diavolo, lottando contro il più forte di tutti: il Demonio Pecuniario.
Chi non ha denaro, infatti, è inutile al mondo e chi ne ha e lo perde viene bandito, non esiste altro mondo che il denaro ed anche la carne è denaro come provano le meretrici.
Il diavolo stesso si arrende al denaro perché nessun diavolo può vincere dove il denaro fallisce.
Nel regno della morte una strada separa l'Inferno dal Giudizio e Quevedo conosce già l'Inferno per averlo visto nell'ingiustizia, nell'avarizia e in tutte le colpe del mondo, mentre il Giudizio lo sorprende per la sua purezza di fronte alla quale il giudizio degli uomini è una burla.
In una pianura circondata da una muraglia regnano il dolore e la tristezza senza consolazione, tutti pronunciano maledizioni, tutti hanno funesti pensieri, fra loro si aggirano l'invidia e la discordia, luogotenenti del Diavolo.
La Morte siede con le morti subalterne: la Morte d'Amore con Piramo e Tisbe e uno stuolo di innamorati; la Morte di Freddo con una folla di ecclesiastici che corrono a spogliare i poveri malati facendoli morire di freddo; la Morte di Fame con un corteggio di avari; la Morte di Paura, circondata dai tiranni che si sono suicidati per timore della vendetta dei loro sudditi; la Morte di Ridere, quella di quanti non hanno fatto che ingannare se stessi dicendosi che c'era tempo per pentirsi.
Al richiamo di una voce misteriosa i morti escono dalla terra.
Messer Tacchino protesta di essere stato onesto ed avveduto e di non aver mai fatto del male, chiedendo il rispetto che non ha mai avuto
Re Pipino, borioso e offeso, sempre chiamato in causa per un modo di dire ("Dei tempi del re Pipino" per indicare qualcosa di molto vecchio)
In un'enorme ampolla bollono i pezzi di un negromante, quando si congiungono ricompongono un corpo capace di parlare: vuole sapere se al presente ci sia l'onore che non trovava in passato. Quevedo risponde che il ladro dice di rubare per evitare il disonore di mendicare, le donne che spogliano i mariti dicono di farlo per il decoro della famiglia, e così via.
Il negromante chiede se ci sono ancora gli avvocati e quando Quevedo gli risponde che ce ne sono fin troppi pronuncia una lunga invettiva contro di loro.
Appare infine un personaggio che prima di morire ha fatto testamento e tutti gli eredi si auguravano che morisse la più presto, mentre parla con lui Quevedo si sveglia, contento di essere ancora vivo.

Dell'inferno


In villeggiatura, Quevedo gode il fresco della sera riflettendo sulle sue visioni quando, senza rendersene conto, entra in un bosco e decide di riposare sotto un albero.
Si addormenta e sogna di trovarsi un un luogo ameno dal quale si dipartono due sentieri divergenti: il sentiero di sinistra è strettissimo e pieno di rovi, un viandante spiega al poeta che si tratta della via della virtù che si può percorrere solo a piedi nudi e senza fermarsi mai.
Quevedo sceglie il sentiero di destra, ampio e agevole, animato da molte persone distinte gran parte delle quali procedono a cavallo o in carrozza e tutti sembrano di ottimo umore. Fra scherzi e canti avanzano lungo quell'ampio viale ricco di negozi di lusso e locande, Quevedo si unisce volentieri alla compagnia, curioso di conoscerne la destinazione.
Di tanto in tanto passaggi laterali lasciano vedere la parallela via stretta e chi viaggia sulla via larga si prende gioco dei viandanti dell'altro sentiero. Da parte loro i viandanti della virtù avanzano in silenzio ma qualcuno abbandona e tramite un passaggio di comunicazione sceglie l'altro percorso e l'altra destinazione.
L'ipocrisia governa il corteo della via larga: la si vede nelle donne che adulano uomini ricchi, nella finta devozione dei bigotti, nell'ambiguità degli ecclesiastici. E poi ci sono gli avari con le loro amate ricchezze, i lussuriosi, gli orgogliosi, i fanfaroni, le mogli sanguisughe e tutto il consueto campionario di difetti umani che Quevedo esplora e descrive nei suoi sogni.
Ma giunto alla fine del sentiero Francisco si rende conto che la meta della lunga passeggiata altro non era che l'Inferno ed è colto dallo sbigottimento. Come ha fatto ad arrivare fin laggiù? Riuscirà ad uscirne? Qual è il suo destino? Ma l'angoscia dura poco perché guardandosi intorno si rende conto che molti suoi conoscenti sono con lui e che quindi l'inferno non è poi così estraneo.
Da questo punto inizia la visita vera e propria dell'inferno da parte di Quevedo, visita che in effetti non presenta grandi differenze rispetto alle rassegne di personaggi dei sogni precedenti. Qui le varie tipologie di peccatori sono messi in ridicolo con la consueta ironia e le loro pene sono in genere stabilite con una sorta di grossolano contrappasso, come quella degli adulatori condannati ad ascoltare eternamente le menzogne che si dicono l'un l'altro.
Ma la particolarità del brano sta nelle spiegazioni e nei commenti che i diavoli che lo accompagnano nella visita forniscono a Quevedo: sono sempre parole sagge, del tutto aliene dalla brutalità e dalla bestialità spesso associata alle figure demoniache, sono dei misurati filosofi che impartiscono con tranquillità la loro lezione su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che merita il premio e l'encomio e ciò che deve essere condannato e punito. Non ha senso - dice ad esempio un diavolo - quanto dicono quelli che cercano di giustificarsi dicendo di essere morti all'improvviso. Non ha senso perché tutti sanno che dovranno morire, perché la morte è sempre annunciata e perché è dalla nascita che si inizia a morire.
A volte, quando la situazione lo richiede dal punto di vista "teatrale" del racconto, i diavoli diventano sarcastici, come quelli che ridono a crepapelle per le vanterie di un signorotto che pretende di essere graziato in forza del suo rango nobiliare e che finisce, ovviamente, per essere precipitato in una fornace dopo che un diavolo si è prestato a fargli da cavalcatura per metterlo in ridicolo.
Altre volte l'autore mostra un volto più benevolo verso i condannati, quasi dubitasse della giustizia della pena: con questo sguardo osserva la meretrice che nega di aver fatto del male, gli innamorati condannati per l'eccesso della loro passione per la quale ancora piangono e piangeranno in eterno, un Cupido sporco, rognoso, con le ali spennate e l'arco rotto ... e - curioso particolare sulle credenze del tempo - i mancini che si diceva fossero maligni e portassero sfortuna.
Ma per altri Quevedo non ha pietà e constata con soddisfazione le pene eterne dei "Devoti impertinenti" che pregavano solo per il loro tornaconto e arrivavano a offrire a Dio o ai Santi ricompense in denaro per la soddisfazione delle loro speranze, dei curatori ciarlatani, dei disprezzati speziali, dei rosticceri avvelenatori della loro clientela, dei mercanti fraudolenti.
Ma all'inferno è molto caldo e Quevedo vuole uscire, sarà guidato da un altro diavolo fino al fondo dell'inferno dove troverà una piccola porta che gli consentirà di tornare alla vita di tutti i giorni, ma per raggiungerla dovrà attraversare la sede degli eresiarchi, dei bestemmiatori, dei fondatori di sette. L'ultimo incontro è con i potenti della Terra alla corte di Lucifero: monarchi, sultani, imperatori che stipati tutti insieme in un locale formano il seggio sul quale poggia il deretano del signore degli inferi.
Quevedo conclude il brano con il dubbio di poter aver commesso qualcuna delle colpe che ha visto punite nell'inferno e in un saluto al lettore precisa che non tutti gli esseri umani sono come quelli che ha descritto.

Racconto dello sbirro indemoniato


Questo racconto è in pratica una variannte del brano precedente in quanto, pur cambiando l'ambientazione, gli argomenti trattati sono identici ed anche qui il principale interlocutore è un demone.
Quevedo, infatti, dice di aver assistito nella sacrestia di un convento al misero spettacolo di uno sbirro posseduto da un demone mentre un religioso tentava di praticare un esorcismo. L'uomo si esibisce nel consueto repertorio degli indemoniati: volto sconvolto, voce non sua, grida, orribili smorfie, ecc. ma quando Quevedo chiede di poter parlare con lo spirito che invade quella persona il demone comincia ad esprimersi in modo più che corretto e prima di tutto precisa che non si tratta di uno sbirro indemoniato ma di un diavolo umanato o se si preferisce si un diavolo isbirrito, tanto maligna ed infida è infatti la natura dello sbirro che sarebbe difficile stabilire se sia peggiore l'invasore o l'invasato.
Demoni e sbirri, spiega lo spirito, hanno analoga funzione ma gli sbirri la svolgono solo per dare un senso alle loro misere vite. I demoni sono angeli caduti per ambizione, gli sbirri sono i rifiuti del genere umano.
L'esorcismo non funziona sugli sbirri, l'acqua benedetta li brucia ma non in quanto benedetta ma proprio perché acqua, bevanda che aborriscono.
E, come si è detto, il discorso continua con argomenti simili a quelli del racconto precedente con i soliti brucianti sarcasmi sulle debolezze e i vizi umani, quando una porta viene aperta e la sacrestia si riempie di curiosi. Fra loro Quevedo riconosce un esattore fiscale che ha rovinato un suo amico.
Il diavolo afferma che gli appaltatori del fisco sono i figli di Lucifero e che vorrebbero tassare anche l'ingresso all'inferno: se lo faranno i diavoli si vendicheranno non lasciandoli più entrare così non avranno un posto dove andare..
L'indemoniato indica l'esattore che, vistosi riconosciuto, si confonde e fugge. Vorrebbero inventare continuamente nuove gabelle, prosegue il demone, sulla nudità del collo e delle tette delle donne, sul lusso degli abiti e degli ornamenti, sulle carrozze dei convegni amorosi, sui mobili e suppellettili, sui caffè, sulle accademie ... tutte cose che se limitate toglierebbero tanti clienti all'inferno.
E quando Quevedo si informa sugli uomini di legge all'inferno il demone risponde con un apologo: la Verità e la Giustizia vennero sulla Terra ma nessuno le accolse perché la prima era nuda e la seconda troppo severa. La Verità trovò infine alloggio in casa di un muto mentre la giustizia si ritirò nei villaggi della gente semplice ma dopo un po' di tempo fu scacciata anche da lì e tornò in Cielo lasciando sulla Terra soltanto il suo nome.
E allora ... tutti rubano ed uccidono secondo il loro talento e la loro capacità ma il peggiore di tutti è lo sbirro di cui anche i diavoli hanno disprezzo e timore. Gli esseri umani sono una massa di ipocriti e quando non peccano lo fanno per paura o per debolezza, mai per giustizia.