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MARCO ANNEO LUCANO

FARSAGLIA o LA GUERRA CIVILE





Libro Primo
L'argomento dell'opera è presentato dalle prime righe come guerra atroce, "crimine divenuto diritto", i legami familiari non rispettati, infranta l'unità dell'impero. Una guerra tra concittadini in cui furono coinvolti anche popoli nemici.
Con tanto sacrificio di sangue, Roma avrebbe potuto conquistare altri territori e sottomettere altri popoli, ma se questa guerra fu la via del fato verso il regno di Nerone, allora la si dovrà accogliere volentieri.
Con un encomio il poema viene dedicato dal poeta all'imperatore ma la critica moderna riconosce in questi versi un atteggiamento ironico verso la presunzione di Nerone. Lucano si propone il difficile compito di rivelare le cause di eventi così grandi. Roma era diventata proprietà comune a tre padroni (il primo triumvirato) ma il potere non tollera spartizioni come dimostrò il sangue fraterno versato sulle prime mura di Roma (si allude al sangue di cRemo versato da Romolo).
L'unico ostacolo alla guerra civile era la partecipazione di Crasso al potere ma Crasso morì in guerra contro i Parti. Il legame tra Cesare e Pompeo era ancora costituito da Giulia, figlia del primo e moglie del secondo, ma anche lei morì lasciando i due rivali liberi di battersi. Pompeo era più anziano e temeva che la gloria delle sue imprese fosse oscurata dai successi di Cesare. Questi, più giovane fiero e indomito non indugiava mai nell'impugnare le armi quando gli si offriva l'occasione di una vittoria.
Intanto anche tra i cittadini covavano i germi della guerra, le eccessive ricchezze introdotte a Roma con le conquiste militari guastarono i costumi e rovinarono l'antica semplicità.
I popoli delle Gallie
Vosgi
Lingoni
Ruteni
Nemeti
Tarbelli
Santoni
Biturigi
Suessoni
Leuci
Remi
Sequani
Belgi
Arverni
Nervi
Sarmati
Vangioni
Batavi
Pittoni
Toroni
Anzi
Treviri
Liguri
Caici
Cesare superò di slancio le Alpi (veniva dalla Gallia) e giunse al Rubicone dove ebbe la visione della Patria, una solenne e canuta matrona che gli ordinava di fermarsi. Cesare non obbedì e portò rapidamente le sue insegne oltre il fiume. Invocando l'aiuto della fortuna, Cesare marciò sulla vicina Rimini e piantò le insegne nel Foro. I giovani di Rimini accorsero riprendendo le armi da lungo tempo inutilizzate.
Intanto a Roma il senato espelleva dalla città i tribuni dissidenti che, accompagnati da Curione, raggiunsero il campo di Cesare per mettersi ai suoi ordini.
Curione incitò Cesare alla guerra e Cesare, eccitato dalle sue parole, riunì i suoi soldati e parlò per trasmettere loro la sua ira e il suo odio verso Pompeo. Rispose un tribuno decorato giurando fedeltà e tutti i presenti assentirono.
Cesare non volle indugiare oltre, richiamò a se le coorti sparse in Gallia e mosse verso Roma. A questo punto Lucano inserisce una digressione sui popoli della Gallia (vedi riquadro).
Mentre Cesare procedeva, la paura della guerra civile faceva presagire futuri disastri. Voci allarmate e non sempre veritiere si spargevano ovunque preannunciando saccheggi e crudeltà. La paura spinse la gente di Roma a fuggire in massa rendendo la città facile preda. Ovunque si verificavano presagi funesti: fulmini nel cielo sereno, improvvise tempeste, statue che piangevano, nascita di creature deformi e mostruose, animali che parlavano. I sacerdoti di Bellona annunciavano la collera degli dei, quelli di Cibele gridavano flagellandosi.
L'indovino etrusco Arrunte di Lucca fece ardere sul rogo i mostri che erano nati, quindi ordinò di purificare le mura con una processione guidata dalla Grande Vestale (che presiedeva il collegio delle Vestali) e da altri sacerdoti.
Arrunte sacrificò un toro e inorridì vedendo sgorgare dalla ferita un umore corrotto invece del sangue, le viscere erano pallide e macchiate, il fegato stillava putredine ed era diviso in due parti, l'una era marcia, l'altra pulsava celermente.
Arrunte presagì grandi sventure e pregò perché il responso non fosse veritiero. Anche Nigidio Figulo, famoso astrologo, esaminando le stelle presagì la rovina che per anni avrebbe sconvolto il mondo romano.
Invasata da Apollo, una matrona correva per la città delirando con visioni di schiere romane che si scontravano tra loro in una guerra senza nemici.

Libro Secondo
Con tanti funesti presagi, il lutto si diffuse rapidamente e Roma fu piena di matrone prive di ornamenti che si straziavano i petti e strappavano i capelli davanti agli altari degli dei mentre gli uomini in marcia per la guerra pregavano di dover combattere qualsiasi nemico ma non i propri concittadini.
Con un'ampia digressione, Lucano ricorda le vicende della guerra tra Mario e Silla intesa come antefatto della guerra tra Cesare e Pompeo. Dopo aver trionfato su Teutoni e Libici, Mario fu esiliato e si nascose tra le paludi (di Minturno) dove rimase per un'intera notte immerso in un pantano prima di essere catturato ed imprigionato, egli che sarebbe morto da console (86 a.C.) Fu protetto infatti dall'ira degli dei che lasciò che vivesse per vendicare le sventure dei popoli che aveva distrutto.
Mario fuggì in Africa e cercò la protezione di Giugurta re di Numidia. Liberò gli schiavi e i prigionieri delle carceri che forgiarono spade con il ferro delle loro catene e raccolse un esercito di qualche migliaio di uomini con il quale assediò Roma e la conquistò. Seguì una strage, neanche i templi vennero risparmiati. Fra le vittime furono Bebio Tanfilo, l'oratore Marco Antonio (il nonno del triumviro), i due Crassi (Publio Licinio Crasso console nel 97 a.C. e suo figlio) uccisi da Gaio Flavio Fimbria, i tribuni Sesto Lucilio e Celio, Quinto Muzio Scevola console nel 95 a.C.
A questi orrori seguì il settimo consolato di Mario che segnò anche il limite della sua vita e alle immense stragi si aggiunse la vendetta di Silla. Fu la strage dei partigiani di Mario, nuove proscrizioni, innumerevoli delitti.
Marco Mario Graditano, nipote e figlio adottivo di Mario, fu smembrato vivo. Preneste, nel cui tempio si trovavano i partigiani di Mario, fu presa da Silla che fece sopprimere tutti gli abitanti.
Silla assistette impassibile al massacro da lui ordinato e infine fu acclamato salvatore e padre della patria e intimò che ci si rivolgesse a lui con l'appellativo di Felix.
La digressione si conclude con l'avviso che tali sofferenze si rinnoveranno per la nuova guerra civile, ma questa volta il vincitore instaurerà un dominio assoluto molto più duraturo.
I fiumi appenninici
Metauro
Crustumio
Savio
Isauro
Sena
Ofanto
Eridano
Tevere
Rutuba
Volturno
Sarno
Liri
Sele
Magra
Il terrore non turbò il cuore di Marco Giunio Bruto che si rivolse al suo congiunto Catone per convincerlo a non prendere parte alla guerra, ma Catone rifiutò di assistere inerme alla catastrofe: avrebbe offerto volentieri se stesso per la salvezza del popolo romano.
Catone riaccolse nella sua casa la moglie Marcia che aveva ceduto all'oratore Quinto Ortensio Ortalo per garantirgli di avere dei figli. Ortalo morì nel 50 a.C. e la donna tornò dal suo primo marito. Fu un matrimonio privo dei consueti rituali, ancora vestendo il lutto per la morte di Ortalo, Marcia abbracciò Catone "come si stringono i figli".
Si sposarono in silenzio per rinnovare il vincolo nuziale, senza familiari, accontentandosi degli auguri di Bruto.
Intanto Pompeo, ritirandosi in fretta, andò ad occupare le mura di Capua, qui indicate come "mura del colono dardanio" (con riferimento al mitico Capys, compagno di Enea e fondatore della città). Pompeo scelse Capua come sua base per la guerra e qui decise di spiegare i suoi reparti. La regione che sarà teatro del conflitto viene indicata tramite l'enumerazione dei suoi fiumi, ognuno testimone di grandi eventi della storia o del mito.
Cesare percorse l'Italia Centrale dove molte città gli si offrirono spontaneamente. Parte delle città del Lazio rinforzarono le mura e prepararono la resistenza. Il popolo era più incline a Pompeo ma la sua fedeltà era incerta e il terrore e la fortuna mutavano facilmente i cuori. L'Etruria e l'Umbria persero la propria indipendenza, Fausto Silla (il figlio del dittatore) combattè senza successo per Pompeo, Publio Ario Varo che reclutava nel Piceno dovette fuggire dalla fortezza di Osimo quando gli abitanti si dichiararono per Cesare, Lentulo fu cacciato dalla rocca di Ascoli e Scipione da Lucera. Lucio Domizio Enobarbo (console del 54 a.C.) tentò di difendere Corfinio ma fu fatto prigioniero dagli assediati e consegnato a Cesare che lo liberò.
Pompeo parlò alle sue truppe per incitarle contro Cesare ricordando le proprie vittorie ma non riuscì a scuotere i soldati che temevano Cesare e dovette suo malgrado evitare la battaglia e fuggire attraverso l'Apulia fino a rifugiarsi a Brindisi. Da qui mandò il figlio Gneo Pompeo in Asia e i due consoli in Grecia per reclutare nuove leve.
Cesare circondò Brindisi e bloccò il porto costruendo barriere, Pompeo riuscì a forzare un tratto dello sbarramento e le sue navi partirono di notte silenziosamente. Gli abitanti di Brindisi aprirono le porte a Cesare.

Libro Terzo
Durante il viaggio in nave, Pompeo sognò la sua penultima moglie Giulia che malediceva Cornelia, la nuova consorte di Pompeo, e prediceva la terribile strage della guerra civile. Giulia, figlia di Cesare, costituiva il legame tra il padre e il marito che neanche la guerra civile poteva interrompere.
Al tramonto le navi di Pompeo approdarono a una "terra ospitale" (forse Durazzo). Intanto Cesare dava disposizioni per rifornire di viveri l'Italia, la Sicilia e la Sardegna, quindi marciava verso Roma arrivando alle sue porte (31 marzo 49 a.C.)
Cesare si presentò al senato e trovò i senatori pronti ad approvare qualsiasi sua richiesta, soltanto il tribuno Metello tentò di opporsi alla spoliazione del tesoro portandosi davanti alla porta del tempio di Saturno. Cesare si dimostrò pronto a violare la sacra persona del tribuno ma Metello fu convinto da un collega ad allontanarsi permettendo l'apertura della porta.
Cesare si impadronì così del tesoro che i Romani avevano accumulato con tante vittorie dai tempi delle guerre puniche fino agli ultimi trionfi di Pompeo.
In Grecia Pompeo raccoglieva alleati: le città di Anfisso e Cirra, il Parnaso, dalla Beozia Dirce, Pisa, l'Arcadia, i Tesproti, i Driopi, i Selloi, Atane, da Creta Cnosso e Gortina. Ancora Orico, gli Encheli, Iolco, Emo, Foloe, Cone, la Misia, l'Idalia, Arisbe, Pitane, Celene.
Anche le schiere di Ilio si unirono a Pompeo, così i popoli della Siria, Damasco, Gaza, Idume, Tiro e Sidone, Mallo e Ege, i Cilici, i Cappadoci, gli Armeni, i Coatri, gli Arabi, gli Oresti, i Carmani, gli Etiopi, i Parti, gli Sciti, gli Eniochi, i Sarmati, gli Essedoni, gli Arimaspi, gli Arii, i Messageti, i Geloni. Tutti popoli radunati dalla Fortuna per un solo condottiero e votati a immensa rovina.
Cesare lasciò Roma (7 aprile 49 a.C.) per andare a combattere contro i pompeiani in Spagna, ma non poté entrare a Marsiglia i cui cittadini si rifiutarono di prendere posizione nella guerra civile. Non accettando che Marsiglia rimanesse neutrale, Cesare la assediò. Per costruire un terrapieno e le macchine d'assedio, Cesare fece abbattere un bosco sacro, tuttavia i Marsigliesi resistettero eroicamente finché gli assedianti decisero di tentare lo scontro per mare con le navi che Cesare aveva fatto costruire durante l'assedio. Comandava le navi romane Bruto (Decimo Giunio Bruto Albino). Le navi marsigliesi risultarono più veloci e leggere, perciò Bruto decise di provocare scontri in modo che i suoi soldati potessero lottare corpo a corpo. Lucano descrive la battaglia con toni omerici citando vari duelli ed altri episodi, fino alla conclusione che vide i Romani vincitori impadronirsi delle navi superstiti dei Marsigliesi.

Libro Quarto
In Spagna Afranio e Petreio comandavano i pompeiani in una guerra decisiva. Con i soldati romani militavano come alleati Asturi, Vettoni e Celtiberi. Gli eserciti avversari occuparono due alture nei pressi della città di Ilerda (Lerida) sulle sponde del fiume Sicori (Segre).
Nel primo giorno si schierarono senza combattere, nel secondo contesero il colle che si trovava tra loro, la natura del terreno impervio rese ardue le manovre, nessuno potè scagliare una freccia. Cesare ordinò alla cavalleria di attaccare e la fanteria di Pompeo si ritirò.
La pioggia abbondante allagò i campi e portò la carestia. "L'armata di Cesare nuotava naufraga nel piano", la piena investì l'accampamento. L'intera zona fu trasformata in un'unica palude ma infine le nubi furono disperse e tornò il sereno.
I soldati di Cesare ricostruirono un nuovo ponte sul Segre e scavarono canali per far defluire la piena. Petreio abbandonò Ilerda con i suoi soldati, Cesare ordinò di superare il fiume ed inseguirli per impedire di raggiungere il terreno inadatto allo scontro.
Cesariani e Pompeiani posero accampamenti vicini e qui videro che tra o nemici si trovavano amici, parenti, fratelli e figli e compresero l'empietà della guerra civile. Per qualche istante tacquero salutandosi a gesti ma infine osarono superare i limiti dei campi e andare ad abbracciare i loro cari. Ogni soldato riconosceva uno o più volti tra i nemici e presto tutti si riunirono, prepararono insieme un pasto, bevvero del vino. Petreio, per interrompere la concordia, ordinò agli schiavi e alla sua guardia del corpo (composta probabilmente da Spagnoli) di scacciare dal suo campo i nemici inermi, di sciogliere gli abbracci, di sconvolgere la pace. Parlando ai soldati Pompeo li indusse a riprendere la lotta e colpire quanti poco prima avevano abbracciato.
I capi pompeiani richiamarono i soldati e tentarono di riportarli a Ilerda ma Cesare li fece circondare dalla cavalleria bloccandoli privi di acqua e di viveri. I pompeiani, vedendosi accerchiati, tentarono un assalto ma Cesare rifiutò di combattere riuscendo in questo modo a raffreddare gli animi. La sete, tuttavia vinse la resistenzaa degli assediati e Afranio presentò la resa a Cesare chiedendo clemenza. Cesare si mostrò indulgente e lasciò che i pompeiani si precipitassero ai fiumi per placare la sete e quindi tornassero alle loro cose.
Se in Spagna i cesariani avevano vinto, in Italia le cose andavano diversamente. Caio Antonio era stanziato con la flotta sulla rive dell'isola di Veglia, i suoi erano tormentati dalla fame. All'arrivo degli alleati guidati da Basilo sulla sponda antistante, Antonio e i suoi tentarono la fuga ma i pompeiani di Marco Ottavio catturarono uno dei battelli comandato dal tribuno Gaio Vulteio Capitone. Durante la notte Vulteio parlò ai suoi compagni e li convinse a darsi reciprocamente la morte.
Non meno furiosa fu la guerra che divampò nei campi libici dove Curione arrivò da Lilibeo approdando nei pressi di Cartagine. Lucano inserisce una digressione sulla leggenda di Anteo che viene narrata a Curione da un africano.
Anteo era un gigante generato dalla terra che gli aveva concesso il dono di rigenerare le proprie forze ogni volta che avesse toccato la madre. Viveva in una spelonca e si dice che divorasse leoni, dormiva sempre sulla nuda terra per recuperare le forze. La sua fama richiamò sulle rive libiche il grande Alcide che lo sfidò. I due lottarono a lungo e quando Ercole fece cadere l'avversario, questi ricevette nuove energie dal contatto con il suolo. Anteo continuò a lottare lasciandosi spesso cadere a terra ma finalmente Ercole comprese il prodigio e strinse il nemico alla vita tenendolo sollevato fino a ucciderlo.
L'Africa era allora governata da Azio Varo, pompeiano che all'arrivo di Curione chiamò le milizie dell'alleato Giuba re di Numidia.
Giuba nutriva del rancore nei confronti di Curione che aveva proposto l'annessione del suo regno a Roma. Curione non aveva molta fiducia nei suoi soldati che erano poco preparati, tuttavia li schierò sulla pianura e riuscì a sconfiggere Varo. Infuriato per la sconfitta di Varo, Giuba decise di intervenire e tese un tranello a Curione riuscendo ad accerchiare i suoi soldati.
Curione, vedendo la strage dei suoi, non sopportò di continuare a vivere, rifiutò di ritirarsi e cadde in combattimento (29 agosto 49 a.C.).

Libro Quinto
I senatori pompeiani si riunirono in Epiro, l'assemblea fu aperta da un discorso di Lentulo che affermò la legalità del senato, indipendentemente dal luogo della sua attività. In prossimità della scadenza dei mandati consolari, il senato nominò Pompeo comandante in capo, rese omaggio alle città greche ed asiatiche schierate contro Cesare. Appio Claudio Pulcro volle consultare l'oracolo di Delfi. L'antico santuario era chiuso da molto tempo (Lucano ne rammenta le glorie passate) e mancava la sacerdotessa.
Il romano trovò la giovane Femonoe nel bosco e la spinse a riaprire le porte del tempio. La giovane tentò di sfuggire ma un sacerdote la spinse all'interno mentre Appio la minacciava sollecitando la sua prestazione. Spaventata la pizia si avvicinò ai tripodi sacri e fu invasata dal nume. Nel delirio la donna pronunciò un ambiguo responso. Ad Appio venne predetta la salvezza della guerra ma nulla fu predetto riguardo l'esito del conflitto.
Intanto nel campo di Cesare i soldati si ribellavano, protestavano per aver a lungo combattuto senza adeguato compenso e soprattutto per essere stati coinvolti nella guerra civile. Cesare, eccitato dal pericolo, tenne un discorso minaccioso e sprezzante affermando di essere in grado di sostituire i soldati ribelli con altri più fidati, più giovani e più forti. Sfidava i suoi soldati ad abbandonarlo e a rinunciare al premio ormai vicino per lasciarlo ad altri. L'audacia e la sicurezza del condottiero intimidirono i ribelli che rientrarono nei ranghi.
Cesare ordinò all'esercito di raggiungere Brindisi e si recò a Roma dove si fece eleggere console, si affrettò quindi a riunirsi con il suo esercito a Brindisi dove tutti si imbarcarono alla volta dell'Illiria, ma il viaggio fu molto rallentato dalla bonaccia che durò tutta la notte. Sbarcato l'indomani, Cesare occupò le piazzeforti di Orico e Apollonia, quindi proseguì verso Durazzo ma in Macedonia incontrò le truppe di Pompeo. I due eserciti nemici si schierarono sulle sponde opposte del fiume Apso (oggi Seman).
Cesare rimandò lo scontro perché una parte dei suoi uomini era rimasta in Italia, erano guidati da Antonio che esitava ad imbarcarsi per timore della flotta di Pompeo.
Non vedendo arrivare le truppe di Antonio, Cesare decise di andare a Brindisi e, nonostante il mare in tempesta, si imbarcò di notte sul piccolo vascello di un barcaiolo. L'uomo comprendeva dalle condizioni del tempo e dal comportamento degli uccelli che la tempesta era vicina, ma accettò comunque di compiere la traversata.
La tempesta, che viene descritta in toni omerici, risospinse la barca sulla spiaggia. I soldati che avevano scoperto la pericolosa partenza di Cesare lo rimproverarono per aver corso un simile rischio.
Il giorno successivo i soldati rimasti in Italia si imbarcarono a loro volta e dopo una notte di viaggio raggiunsero l'Illiria e si ricongiunsero con le truppe di Cesare.
Pompeo decise di mettere al sicuro nell'isola di Lesbo la moglie Cornelia e i due sposi si salutarono senza osare di dirsi addio. Cornelia se ne andò lasciando solo Pompeo ad attendere il proprio destino.

Libro Sesto
I pompeiai si accamparono su una penisola protetta su tre lati dal mare e Cesare decise di ostruire il quarto lato in modo da bloccare gli avversari. Fece perciò costruire un terrapieno impiegando enormi rocce e altri materiali. Scavò fossati, costruì fortini turriti cingendo il territorio occupato dai nemici con un vasto sbarramento.
Anche Pompeo aveva costruito una linea fortificata intorno al suo accampamento e ordinò ai suoi soldati di disturbare il lavoro dei cesariani.
Il territorio limitato di cui disponeva Pompeo non fu più in grado di produrre foraggio e i cavalli presero a morire di fame, le loro carcasse inquinavano l'aria e l'acqua.
Presto si diffuse una pestilenza tra gli uomini di Pompeo, i cadaveri insepolti contribuirono a diffondere il contagio. Tuttavia l'accesso al mare e l'arrivo di navi piene di grano evitarono la fame rendendo più sopportabile la situazione.
Da parte loro i cesariani soffrivano la fame perché le spighe nei campi non erano ancora mature e mancava ogni rifornimento.
Quando Pompeo decise di forzare lo sbarramento riuscì a cogliere di sorpresa i nemici, ma un uomo di Cesare, il centurione Sceva, incitò i suoi compagni a combattere.
Compiendo azioni di incredibile coraggio, Sceva trattenne i nemici che cercavano di irrompere, sopportò le ferite finché non si udì l'arrivo di CesareCesare con la cavalleria. Solo quando i nemici indietreggiarono si lasciò cadere morto e Lucano compiange che una fine tanto gloriosa giovasse alla causa del tiranno. Il sacrificio di Sceva e di quanti l'avevano seguito non servì, tuttavia, ad assicurare la vittoria ai cesariani perchè i pompeiani, con un altro massiccio assalto, riuscirono finalmente a forzare il blocco.
Con l'esercito decimato, Cesare abbandonò il paese e si diresse in Tessaglia.
Gli amici di Pompeo cercarono di distoglierlo dall'inseguire il suocero e lo esortarono a tornare in Italia, ma Pompeo giurò che non avrebbe rivisto Roma se non dopo aver vinto la guerra.
L'autore inserisce qui un'ampia digressione (363-412) per descrivere la Tessaglia nominando le sue città, i suoi corsi d'acqua e ricordando i suoi miti, riprende quindi il racconto parlando di Sesto, figlio di Pompeo. Questi era dedito a esecrabili pratiche magiche e in Tessaglia vivevano numerose streghe e indovine. Tra queste l'efferata Erictho abitava in sepolcri vuoti dove assisteva a silenziose riunioni dei morti nutrendosi di cadaveri.
Sesto Pompeo trovò la strega in un cimitero intenta a comporre formule magiche e la interrogò sull'esito della guerra in corso.
Erictho ammise di non poter mutare il corso di grandi eventi stabiliti dal caso ma confermò di poter conoscere il futuro consultando le forze della natura.
Per accontentare Sesto Pompeo, la donna scelse uno degli innumerevoli caduti della guerra e lo rianimò con i suoi sortilegi. La strega disse al redivivo di dire ciò che Sesto Pompeo voleva ascoltare promettendogli in cambio il sonno eterno della morte mai più disturbato da evocazioni e scongiuri.
La profezia del morto vivente: l'eco della terribile guerra civile giunge fino negli Inferi, dove gli spiriti dei più eminenti personaggi romani piangono sugli orrori del presente mentre i nemici di Roma esultano con deplorevole soddisfazione. Il successo di Cesare sarà effimero e presto verrà ucciso, Plutone lo farà incatenare nel Tartaro mentre Pompeo è atteso nei Campi Elisi. Cesare sarà divinizzato mentre Pompeo avrà un'indegna sepoltura ma nell'Oltretomba la loro sorte sarà capovolta. La Tessaglia sarà il luogo della definitiva sconfitta di Pompeo ma la sua morte avverrà altrove.
Pronunciata la profezia, il cadavere rimase muto in attesa. Erictho preparò un rogo per lui e il fuoco lo rese alla morte. La maga accompagnò Sesto Pompeo al campo del padre ritardando l'alba con la sua magia per poter raggiungere non visti le tende.

Libro Settimo
Il sole voleva invertire il suo cammino per non illuminare i luoghi dove la tragedia doveva compiersi. Durante la notte Pompeo sognò di essere a Roma, nel suo teatro, circondato dal popolo che acclamava la sua gloria. Al mattino i pompeiani chiedevano di combattere, Cicerone era il loro portavoce: chiese di combattere, di eliminare Cesare e ripristinare la pace e la libertà. Pompeo acconsentì pur dolendosi per l'orrore e la morte che la battaglia avrebbe portato tra i Romani.
I pompeiani si prepararono allo scontro e affilarono le loro lame, Lucano li paragona agli dei che mettono a punto le loro armi per combattere contro i Giganti.
L'esercito si schierò con un ordine preciso. Lentulo ebbe il comando dell'ala sinistra, Domizio della destra, Scipione del centro. Nella pianura erano schierati gli alleati.
Cesare si preparava a razziare i campi quando scorse l'esercito nemico che prendeva posizione offrendogli l'occasione tanto attesa. Dopo un attimo di esitazione per lui insolito, Cesare si rivolse alle sue truppe esortandole a combattere e incoraggiandole con considerazioni sulla loro superiore capacità militare. Con il suo discorso fece leva sulla paura del destino che toccherà ai soldati se sconfitti e sulla prospettiva di ricco bottino se vincitori. Il discorso ottenne l'effetto sperato e i soldati di Cesare accorsero alla scontro con slancio impetuoso.
Reprimendo i suoi timori, Pompeo percorse a cavallo tutto lo schieramento dei suoi incitandoli a lottare in quella che sarà l'ultima battaglia della guerra civile. Pompeo incoraggiò le sue truppe parlando della loro superiorità numerica e della speranza che i Romani riponevano in loro.
Prima di descrivere la battaglia Lucano si sofferma a deprecare la guerra e a compiangere le sorti di Roma.
Fu il centurione Gaio Crastino il primo a scagliarsi contro i nemici, allora le trombe diedero il segnale e la battaglia ebbe inizio. Furono scagliati innumerevoli dardi, l'esercito di Pompeo congiunse in fila gli scudi formando schiere combatte contro cui l'esercito di Cesare si scagliò con corsa precipitosa e si iniziò a combattere corpo a corpo.
La cavalleria di Cesare sconfisse le truppe ausiliarie di Pompeo, formate da genti straniere che si dispersero nella fuga. Si giunse allora allo scontro diretto di Romani contro Romani. Cesare cavalcava tra i combattenti incitando i suoi a colpire e pungolando quelli che esitavano, indicando tra i nemici i senatori e gli uomini più importanti. Tra i pompeiani combatteva Bruto, il futuro cesaricida, combatteva Domizio e moriva preannunciando la disgrazia del vincitore.
Pompeo, disperato, implorava gli dei a far cessare la strage. Avrebbe voluto morire ma temeva che i suoi si facessero uccidere in massa rinunciando alla fuga, perciò lasciò la battaglia spronando il suo cavallo. Raggiunse Larissa dove fu accolto quasi come un vincitore dagli abitanti pronti a offrirgli la loro fedeltà, ma Pompeo proseguì lasciandoli al loro destino.
Cesare ordinò ai suoi di cessare i combattimenti e li guidò a saccheggiare il campo nemico. Il giorno seguente Cesare fece imbandire la propria tavola nel campo della battaglia, pranzò circondato da innumerevoli cadaveri ai quali negò la sepoltura.
Il settimo libro si conclude con la maledizione del poeta contro la terra di Tessaglia teatro di tanta strage.

Libro Ottavo
Pompeo fuggì compiendo un percorso tortuoso per confondere le proprie orme, pieno di angoscia e di timore di essere inseguito o riconosciuto. Seguendo il corso del fiume Peneo giunse al mare.
Con una piccola imbarcazione raggiunse Lesbo dove ritrovò la moglie Cornelia che lo attendeva scrutando l'orizzonte. La modestia della barca e l'atteggiamento contrito di Pompeo bastarono alla donna per intuire la disgrazia e il marito prese a consolarla abbracciandola teneramente.
Cornelia, vedova di Crasso, imprecò contro se stessa per aver portato sfortuna a entrambi i mariti. Gli abitanti di Lesbo, affollandosi intorno a Pompeo, gli offrirono alloggio e protezione, lo pregarono di sfruttare a suo vantaggio le loro risorse ma Pompeo, pur con grande gratitudine, declinò le loro offerte e riprese il mare recando con se Cornelia.
Conversando con il pilota, Pompeo decise di andare dove i venti e il caso portavano la nave. Si ricongiunse con il figlio Sesto e inviò il re Deiotaro, che lo seguiva, presso i Parti per proporre alleanza in virtù degli accordi in precedenza stipulati con il re Fraate III.
Continuando a navigare la nave di Pompeo si diresse verso sud e fece scalo nel porto di Faseli, al confine tra Licia e Panfilia.
Giunto in Cilicia convocò un consiglio di guerra, espresse perplessità sul dirigersi in Africa e propose di fare rotta verso oriente per rifugiarsi tra i Parti.
Si oppose Lentulo che con un lungo discorso indicò le cause antiche e recenti di odio tra i Romani e i Parti e mettendo in guardia Pompeo dall'affidarsi agente ipocrita e nemica, propose di andare in Egitto.
La proposta di Lentulo prevalse, la nave superò Cipro e puntò verso l'Egitto. Le vedette avvistarono la nave romana e corsero ad avvisare Tolomeo e i suoi consiglieri. L'eunuco Potino propose di uccidere Pompeo e tutti assentirono con convinzione.
Per eseguire il delitto fu scelto Achilla che raggiunse la nave di Pompeo per invitarlo sulla sua piccola imbarcazione. Pompeo accettò ma sulla barca fu ucciso da Lucio Settimio, un soldato del distaccamento romano in Egitto. Il generale accettò la morte con grande dignità, salutando la moglie e il figlio con il suo ultimo pensiero. Il cadavere fu decapitato, il cranio fu svuotato, ripulito e disseccato con un liquido.
Un soldato pompeiano aiutato da un liberto allestì un rogo con mezzi di fortuna per tributare al caduto delle esequie modeste, raccolse i resti e le ceneri e le seppellì sotto un tumulo.
Riflessioni di Lucano sul mutare della fortuna che riservò a Pompeo una vita piena di gloria e un'umile sepoltura nella morte.

Libro Nono
L'anima di Pompeo lasciò il rogo e raggiunse il cielo della Luna dove risiedono "i mani dei semidei", volò oltre i campi insanguinati e le flotte sparse sui mari per entrare nel petto di Bruto e nell'anima di Catone.
Questi, dopo la disfatta di Farsalo, era diventato sinceramente pompeiano e stava accogliendo e riorganizzando i pompeiani sopravvissuti. Con loro si recò a Corcina e di qui navigò verso l'Africa. Incontrò altre navi che portavano lutti, pianti e sciagure, su una di queste viaggiava Cornelia, addolorata per non aver potuto personalmente curare le esequie di Pompeo. Rivolgendosi a Sesto Pompeo, Cornelia riferì l'esortazione di Pompeo di continuare la guerra civile e ubbidire soltanto a Catone. Eseguito che ebbe il mandato dello sposo, Cornelia scene nella stiva della nave e qui giacque in attesa della morte.
Raggiunsero la costa della Libia e il campo di Catone. Qui si trovava Gneo Pompeo, il maggiore dei figli del Magno, che corse ad abbracciare e interrogare il fratello Sesto. Questi raccontò della tragica morte del padre, ucciso da ospite traditore.
Nella sua pietà, Gneo fu preso da un furente desiderio di vendetta e si disse pronto a partire per l'Egitto e qui "saziare il Grande con il sangue dell'effeminato tiranno", ma Catone frenò la sua ira.
Si era intanto udita la notizia della morte di Pompeo e il cordoglio si diffuse rapidamente, furono accesi molti fuochi per rendere onore alla memoria del Grande. Catone pronunciò un breve elogio funebre ricordando la modestia, la rettitudine e l'amore per la pace di un grande condottiero.
Tarcondimoto (un sovrano cilicio già alleato di Pompeo) si accinse a partire e lasciare Catone. Molti volevamo seguirlo: stanchi della guerra e delusi dalla fortuna, erano pronti a rinunciare alla libertà e vivere sotto un tiranno. Un forte discorso di Catone, tuttavia, riportò gli uomini all'ideale di libertà per cui avevano combattuto e, abbandonato il proposito di disertare, tutti tornarono indietro.
Da allora Catone decise di tenere gli uomini occupati e li guidò alla conquista di Cirene. Decise quindi di raggiungere lo stato di Giuba ma doveva superare l'ostacolo delle Sirti. La flotta non riuscì a superare le paludi e Catone decise di procedere a piedi aggirando le Sirti. Prima di affrontare il deserto, Catone parlò a quanti lo seguivano per avvertirli dei pericoli e dei disagi ai quali stavano andando incontro, non volendo in alcun modo celare le prossime difficoltà.
Si avventurarono quindi, sfidando il sole della Libia, i suoi serpenti, le tempeste di sabbia, i barbari Nasamoni che in agguato sui lidi approfittano dei frequenti naufragi.
I terribili venti della regione che non incontravano ostacoli strapparono ai soldati elmi, scudi e giavellotti e forse lasciandoli cadere in regioni lontane mostrarono un prodigio alle genti sconosciute.
Forse così si spiegava, osserva Lucano, il prodigio degli scudi ancili, piovuti su Roma ai tempi di Numa.
Tormentati dal vento, dalla sabbia e dalla sete, i soldati di Catone continuarono a procedere nel deserto. Giunsero a un tempio dei selvaggi Garamanti dove Giove qui chiamato Ammone, forniva responsi oracolari. Intorno al tempio di trovava un'oasi verdeggiante, la sola in quel deserto. Labieno e altri compagni chiesero a Catone di interrogare l'oracolo che certo avrebbe ascoltato un postulante così giusto e religioso e avrebbe svelato quale futuro attendeva Cesare a Roma. Catone rifiutò perché la dottrina stoica insegnava ad accettare comunque la volontà del destino, ognuno sa già quanto è necessario e quanto è giusto sapere, conoscere qualcosa del proprio futuro non avrebbe cambiato il destino.
Proseguendo giunsero a una fonte dove vivevano innumerevoli serpenti. Qui il racconto divaga narrando il mito di Medusa e di Perseo: l'eroe abbandonò in Libia la testa di Medusa che aveva il micidiale potere di pietrificare chiunque la guardasse. Dal sangue di Medusa nacquero i rettili che infestarono quel luogo. Catone mostrò ai suoi compagni che il veleno non intossicava l'acque della fonte e li convinse a dissetarsi, ma non potè evitare che i morsi dei serpenti togliessero la vita a molti soldati.
Lucano descrive le atroci sofferenze di chi veniva morso dai diversi tipi di serpenti: la morte per la sete, il disfacimento delle membra marcite, orribile gonfiore. In aiuto degli infelici viaggiatori giunsero infine gli Psilli, un popolo che vivendo in quelle regioni aveva imparato a neutralizzare i veleni dei serpenti. Ardendo miscugli di erbe, gli Psilli riuscivano a tenere lontani i serpenti dal campo. Quando qualcuno veniva morso, gli Psilli cantilenando formule magiche e succhiando il veleno riuscivano a salvarlo. Grazie a questo soccorso, i Romani riuscirono infine a lasciare il deserto e giunsero a Leptis.
Cesare lasciò la Tessaglia e seguendo Pompeo attraversò la Troade e visitò le rovine che ricordavano tanti miti e tanti eroi. Cesare eresse un'ara di zolle e spargendo incenso sul fuoco, pregò i Lari del luogo per avere prosperi eventi e promise di fondare una "Pergamo Romana". Riprese il mare e dopo sette giorni giunse alla costa africana dove un cortigiano, navigandogli incontro gli portò la testa di Pompeo come un dono sinistro.
A quella vista Cesare sparse lacrime insincere per celare con il pianto la gioia che provava. Deprecò il delitto, perdonò Tolomeo solo in considerazione della giovane età, ordinò di dare degna sepoltura alla testa.

Libro decimo
Cesare entrò in Alessandria preceduto dai littori, provocando il malumore nella popolazione. Si recò a visitare il sacrario in cui si trovava la tomba di Alessandro Magno. Lucano ne da un giudizio estremamente negativo definendo Alessandro un fortunato predone i cui resti avrebbero meritato di essere dispersi invece di essere deposti in un sacrario. Un dispensatore di ostaggi alla cui follia solo la natura ha potuto mettere fine.
Cesare risiedeva sicuro nella reggia di Tolomeo quando di nascosto giunse Cleopatra che con la sua bellezza riuscì a conquistare il duro cuore di Cesare. E Cesare ammise Venere tra gli affanni e le armi e ne ebbe prole illegittima. Cleopatra si presentò a Cesare "adorna di un simulato dolore" lamentando di essere stata esclusa dall'eredità paterna e accusando Potino di controllare e condizionare le azioni di suo fratello Tolomeo.
Sedotto Cesare, Cleopatra trascorse con lui una "notte infame" a cui seguì un banchetto. La donna ostentò quei lussi che la società romana ancora ignorava. Il grande sfoggio di ricchezza poteva certamente essere pericoloso se a guardarlo erano gli occhi di un condottiero pronto a ghermire un simile bottino.
Finito il banchetto, Cesare si trattenne a parlare con l'anziano sacerdote Acoreo al quale chiese di descrivere i costumi del popolo egiziano, i riti dei suoi dei, le iscrizioni nei suoi templi. Ma soprattutto Cesare era interessato a conoscere la causa delle piene del Nilo e a vedere le sue fonti.
Acoreo parlò dei fenomeni astrologici che influenzavano le piene del Nilo e negò che fossero influenzate dallo sciogliersi delle nevi sui monti di Etiopia. Il comportamento del Nilo era diverso da quello degli altri fiumi che si sollevano a primavera e si riducono in inverno: il Nilo cresce in estate sotto i segni del Cancro e del Leone. Si era tentato di spiegare le piene con l'azione dei venti contrari rallentando i flusso alla foce, o con quella di forti piogge periodiche, o con l'apporto di forni sotterranee. Si diceva anche che il Nilo esondi per il lontano traboccare dell'Oceano. L'opinione del sacerdote era che il corso del Nilo fosse regolato da leggi divine immutabili, fino dalla creazione del mondo.
Sovrani egiziani, persiani, macedoni hanno tentato di trovare le fonti del Nilo ma le loro spedizioni non hanno mai avuto successo. Acoreo quindi si limita a descrivere sinteticamente il corso conosciuto del fiume, dall'Equatore alla sua foce nel Mediterraneo.
Mentre Cesare si intratteneva piacevolmente con Acoreo, Potino concepiva il progetto di eliminarlo come aveva fatto con Pompeo. Mandò un messaggio ad Achilla, già suo complice nell'uccisione di Pompeo, a quale l'ingenuo giovane re aveva affidato il comando dell'esercito. Potino lo avvisava del ritorno di Cleopatra la quale, sfruttando le sue nozze incestuose con il fratello e la sua relazione con Cesare, avrebbe presto avuto il potere di rovinarli. Potino incitò Achilla a scatenare la guerra uccidendo Cesare, Cleopatra e chiunque giaccia nel suo letto, lo sollecitò ad agire subito mentre Cesare era sazio di cibo e di vino.
Achilla si affrettò ad ubbidire e con le sue milizie circondò la reggia ma prima di agire attese la luce del giorno d'accordo con Potino.
Al mattino Cesare si vide circondato da un esercito e non gli rimase che barricarsi nella reggia prendendo con se Tolomeo come ostaggio.
Reagendo con grande forza d'animo Cesare prese a difendere il suo rifugio e ordinò ai suoi di incendiare le navi con cui i nemici avevano portato l'attacco. Senza perdere tempo Cesare balzò su una nave e raggiunse l'isola di Faro, occupandola Cesare tolse al nemico uno sbocco al mare e permise ai rinforzi di raggiungere il porto.
Cesare uccise Potino troncandogli la testa con la spada. Arsinoe sorella di Cleopatra raggiunse i nemici con l'eunuco Ganimede e, venuta in contrasto con Achilla (che rifiutava di cederle il comando) lo fece assassinare. Ganimede assunse il comando e ingaggiò nuovi scontri con gli uomini di Cesare.
Il condottiero latino si vide circondato senza via di salvezza, quando scorse tra le schiere Sceva che aveva già meritato eterna gloria sui campi di Epidamno.