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La Fondazione
La Fondazione


Hic, ubi nunc Roma est orbis caput, arbor et herbae
et paucae pecudes et casa rara fuit.

(Qui, dove ora sorge Roma a capo del mondo
erano solo pascoli e selve, poche greggi e rare capanne)
Ovidio, Fasti, 5 - 93,94




La valle era piena di vita. La vita vegetale, animale, in tutte le forme di una natura incorrotta e selvaggia. Un mondo verde, un mondo di luci e di ombre, esteso a perdita d'occhio lungo il corso lucente del fiume.
L'ultimo corso del Tevere attraversava allora una regione di colline e paludi, ricchissima d'acqua. Gli uomini vi abitavano già da molti secoli, nei loro semplici villaggi di poche persone, dediti alla pastorizia ed a qualche rudimentale coltivazione.
Erano Latini, venuti forse con la grande ondata degli Indoeuropei nei secoli precedenti, discesi, si dice, lungo la penisola dopo aver sostato molto a lungo in Veneto e possedevano ricordi, favole e parole comuni a popoli immensamente lontani ai quali il volgere della migrazione aveva riservato altri approdi.
Più a Nord gli Etruschi, o Tirreni come li chiamavano i Greci, dalle origini misteriose e dall'antica cultura la cui terra arrivava alla valle del Tevere ad unirsi con quella latina.
Fra loro, più tardi erano giunti i Sabini, scendendo dalle loro montagne per fuggire la forza degli Umbri.
Di quei primi abitatori il Campidoglio ha restituito testimonianze antichissime: ceramiche ed utensili che risalgono ad oltre quindici secoli prima di Cristo dimostrano l'esistenza sul colle di piccoli agglomerati fin dall'età del bronzo.
Agli albori del primo millennio i Latini che abitavano il Palatino costruirono il sepolcreto trovato nel foro romano, dove i loro morti venivano inumati dopo la cremazione. In quel tempo in tutto il Lazio si viveva in villaggi di cui gli autori antichi come Plinio il Vecchio e Dionigi di Alicarnasso raccolsero nomi e memorie. Si abitavano i Monti Albani e sul più alto di essi, che oggi si chiama Monte Cavo, sorgeva un luogo di culto dove le genti della regione si riunivano annualmente per sacrificare a Giove Laziale.
Si abitavano i colli che sarebbero divenuti romani, si abitava ogni regione lungo il corso del fiume in lotta perenne contro la malaria che infestava tutto il Lazio e che i primi coloni affrontarono e combatterono bonificando il suolo.
Spesso si preferiva occupare le alture perché più salubri e più difendibili in caso di attacco dall'esterno. Forse, come le tombe scoperte lascerebbero pensare, nella zona di Roma l'abitato più importante ed esteso era quello di una comunità detta dei Veliensi, stanziati sul Palatino.
Durante un periodo lunghissimo, di quasi un millennio, i villaggi, le comunità agricole, gli insediamenti isolati che popolavano la regione dei colli divennero sempre più numerosi e popolosi mentre i limiti dei rispettivi territori espandendosi si avvicinavano sempre di più. Lentamente dalla prevalente idea del nucleo familiare preistorico che colonizzava un'area limitata costruendovi la propria casa si passò al concetto di villaggio in cui coltivare anche terreni comuni sfruttando meglio risorse e capacità.
All'inizio dell'ottavo secolo, concorrendo fattori importantissimi di nuova civiltà questo processo aveva profondamente trasformato la civiltà laziale ed i villaggi si aprirono definitivamente gli uni verso gli altri e tutti verso il mondo esterno.
I Greci dalle loro colonie dell'Italia meridionale espandevano il commercio ed il corso del Tevere per buon tratto navigabile li portò fra i colli con le loro mercanzie e la loro cultura, altrettanto avveniva per gli Etruschi che praticavano la via costiera verso sud, via che incrociava il fiume proprio all'altezza della futura Roma. Si imparava a lavorare il ferro, fino ad allora rarissimo, si iniziava a coltivare la vite e a produrre il vino e nascevano professioni artigianali ed agricole specialistiche per risolvere le esigenze derivate dalla continua crescita demografica, dall'evoluzione del gusto e della tecnologia. Sembra dunque giusto pensare che la città sia nata non per la volontà esplicita di un fondatore e per l'opera di un gruppo di coloni finalizzata a realizzare in tempi brevi e con continuità le strutture del nuovo agglomerato (come avveniva per esempio nel caso delle colonie greche dell'Italia meridionale), ma per progressivo avvicinamento e consolidamento di diversi villaggi, detti pagi abitati da piccoli gruppi di persone di diversa provenienza e cultura.
Come realmente siano andate le cose non è dato sapere ma perché non accettare che un rituale di fondazione si sia realmente compiuto? Non era forse pratica comune per gli antichi consultare i segni del volere divino in ogni occasione e consacrare ogni loro azione importante o comune con un rito preciso la cui funzione si perde in un passato remoto? Anche riconoscendo la teoria del sinecismo che fuse insieme i villaggi dei colli non è inverosimile pensare che si sia svolto un rito di consacrazione quando si decise di associare in un unico centro quelle piccole comunità limitrofe perché condividessero un'unica economia ed un unico destino.In un giorno remoto qualcuno tracciò un solco o elevò un recinto per delimitare l'area della città nascente, in quello stesso giorno gli indovini trassero gli auspici ed i sacerdoti celebrarono i loro riti propiziatori, si offrirono sacrifici, si scrutò il cielo.   I Latini non conoscevano ancora una scrittura alfabetica e quando la conobbero la usarono a lungo con estrema parsimonia, ci mancano quindi documenti scritti e qualsiasi specie di letteratura, non conosciamo delle loro usanze ed istituzioni che quello che i reperti archeologici lasciano dedurre e quello che sembra lecito ricavare dall'interpretazione delle molte leggende sorte nei secoli intorno alla fondazione di Roma.
Anche sul nome della città esistono diverse interpretazioni, antiche e moderne, ma praticamente nessuna certezza.
Fra le ipotesi etimologiche non basate su un personaggio eponimo leggiamo in Plutarco quella che il nome derivi da rhome parola antica che significava forza, con allusione alle vicende militari dei pelasgi stabilitisi nel Lazio dopo molte guerre vittoriose, ma l'influenza greca è di epoca troppo tarda perché questa spiegazione possa essere verosimile. Si pensò anche alla parola Ruma che significava mammella con riferimento alla leggenda dell'allattamento dei gemelli da parte della lupa o alla forma del colle Palatino. Un'altra ipotesi fa risalire il nome di Roma a Rumon, antico nome del Tevere.
Fra i moderni c'è chi ipotizza un'etimologia risalente ad un nome gentilizio etrusco (Ruma) e ricorda che i Romilii erano una schiatta antichissima fra i Romani, di denominazione sicuramente etrusca.  Molto spesso gli antichi fanno derivare il nome da personaggi leggendari, protagonisti di versioni più rare di quella canonica. Plutarco, nella vita di Romolo, cita alcune di queste leggende: quella della troiana esule Rhome di cui diremo poco più avanti; quella di una Rhome figlia del mitico Italo, re degli Enotri, oppure discendente di Ercole e sposa di Enea o di Ascanio. O quelle che volevano la città fondata da un certo Romano, figlio di Odisseo e di Circe, oppure da Romo, figlio del troiano Emazione o, infine da un Rhomis, signore dei Latini e vincitore degli Etruschi.
I Latini, prevalenti nella popolazione della prima città, avevano certamente un patrimonio di leggende risalenti alle loro antiche origini: della loro tradizione orale rimangono poche tracce nei miti di arcaici re del Lazio divini o divinizzati come Saturno, fondatore di una leggendaria città di nome Saturnia sul Campidoglio molto prima della nascita di Roma, o Fauno che solo molto più tardi sarà identificato con il greco Pan.
La maggior parte delle tradizioni sulla fondazione di Roma nascerà più tardi quando i Greci, interessati ed affascinati dal fenomeno della crescita dirompente della nuova potenza, vollero trovare delle relazioni con le sue origini e la propria epica. Lo storico Ellanico, contemporaneo di Tucidide, racconta come Enea, profugo da Troia dopo un periodo in Epiro, fra i Molossi, si recò in Italia dove fondò una città chiamandola Roma dal nome di una troiana, Rhome, che lo aveva seguito fin lì e che, stanca del continuo vagare, incendiò con le compagne le navi per costringere gli uomini a darsi una definitiva dimora.
In un altro mito il nobile Evandro cacciato dall'Arcadia, da una sedizione popolare ripara con la madre Carmenta ed il figlio Pallante sulle rive laziali, giunge sul colle Palatino (che in questa leggenda prenderebbe il nome da Pallante o dalla città di Palladio dalla quale provenivano gli esuli) e vi fonda una piccola comunità. L'eroe Ercole prima della sua apoteosi fu ospite di Evandro e diCarmenta che vaticinò sul destino divino dell'eroe.
Nell'Eneide Evandro e Pallante aiutano Enea contro Turno. Dunque gli autori e la fantasia popolare trovarono il modo di conciliare le varie tradizioni così che la storia di Romolo non escludesse quella di Evandro. Nelle tradizioni posteriori, scaturite dall'erudizione, latina il concetto delle antiche origini è considerato dal punto di vista opposto:si vuole ricercare la discendenza da Enea, eroe ed esule troiano che come figlio di Venere conferiva una discendenza divina al fondatore e come troiano stabilirà un legame atavico con la potente città sconfitta dagli achei di cui Roma, conquistando la Grecia vorrà considerarsi vendicatrice. La leggenda di gran lunga più famosa è senz'altro quella di Romolo e Remo che si ritiene nata verso il quarto secolo avanti Cristo e che armonizza elementi concettuali di chiara origine greca, come l'idea dell'eroe generato da un dio e quella del nome della città derivato dal suo fondatore, con la tradizionale discendenza dei Romani dai Latini dei monti Albani ed in particolare di Albalonga.La più antica menzione nota del nome di Romolo è nella Storia Italica composta verso il 350 dallo storico Alcimo, originario di una colonia greca in Sicilia. Secondo la sua versione Enea avrebbe sposato Tirrenia e dalla loro unione sarebbe nato un Romolo, la cui figlia, Alba, fu madre di Romo, fondatore di Roma.
Il grande studioso Terenzio Varrone, lavorando sulla cronologia dei fasti consolari fino agli inizi della repubblica ed ancora più indietro calcolando la durata dei regni dei sette re stabilì per la fondazione della città la famosa data del 21 aprile del 753 a.C., nel cuore dunque dell'ottavo secolo che come si è detto fu periodo di grandi avvenimenti culturali in tutto il Mediterraneo. Il 21 aprile, equinozio di primavera, era giorno sacro al dio Marte del quale i due gemelli si ritenevano figli. Erano nati, si dice, dall'amore del dio per la loro madre Rea Silvia (o Ilia) figlia di Numitore,spodestato re d'Albalonga. Numitore discendeva in linea diretta da Enea, gli aveva tolto il regno il fratello, il perfido Amulio che aveva ucciso l'unico figlio maschio di Numitore a tradimento, durante una partita di caccia, e aveva costretto la nipote Rea Silvia a farsi vestale temendo la vendetta dei discendenti del re. Qualcuno aveva però usato violenza alla donna, il dio Marte lei disse, e ne erano nati i gemelli che Amulio aveva ordinato di annegare nel Tevere mentre la madre veniva imprigionata. Si diceva anche che fosse stato lo stesso Amulio a violentare la nipote presentandosi a lei con un travestimento per trarla in inganno. La vita di Rea Silvia fu risparmiata grazie alle suppliche di Anthò, figlia di Amulio, ma la vestale venne condannata alla prigione a vita. A salvare la vita dei neonati è il fato: la cesta nella quale erano stati affidati alle acque si arena in una palude poco profonda, dove il Tevere raccoglie le acque dei rivi discendenti dai colli: il Velabro. In queste acque placide, nei pressi del fico ruminale, vengono trovati da una lupa che abbeverandosi ne ode i vagiti. Miracolosamente la bestia li accudisce, li allatta e quando il mandriano del re, Faustolo, li trova per caso rimane allibito nel vedere la belva che dolcemente lambisce i bimbi come avrebbe fatto con cuccioli suoi.
Doveva essere un brav'uomo quel Faustolo, portò subito a casa i due bimbi trovati con qualche rischio se come Livio racconta aveva intuito di chi si trattava e li nascose affidandoli a sua moglie Acca Larenzia.Su di lei la tradizione è confusa, alcuni la dissero tanto perversa e lasciva da guadagnarsi il soprannome di Lupa, tipicamente delle prostitute, per i suoi commerci con i pastori colleghi di Faustolo; altri ne fecero addirittura una dea, forse la madre dei lari ed i Romani il 23 di dicembre la celebravano in una festa detta appunto Larentalia.
Comunque i due principi crebbero fra i pastori e dei pastori appresero il mestiere ma forti ed orgogliosi praticavano anche la caccia e lottavano contro i ladroni che spesso razziavano il bestiame, a questi briganti tendevano delle imboscate per riprendere il maltolto e distribuirlo fra i loro amici e compagni. Già si celebrava a quei tempi la festa dei Lupercali, uno dei riti più antichi che ci sembra difficile oggi spiegare. I sacerdoti del rito erano detti Luperci, che forse significa uomini-lupo e correvano quasi nudi alle idi di febbraio intorno al Palatino, formando un cerchio magico alle falde del colle. Con la pelle di un capretto sacrificato preparavano corregge con le quali battevano i passanti, soprattutto le donne forse per propiziare la fertilità. Un rito antico e misterioso in cui si gridavano frasi lascive in onore di un dio agreste che molto più tardi sarà identificato con il greco Pane Liceo. Lupercale era detta anche la grotta sul Palatino dove il rito anticamente aveva inizio, con il compiersi dei sacrifici. Fu durante una di queste feste, racconta la leggenda, che i ladri di bestiame per vendetta tentarono di rapire i due gemelli. Romolo scampò ma Remo fu preso e portato ad Amulio con l'accusa di aver depredato i campidi Numitore con un gruppo di amici. Amulio consegnò quindi il giovane a suo fratello perché fosse punito ma Romolo, con una schiera di pastori liberò Remo e, conquistata la reggia, uccise il tiranno usurpatore.
Non manca l'agnizione a completare la tradizione: sia Faustolo, che ha sempre avuto sospetti, sia Numitore, comprendono quale sia la vera identità dei due giovani ed il re, ristabilito sul trono, convoca l'assemblea e svela a tutti la loro storia e la turpitudine del defunto fratello.
I due giovani sono troppo ambiziosi per rimanere ad Alba sotto il regno del nonno, d'altro canto la popolazione è cresciuta e conviene migrare: così Romolo e Remo decidono di fondare una nuova città in quei luoghi dove sono stati salvati ed allevati. Per gli antichi la leggenda è anche e soprattutto spiegazione fatale del presente, chiave di lettura degli eventi successivi ed attuali ai quali trovare una spiegazione e un'origine. Così, ad esempio, i continui interventi divini più o meno evidenti che salvano i piccoli abbandonati nel fiume, la lupa mansueta, sono segni di un fato che doveva comunque procedere perché sorgesse “l'impero più potente dopo quello degli dei”. Ma così come il destino non è sempre benevolo anche il mito nasconde a volte il seme delle disgrazie e dei mali futuri. Romolo, infatti, dopo aver tratto gli auspici da un volo di dodici avvoltoi sul colle Palatino giudicò di essere lui il designato e non Remo che dall'Aventino aveva visto alzarsi solo sei uccelli, dal canto suo Remo insisteva che il primo volo era stato osservato da lui e quindi l'auspicio di Romolo non aveva importanza. Romolo tracciò con l'aratro il solco primigenio della nuova città e lo protesse con mura e fossato e quando vide Remo invidioso violare il tracciato saltandolo in segno di sfida lo uccise senza esitare; nella rissa che si scatena rimangono uccisi anche Faustolo e suo fratello Plistino. Per Orazio questo è il germe della discordia che segnerà il destino di Roma con tante guerre civili: un fato atroce, egli dice nel settimo epodo, perseguita i Romani da quando il sangue innocente di Remo bagnò la terra.
In altre versioni della leggenda, per esempio nei Fasti di Ovidio, invece Remo viene ucciso da un luogotenente di Romolo, un celere come si chiamavano gli armati a cavallo, e Romolo lo piange e gli rende i dovuti onori. Lo spirito inquieto di Remo però non trova pace e terrorizza i parenti con apparizioni notturne finché Romolo non gli dedica una ricorrenza religiosa che chiama Remuria, nome che con il tempo muterà in Lemuria: così Ovidio spiegava l'origine della festa romana dei defunti durante la quale si compivano strani riti espiatori per sedare gli spettri e proteggere le case dalle loro incursioni. Agli albani vengono quindi fatte risalire dalla leggenda le origini dei fondatori di Roma e la storia conferma che una componente latina fu determinante nella prima composizione della popolazione romana. E' effettivamente attestato come le comunità dei Colli Albani fossero abbastanza avanzate ed antiche da costituirsi già in quell'epoca in una federazione che rispecchiava un diffuso modello comune a tutti gli italici ed ai Greci.
Si trattava di una lega, detta lega latina, che condivideva interessi economici e pratiche rituali, come il citato culto di Giove Laziale. In questa federazione di cui in seguito farà parte Roma, si riconosceva la presidenza di Alba Longa. Non sappiamo con sicurezza quanto questa carica fosse onorifica e quanto invece conferisse una reale autorità ma verosimilmente bastava a dotare Alba degli strumenti necessari per far rispettare gli accordi fra i confederati e mantenere l'equilibrio necessario per gli scambi commerciali. D'altro canto pare che l'appartenenza alla lega non evitasse che le città latine si scontrassero a volte fra loro, anzi i rituali religiosi erano occasione di “tregue sacre” per sospendere tali ostilità.
Forse meno importanti della componente latina ma comunque molto evidenti furono altri due ingredienti del processo di formazione di Roma: quello etrusco e quello sabino.
Secondo lo Schulze come si è detto Roma deve il suo nome, ad un'etimologia etrusca, forse il nome gentilizio di una potente famiglia tirrena che aveva esteso i suoi interessi alla valle del Tevere. Ancora di origine etrusca il nome di Romolo formato da quello della città e dal suffisso -ulus che in sostanza vuol dire romano come siculo può stare per siciliano.
Soprattutto etrusca era la scienza di interpretare il volo degli uccelli con la quale la leggenda racconta fu scelto il fondatore ed il luogo esatto della fondazione. Sacro agli Etruschi era infine il numero dodici (quello degli avvoltoi di Romolo) che li aveva spinti a fondare le loro città della Dodecapoli. Ancora: subito dopo aver fondato la città il nuovo re adotta insegne regali ed istituisce un corteo di littori armati di fasci per dare più prestigio alla sua funzione e più maestà alla sua persona: anche questa usanza era quasi certamente di origine etrusca come nota, sia pur non confermandolo con sicurezza, lo stesso Tito Livio nel raccontare la leggenda; anche Strabone nella sua interessante ed eclettica Geografia conferma l'origine etrusca di questi ornamenti del monarca, tuttavia li dice istituiti da Tarquinio Prisco la cui origine tirrena era conclamata anche dalla tradizione. Quindi l'elemento etrusco è presente a voler ben guardare anche se la leggenda parla soltanto di albani, d'altronde soltanto poche generazioni dopo Romolo la tradizione narrerà di un dominio dei Tarquini sulla città, dominio che probabilmente ebbe verità storica quando Roma ancora debole e modesta rimase presa nell'avanzare degli Etruschi che nel settimo secolo, all'apice della loro potenza si espansero verso Sud fino ai limiti dei domini greci in Campania. I Sabini erano scesi in epoche antiche lungo il corso del Tevere dalle regioni appenniniche. A cacciarli dal loro paese era stata probabilmente una lunga guerra condotta contro gli invasori umbri ed infine perduta. Eventi come questo erano considerati fra le genti italiche segni dell'ira degli dei, ira che doveva essere placata prima che sterminasse tutto il popolo. Il ver sacrum, la sacra primavera: tutti i nati della stagione, le primizie, gli agnelli, venivano offerti agli dei in sacrificio cruento per purificare il villaggio e la sua gente. I bimbi nati in quel mese di marzo, sacro al dio Marte, dovevano invece emigrare appena raggiunta l'età di portare le armi. Questo era il loro sacrificio: l'esilio. Sapersi consacrati e nello stesso tempo espulsi dai loro paesi ai quali non avrebbero più fatto ritorno, una morte rituale, un partire forse non diverso, agli occhi di quanti restavano, dal partire dei morti. Ma infondo tutto questo serviva a vestire di mito le azioni compiute per fronteggiare la sorte, le necessità del sopravvivere quando il villaggio e le sue greggi non bastavano più a domare la fame.
Il fato, il volere divino, era forse il grande alibi di quei popoli antichi, il motivo per cui poteva sembrare oltre che giusto dovuto cacciare ed uccidere quanti trovavano ad occupare le terre dove il loro vagare li aveva portati.
A guidarli era sempre una bestia. Si diceva che un toro avesse guidato i Sabini nell'alta Campania a contendere agli Oschi il paese che fu poi dei Sanniti, un picchio (picus) fu la guida di quanti raggiunte le sponde orientali si chiamarono Piceni e più a sud gli Irpini avevano scelto come guida eponima un lupo, detto Hirpus dagli Oschi.
Forse fu un lupo a guidare anche quegli esuli sabini che erano giunti, agli albori del primo millennio avanti Cristo, a stabilirsi lungo la riva sinistra del fiume. I Sabini si insediarono nella regione che da loro prese il nome ed ebbero in Curi, l'attuale Passo Corese, la loro capitale. Come la leggenda racconta e per altri versi l'analisi storica conferma la componente sabina sarà estremamente importante nella prima storia di Roma e ad essa apparterranno alcune delle gentes più importanti del patriziato romano. A ben guardare anche la leggenda mette in evidenza la formazione composita della prima cittadinanza: quando viene scavata la fossa per il sacrificio delle primizie (mundus) i compagni di Romolo che provenivano da varie regioni vi gettano ognuno un pugno di terra portata dal proprio paese natale, a significare il fondersi, sullo stesso territorio ed in un solo popolo,di genti dalle origini più disparate. Inoltre uno dei primi atti del nuovo re è quello di offrire asilo a chiunque volesse unirsi ai Romani.
Il colle Palatino sul quale Romolo tracciò con l'aratro i limiti del “pomerio”, come si è visto fu veramente fra i più antichi insediamenti umani della zona di Roma. La scelta del luogo presentava molti vantaggi come sottolinea Cicerone nel suo de Re publica: abbastanza lontano dalla costa da essere al sicuro da invasioni piratesche e nello stesso tempo collegato al mare grazie al Tevere; l'altezza del colle e la configurazione della regione d'altro canto lo rendeva facilmente difendibile e garantiva un clima più salubre di quello delle paludi circostanti, infine la ricchezza di sorgenti assicurava la disponibilità di acqua potabile e la possibilità di irrigare i campi. Anche se ovviamente non fu Romolo a scegliere il luogo quelli che abbiamo elencato sono sicuramente i motivi per cui quelle antiche genti lo scelsero per costruire le loro prime abitazioni. La prima città fu quella che gli storici chiamano “Roma quadrata” per la forma quadrilatera della sua più antica cinta di mura, ancora visibili in età imperiale le cui vestigia furono descritte da Tacito. La Roma quadrata era tutta sul colle Palatino del quale comprendeva le tre alture: il Germalo, la Velia ed il Palatino propriamente detto. La Velia venne più tardi tagliata per costruire quella che ora si chiama Via dei Fori Imperiali e protendendosi verso l'Esquilino chiudeva la valle dove ora sorge il Colosseo.
L'asperità del terreno non permise che la città assumesse l'impianto caratteristico di molte altre che in seguito i Romani fondarono: non aveva un decumano ed un cardine ad attraversarla nei due sensi per incontrarsi al centro come previsto nello schema dei campi militari e non aveva quattro porte ma solo tre, dove le pendenze del colle più ne facilitavano la collocazione. La porta Mugonia si apriva oltre la Velia, verso l'Esquilino; la Romanula guardava verso il Tevere ed il terzo accesso era una lunga rampa di gradini, la Scala di Caco, il cui nome ricordava il mitico gigantesco pastore ucciso da Ercole, che dalla sommità del colle scendeva verso la valle Murcia, l'ampia vallata fra il Palatino e l'Esqulino dove sorse il Circo Massimo. La leggenda racconta che nei pressi della Scala di Caco si trovava la casa di Romolo, un primitivo abituro in forma di capanna; e proprio in quella zona sono stati rinvenuti restidi capanne risalenti all'ottavo secolo a.C.
Ai piedi del colle, nell'ampia spianata che separa il Palatino dalla riva del fiume - oggipiazza della Bocca della Verità -nacque presto unmercato servito da un approdo rudimentale. Questo mercato dai buoi che vi si commerciavano ebbe il nome di Foro Boario. Insediatosi al governo della nuova città Romolo promulgò le prime leggi e istituì il consiglio dei padri, i cui discendenti si chiamarono patrizi.
Come sempre la leggenda serve a narrare in modo semplificato quello che in realtà avvenne certamente con maggior complessità di eventi e forse con travaglio sociale. La forma di governo mista costituita da un re e da un consiglio di anziani non era una novità per i popoli italici e rispecchiava in termini politici l'ordinamento proprio delle famiglie.
Nella casa dei Romani più antichi, infatti il pater familias, come tutti sanno godeva della massima autorità ed aveva potere di vita e di morte non solo sui servi e sugli schiavi ma anche sui propri figli. Ora il consiglio degli anziani era costituito appunto dai padri delle varie famiglie ed il re era considerato una sorta di padre della famiglia comune, la città appunto. Quindi fu nella prima età monarchica che si formò quell'aristocrazia patrizia e senatoria che detenne il potere a Roma fino all'avvento dell'impero pur rimanendo in continua lotta con la plebe. L'origine delle schiatte patrizie in molti casi risaliva probabilmente ai pagi, quei villaggi nati in epoca preistorica i cui abitanti erano legati fra loro da stretti vincoli di parentela. I più antichi di questi nuclei finirono per essere anche i più ricchi di terra ed i più consolidati dal punto di vista economico quando si entrò in epoca storica. Per contro una popolazione ulteriore più recente e via via numericamente maggiore ma carente o del tutto priva di possedimenti venne a connettere un tessuto sociale più articolato. Gruppi di nullatenenti, di contadini o pastori poverissimi, seminomadi provenienti dalle regioni limitrofe, abitanti di altri centri che avverse fatalità oggi non più ricordate avevano fatto decadere, venivano attratti dal crescente insediamento romano e vi si avvicinavano per trovare fonte di sostentamento nel lavoro dei campi e nella condizione servile. Privi di ogni diritto questi antichi immigrati, insieme ai cittadini più sfortunati andarono a formare le nutrite clientele dei cittadini più abbienti, il cui patronato ricambiavano con la propria servitù.
In periodi successivi a questo proletariato si aggiunsero le numerose ondate di schiavi che a seguito di ogni vittoria militare venivano deportati a Roma.
Intorno a Roma fiorivano o stavano sorgendo molti altri centri latini come Alba (antica città fortificata, probabilmente ormai già in decadenza), Lanuvio, Aricia, Tuscolo nella salubre zona dei Colli Albani ed ancora Tivoli, Palestrina, Labico, Gabi, Nomentum. Disponevano tutte quelle città di ottima terra da coltivare mentre la zona di Roma aveva senz'altro una vocazione più commerciale ed il consolidarsi in forma cittadina degli antichi villaggi ed accampamenti lasciò varie tracce nella leggenda dove la storia non era ancora pronta a raccoglierne la testimonianza. Non sembra azzardato pensare ad esempio che il fenomeno che aveva portato alla formazione del centro urbano continuasse a richiamare gente dai paesi limitrofi ad ingrossare la popolazione. La tradizione ha forse da questo processo ricavato uno degli episodi più noti delle origini di Roma: il ratto delle Sabine.
Romolo tentò, si racconta, di intraprendere relazioni amichevoli con le città confinanti ma non bastando questo decise di ricorrere ad uno stratagemma. Già allora la valle Murcia, che doveva il suo nome ai mirti dell'Esquilino, serviva per giochi e per gare in onore di Conso, il dio dei granai. Il re indisse una di queste feste ed invitò i suoi vicini. Vennero in molti da Cenina, da Antemne, da Crustumium e soprattutto vennero i Sabini, tutti curiosi di vedere la nuova città ed ansiosi di partecipare a quei giochi che i Romani organizzavano con tanto zelante entusiasmo.
Servì un tumulto provocato ad arte a scatenare il panico fra la folla che assisteva ai giochi ed approfittando della confusione la gioventù romana rapì le più belle fra le ragazze ospitate, fra le quali forse Ersilia che più avanti, nel racconto di Livio, è citata come moglie di Romolo, al quale avrebbe dato due figli: Prima e Avillius. Le fonti sono discordi sul numero delle ragazze rapite: nella maggior parte dei casi si parla di trenta persone, ma Valerio Anziate ne contava 527 e Giuba 683. A favore di Romolo si disse che aveva rapito solo nubili dimostrando che il gesto era compiuto per necessità e non per violenza anche se viene da chiedersi come facessero i Romani a conoscere la situazione familiare delle loro prede.
Dall'episodio del ratto i Romani di epoca più tarda facevano discendere alcune consuetudini delle loro cerimonie nuziali, come il grido di T(h)alassio o Talasse che voleva ricordare un nobile giovane di nome Talasio al quale la folla offrì una delle più belle fra le giovani rapite. Anche l'uso sopravvissuto fino ad epoche recentissime di far varcare la soglia della casa alla sposa portandola in braccio risalirebbe al ratto delle sabine che non entrarono spontaneamente nelle loro nuove dimore ma vi furono introdotte con la forza dai rapitori.
Nelle vicende che seguono pare di leggere ancora una traccia leggendaria di un sinecismo più ampio con il quale la popolazione di altri villaggi e centri minori prese a fondersi con quella dell'originario nucleo Palatino. I ceninesi, i crustumini, gli antemnati furono infatti rapidamente sconfitti quando tentarono di riprendere le concittadine rapite e finirono per sottomettersi a Romolo che volentieri li accolse. Più lunghe ed impegnative le ostilità contro i Sabini.
Avevano questi evidentemente ben altre risorse rispetto agli altri centri facilmente sottomessi ed il loro re Tito Tazio seppe raccogliere ed organizzare le sue forze prima di attaccare Roma. Cinse la città d'assedio e stabilì il suo campo sotto il Palatino. Infine lo aiutò ad entrare nella rocca del Campidoglio la vestale Tarpea, figlia di Spurio Tarpeo che comandava la guardia delle mura. Che Tarpea avesse tradito come racconta Tito Livio perché corrotta dai doni promessi dai Sabini o, come preferisce Properzio, perché innamorata di Tazio, gli assedianti riuscirono ad entrare e punirono la traditrice uccidendola sulla rupe del Campidoglio che prese il nome di lei e dalla quale i Romani continuarono sempre a scagliare i condannati per tradimento. In tutte le sue varie presentazioni l'episodio di Tarpea raggiunge la stessa conclusione moralistica: il tradimento non paga ed anche chi ne è stato avvantaggiato trova edificante il punirlo.
Comandava la difesa romana Ostio Ostilio che cadde eroicamente duellando contro Mezzio Curzio, eroe dei Sabini. Fu Romolo invocando l'aiuto di Giove Ottimo Massimo a rianimare i Romani sbandati fino ad avere il sopravvento, mentre Mezzio Curzio precipitava con il suo cavallo nella palude poi chiamata per questo “Lacus Curtius” che occupava parte dell'area dove in seguito sorse il Foro Romano.
A porre fine allo scontro furono le sabine rapite che stracciandosi le vesti come vuole un'immagine frequente nella narrazione degli autori romani separarono i contendenti implorando la pace. Si consideravano ormai spose legittime dei loro rapitori che per questo erano divenuti parenti dei loro padri e fratelli Sabini.
Romani e Sabini, pacificati, si unirono e Romolo volle Tazio come suo collega sul trono. Dice Plutarco: “... il luogo dove si stabilirono questi accordi si chiama ancora oggi Comizio. I Romani infatti dicono il riunirsi comire... “. Ancora chiare tracce di sinecismo dunque: infatti i Romani adottarono alcune armi di tipo sabino e i sabini il calendario romano, i rispettivi culti religiosi si fusero dando vita a nuovi rituali, e così via. Da questi avvenimenti ebbero origine le tribù più antiche di Roma: i Ramni, Latini che facevano risalire le proprie origini a Romolo ed ai suoi primi compagni, i Tizi, di stirpe sabina, ed i Luceri, la cui denominazione derivava forse da Lucumone, re etrusco che aveva aiutato i Romani nella guerra appena narrata.
Non è possibile dire con certezza se dal nome di Cures, capitale del loro territorio d'origine, i Sabini che si stabilirono a Roma trassero l'appellativo di Quiriti, più probabile è che dai Quiriti ebbe nome il Quirinale che i Sabini occuparono formandovi un centro inizialmente piuttosto indipendente,separato dal Palatino dalla valle detta Suburra (dal pagus Succusanus che vi si trovava) nella quale oggi si trova la chiesa di San Pietro in Vincoli. La critica storica moderna tende a sostenere che i Sabini si infiltrarono a Roma durante un periodo lungo, iniziato nei primi tempi della città, il processo sarebbe stato un'immigrazione graduale e pacifica. D'altro canto la stessa attribuzione all'ottavo secolo dell'origine della ripartizione in tribù è storicamente opinabile e sembra che solo verso la fine del settimo secolo, quando l'intervento etrusco si era fatto sentire in modo incisivo, fu adottata questa suddivisione politica ed istituzionale. In quella prima età monarchica, sorsero sul Palatino i più antichi edifici pubblici o sacri: la casa dell'assemblea (Curia Saliorum) in cui si conservava il sacro scudo di Marte, il santuario dei lupi di cui si è parlato dal quale prendeva le mosse la processione dei Lupercali e la casa dei flamini diali, i sacerdoti di Giove. Mentre i Sabini occupavano il Quirinale altri abitanti cominciavano a costruire sul Celio e sull'Esquilino. Il primo forse era stato sede di un'antichissima comunità di genti originaria dei colli albani, detti Querquetulani, ed il secondo ospitava vari insediamenti e luoghi di culto sulle sue alture (l'Oppio, il Cispio, il Fagutale), nonché una necropoli che nell'ottavo secolo sostituì il sepolcreto del Foro romano diventato insufficiente rispetto alle esigenze dell'abitato.
Per quanto riguarda il Quirinale, nonché parte del Campidoglio (Arx Capitolina), pare accertato vi fiorisse una comunità indipendente ed in qualche modo contrapposta a quella palatina, i due centri si sarebbero fusi, secondo la tradizione, dopo la morte di Tito Tazio e di Romolo.
Negli anni sessanta del ventesimo secolo, ai piedi del Campidoglio è tornata alla luce un'area sacra, detta di Sant'Omobono, con resti di capanne arcaiche del nono e dell'ottavo secolo. E' probabile che già in quell'epoca si intraprendessero opere di bonifica e di regolamentazione dei corsi d'acqua allora numerosi nella valle del Foro, spesso soggetta ad alluvioni.
Le abitazioni erano molto semplici, per lo più realizzate in legno con tetti di paglia acuminati constavano di un solo locale, qualche volta l'ambiente nel quale di dormiva e la dispensa erano invece separate o costruite intorno ad uno spazio centrale. Anche il vestibolo (locale nel quale vestirsi) solo in epoca più tarda verrà aggiunto a fronteggiare la strada per aumentare l'intimità delle dimore.
In quelle case vivevano famiglie dai costumi semplici in molti aspetti profondamente influenzati dalla religione, una religione relativamente povera di miti che non aveva ancora ricevuto il vastissimo apporto della cultura greca. Piace pensare che la religiosità dei Latini in genere e dei primi Romani fosse vissuta nel modo familiare e quotidiano con cui la nostra civiltà contadina fino a tempi recentissimi (e probabilmente ancora oggi in qualche caso) viveva le proprie abitudini di devozione. Non sembra infondo così diversa l'usanza dei Romani di tenere in casa piccole immagini dei lari familiari che rappresentavano gli spiriti degli antenati o comunque spiriti che benevolmente vegliavano sulle case, da quella assai più recente di esporre negli ambienti domestici ritratti e fotografie di genitori e nonni già da tempo passati a miglior vita. Il pater familias tornando dai campi all'imbrunire rivolgeva al Lar familias il suo primo saluto. I Penati, anch'essi identificati con gli antenati, erano altrettanto venerati nella consuetudine familiare che vedeva nel focolare il loro altare ed una parte del cibo veniva loro dedicata gettandola nel fuoco.
Sulle famiglie, come si è detto, regnava incontrastata l'autorità del Pater familias che esercitava verso i suoi congiunti anche la funzione giudiziaria, ne valutava i reati e li puniva anche con pene corporali e a volte addirittura con la condanna a morte.
La sua consorte, pur godendo di uguali diritti sul patrimonio era di fatto subordinata al marito sul piano morale e pratico. Affrancata dalle incombenze domestiche che erano tutte demandate alla servitù si dedicava alla conduzione della casa e tradizionalmente al fuso tanto che nella successiva letteratura latina l'immagine della donna che fila diventerà un simbolo della virtù muliebre. I figli erano i più oberati dal potere paterno: anche dopo aver formato una propria famiglia non potevano disporre liberamente dei propri beni fini alla morte del padre, potevano essere puniti severamente e perfino venduti come schiavi. I legami di parentela, anche i meno stretti, erano profondamente sentiti e le famiglie che riconoscevano antenati comuni si consideravano unite in una gens. Un'altra caratteristica della mentalità romana era l'importanza data al diritto di cittadinanza. A ben guardare questo diritto ripete in forma più generalizzata l'idea di appartenere ad una comunità ben definita, idea che stava alla base della concezione della famiglia e delle gentes. Nei secoli successivi il diritto di cittadinanza (con o senza accesso al voto) sarà concesso anche ad intere popolazioni non necessariamente vicine a Roma in senso geografico, ma nella città monarchica spettava ai soli figli legittimi nati dai matrimoni fra membri delle gentes. Fra l'altro è importante ricordare come la similitudine fra la condizione del re e quella del pater familias si estendesse alla pratica della clientela. Se il capo di un'importante famiglia disponeva di numerosi servi per il lavoro dei campi e per le occupazioni domestiche, numerosissimi furono gli schiavi pubblici che si configuravano come clienti del re, le cui attività, in forza dell'analogia di diritto fra stato e famiglia erano destinate alle incombenze della vita e dell'organizzazione del Comune. I clienti del re lavoravano quindi i terreni indivisi di pertinenza dello Stato, si dedicavano alle opere pubbliche e, in misura minore, al servizio diretto della persona del monarca.

Con l'andare del tempo, mentre la classe dei non cittadini domiciliati a Roma si faceva più numerosa, i suoi membri cercavano più spesso di sottrarsi alla clientela privata per passare a quella del re. Questo fenomeno finì per snaturare il rapporto fra il patrono ed i suoi clienti; l'insieme dei non cittadini costituì a poco a poco la plebe, una classe politica ben definita, in netta contrapposizione con il patriziato.
Anche dal punto di vista giuridico l'autorità del re poteva essere considerata una trasposizione in chiave politica di quella del padre di famiglia. Il monarca amministrava infatti la giustizia, a lui spettava di giudicare i reati e di comminare le pene. Tuttavia, come nota Mommsen, il potere del re era sostanzialmente potere esecutivo mentre il vero legislatore era il consiglio degli anziani e, per certi aspetti, l'assemblea popolare.
Questa distribuzione di poteri su tre istituzioni, il re, il consiglio degli ottimati, e l'assemblea del popolo è la struttura portante di quell'assetto costituzionale che Cicerone loderà nel de Re Publica come la migliore e più stabile forma di governo.
In particolare il senso pratico dei Romani riconosceva alla funzione dell'unico re grandi vantaggi di efficienza nell'amministrazione dello Stato. Infatti quando, qualche anno dopo il ratto delle sabine, Tito Tazio fu ucciso Romolo, stando a Livio, non se ne dispiacque quanto avrebbe dovuto proprio perché sollevato dal vedere scongiurati i pericoli derivanti dal doppio trono. La tradizione vuole che Tito Tazio sia stato trucidato dagli abitanti di una città che si chiamava Laurentum (la cui reale esistenza non è documentata) per aver in precedenza oltraggiato gli ambasciatori di quella città. Seguendo ancora la narrazione di Tito Livio leggiamo che poco dopo la morte di Tazio inizia la guerra con Fidene, quindi con Veio. Oggi si ritiene che le ostilità con queste città si siano verificate più tardi, forse nel quinto secolo. Fidene era situata sulla riva sinistra del Tevere presso il sito dell'attuale omonima borgata, era città di fondazione latina che ben presto subì forti influenze etrusche. Veio era più a Nord, verso l'Etruria, approssimativamente sul percorso che sarebbe stato tracciato dalla via Cassia, presso l'odierno villaggio di Isola Farnese.
Probabilmente le vicende tramandate da Livio e dalle sue fonti si riferiscono ad episodi di più generale ostilità verso la nazione etrusca, infatti si parla spesso di scorrerie, incursioni, violazioni di territorio più che di battaglie vere e proprie. D'altro canto Fidene e Veio compaiono più volte in epoche diverse della trattazione liviana come nemiche di Roma mai del tutto sconfitte. I Veienti in particolare dopo essere stati battuti da Romolo ottennero una tregua di cento anni. Romolo esce di scena in modo misterioso: nel corso di un'adunanza in Campo Marzio, alle none del mese di luglio del 715 a.C., suo trentanovesimo anno di regno, in un punto detto “palude delle Capre”, viene avvolto da dense nubi al dissipare delle quali il re è scomparso. Chi analizzi la tradizione a proposito di Romolo con l'intento di immaginare quali intenzioni la abbiano formata ed influenzata nel tempo noterà alcune contraddizioni che fanno pensare che non sempre nel corso dei secoli la sua figura sia stata gradita a tutti i Romani. E' chiaro come la leggenda sia servita prima di tutto ad immaginare un'origine divina del fondatore di Roma che corroborasse quella fatale della supremazia della città sul mondo nonché un nesso ben articolato con il mito di Troia ed il ciclo omerico. Romolo è un personaggio bellicoso, conquistatore oltre che legislatore, che afferma il dominio della città nascente sui popoli vicini ed il proprio sulla città, con mezzi non sempre legalitari.
Dal fratricidio allo stupro di massa, dall'esaltazione della propria regalità al suo circondarsi di una guardia del corpo di ben trecento armati, non sono poche le occasioni in cui la tradizione non manca di attribuire al personaggio aspetti quanto meno sinistri. Se per i più Romolo fu visto come un padre della patria, un dio, un eroe ci fu anche qualcuno che volle forse farne un simbolo di tirannia, di potere incontrollato. La tradizione nei secoli ha raccolto queste voci ed ha composto il ritratto del figlio di Marte così come gli autori ce lo hanno tramandato. Dopo la scomparsa di Romolo infatti si racconta che l'aristocrazia fu sospettata di averlo eliminato perché negli ultimi anni aveva spesso mancato di rispetto all'autorità del Senato: opportunamente un certo Giulio Proculo raccontò di aver sognato il re scendere improvvisamente dal cielo per rivelargli di essere stato assunto dagli dei ed incaricarlo di portare a tutti i cittadini la sua esortazione a coltivare l'arte militare, per la grandezza di Roma. Con un velo di ironia Livio si chiede se sia credibile che un intero popolo presti fede ad un simile racconto, comunque Romolo più tardi fu identificato con Quirino e divinizzato. Se si segue la vicenda dei Re tradizionali, alla morte di Romolo si verifica una situazione in cui gran parte dell'assetto politico della Roma arcaica risulta già delineato. Ovviamente le cose andarono in modo più complesso, tuttavia il fatto che nei primi secoli Roma fosse retta da una monarchia è storicamente accertato ed è inoltre conforme a prerogative note delle culture indoeuropee in generale.
La costituzione del comune durante la monarchia fu soggetta a mutamenti ed evoluzioni fino a stabilizzarsi nell'ordinamento attribuito a Servio Tullio, detto Costituzione Serviana, in epoche precedenti le leggi che la tradizione attribuisce a Romolo ed ai suoi primi successori non prevedevano sostanziali differenze di condizione fra i cittadini. I cittadini erano organizzati in curie, dieci per ogni tribù che si riunivano ogni tre settimane in assemblee dette Comizi Curiati per esprimere il loro voto; vigeva un principio di assoluta eguaglianza mentre nettissima era la distinzione fra cittadini e non cittadini.

La funzione delle assemblee era quella di esprimere e riconfermare il consenso all'autorità del re che in genere fu sempre elettivo e non dinastico anche se alcuni studiosi sono di opinione diversa almeno per quanto concerne l'ultimo periodo monarchico. Essendo il re investito della più ampia autorità, la partecipazione dei cittadini alle assemblee, al di là degli aspetti formali, acquistava importanza solo quando contingenze complesse rendevano necessaria una consultazione allargata: in quei casi la cittadinanza veniva interpellata perché esprimesse l'opinione comune sulle norme che si intendeva promulgare e, come racconta Mommsen, dopo dibattiti e trattative, si arrivava a legiferare come conclusione di un patto tra i vari poteri dello stato.  Dal punto di vista militare le forze della prima Roma constavano di una legio di tremila fanti, reclutati in ragione di cento per ogni curia, e di trecento cavalieri, detti celeri, dieci per ogni curia. Al re spettava il supremo comando militare e la possibilità di delegarlo ad ufficiali da lui appositamente nominati. Per dichiarare una guerra era necessario convocare l'assemblea e consultare i comizi centuriati, una sorta di assemblea militare, mentre per la difesa il re aveva i pieni poteri.
Anche se, come sempre, la tradizione e comunque le fonti letterarie non possono essere accettate alla lettera per quanto concerne la descrizione dell'assetto sociale e politico di Roma alle sue origini è senz'altro confermato come l'istituzione delle curie risalga effettivamente a quel periodo. Le curie, come associazioni di individui di condizioni omogenee è quindi espressione di un'oligarchia in formazione, di un ceto aristocratico che cerca di raccogliere in forma associativa tutti i propri membri per convalidare fortemente il proprio predominio sugli organi fondamentali dello Stato.  Con la misteriosa scomparsa di Romolo la narrazione tradizionale chiude un primo capitolo sulle origini di Roma, capitolo nel quale l'affabulazione e la mitologia hanno costituito, come si è visto, l'ingrediente principale, quasi a voler colmare le enormi lacune che l'antichità degli eventi e la mancanza di fonti costituivano anche per gli storici di età classica.
Il processo di formazione del mito per così dire ufficiale ha lasciato varie testimonianze di narrazioni meno note, più o meno complesse, nel lavoro di molti scrittori ed antiquari di epoca classica. Come sempre è lo scrupoloso Plutarco a documentarne alcune.
Prima della cronologia stabilita da Varrone, ad esempio, c'era chi riteneva che Romolo fosse figlio di Enea e di Dessitea, nato a Troia e giunto naufrago in Italia. Altri lo ritenevano figlio di quella Rhome di cui si è detto, l'autrice dell'incendio delle navi, che stabilitasi nel Lazio aveva sposato Latino, figlio di Telemaco.
Una versione estremamente fantasiosa è quella che Plutarco attribuisce ad un certo Promathion, altrimenti sconosciuto, autore di una storia d'Italia: Tarchezio, dispotico re degli Albani ebbe la visione di un fallo maschile prodigiosamente apparso sul suo focolare. Come era consuetudine in questi casi eccezionali il re consultò un oracolo che sentenziò che il fallo doveva unirsi ad una vergine. Tarchezio ordinò ad una delle sue figlie di procedere all'insolito amplesso ma la ragazza preferì, all'ultimo momento, farsi sostituire da una schiava. Scoperto l'inganno Tarchezio fece imprigionare la figlia e la schiava, da quest'ultima nacquero due gemelli, Romolo e Remo, che furono prontamente condannati a morte. Esposti al Tevere furono salvati da una lupa e da un pastore che li allevarono fin quando, diventati adulti, non spodestarono Tarchezio. Come vedremo procedendo lungo il corso dei regni tradizionali l'elemento leggendario cederà via via di posto alla testimonianza storica più verosimile ed attendibile. La leggenda di Romolo non fu concepita da un unico autore ma venne creandosi nel corso dei secoli per rispondere al grande interrogativo sul destino di Roma in modo che pienamente soddisfacesse il pensiero antico. Mentre Roma cresceva, diventando sempre più potente, mentre i suoi domini si facevano più estesi ed i suoi monumenti più splendidi, il romano si chiedeva quale fato avesse stabilito tutto questo: a questa domanda che a ben guardare è il solito infinito ed irrisolto interrogativo sul perché delle cose, l'immaginazione, la poetica, la fede degli antichi davano l'unica possibile risposta: il mito.