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Dante Alighieri

La Divina Commedia - Purgatorio


(Sintesi parziale)

Canto I


Dante e Virgilio sono finalmente riemersi dall'abisso infernale e si trovano sulla spiaggia dell'isola del Purgatorio, nell'emisfero antartico, poco prima dell'alba.
Ora l'intelletto di Dante che per correr migliori acque alza le vele ha bisogno del soccorso delle Muse alle quali il Poeta ha consacrato la propria esistenza, mentre si accinge a cantare nuove meraviglie e ad esplorare le profondità dell'animo umano da un nuovo punto di vista, quello della penitenza come strumento di liberazione.
Invoca dunque Calliope, musa della poesia epica, perché accompagni il suo canto con la stessa musica che atterrì le Pieridi facendo loro comprendere l'insania della superbia.
Il riferimento è qui ad un mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi: le Pieridi osarono sfidare le Muse in una gara di canto e, sconfitte, furono trasformate in gazze.
Per Dante prima ancora di essere punite le sfidanti disperar perdono nel sentire in quella musica la superiorità divina e l'ineluttabilità della condanna. Proprio con questa musica dai significati fatali Dante vuole essere accompagnato perché le sue rime siano di monito a chi, come le pieridi, pecca di superbia.
Ma dopo questa premessa retorica e simbolica il canto si apre alla gioiosa contemplazione del cielo all'alba che appare tanto più luminoso e sereno quanto più tenebrosi ed angosciosi erano i paesaggi infernali che il visitatore ha appena lasciato.
Il dolce color d'oriental zaffiro di quel cielo è senz'altro ricco di significati simbolici sui quali molto si è scritto, ma è anche immagine immediata e suadente che comunica al lettore tutto il sollievo e la gratitudine di chi, reduce dall'esperienza atroce del dolore, ritrovi finalmente un momento di serenità.
A oriente il cielo è illuminato dal pianeta Venere mentre volgendosi verso destra Dante scorge quattro stelle mai viste se non da Adamo ed Eva quando erano nel Paradiso Terrestre (che Dante colloca sulla sommità della montagna del Purgatorio).
Secondo i commentatori queste stelle, invisibili dall'emisfero settentrionale, rappresentano le quattro virtù cardinali ed il rimpianto che Dante esprime (o settentrional vedovo sito) è rimpianto per la felicità perduta, tristezza per l'imperfezione della condizione umana.
Compare a questo punto un "veglio solo", il volto illuminato dalla luce delle quattro stelle, lunghe e grige la barba e la chioma, l'aspetto quanto mai venerabile ed autorevole. Si tratta di Marco Porcio Catone Uticense, lo strenuo difensore degli ideali repubblicani contro l'ascesa di Giulio Cesare, suicida ad Utica dopo essere stato sconfitto dai cesariani.
Qui Dante supera la considerazione che si stia parlando di un pagano e di un suicida, supera l'avversità di Catone al modello imperiale di cui Dante stesso era sostenitore per cogliere in un unico istante della vita dell'Uticense, quello in cui scelse di morire per la libertà, un simbolo di altissimo valore morale, tanto da farne il guardiano del Purgatorio, difensore di quanto consente all'essere umano di liberarsi dai vincoli del peccato e dalle scorie delle proprie colpe.
Così il personaggio trascende dalla sua realtà storica per divenire emblema della libertà come massima espressione civile e nello stesso tempo simbolo precorrente dell'affrancamento totale che il Cristianesimo rappresenterà per i suoi seguaci.
Catone interroga i due pellegrini, vuole sapere chi siano e come siano riusciti ad evadere dalla "profonda notte".
Prima di rispondergli Virgilio sollecita vivacemente con i gesti e le parole Dante perché si inginocchi con reverenza di fronte a Catone. Spiega quindi che la missione di accompagnare un vivente attraverso l'Inferno ed il Purgatorio gli è stata affidata da una donna discesa dal cielo, così come dal cielo discende la forza necessaria per compiere tanta impresa. Per ottenere il consenso di Catone Virgilio fa appello alla libertà che Dante sta cercando come chi per lei vita rifiuta.
Ma dopo il richiamo ideologico alla libertà Virgilio ne aggiunge uno dal colore più umano e non privo di tenerezza ricordando a Catone la moglie Marzia, che si trova nel Limbo, e pregandolo di consentire il passaggio in onore di lei, alla quale promette di parlare del loro incontro.
Un tenue velo di nostalgia avvolge le prime parole della risposta di Catone (Marzia piacque tanto agli occhi miei), ma ora nua legge divina non gli consentirebbe di operare una scelta in nome di un sentimento umano, del resto queste preghiere non sono necessarie perché il guardiano non potrebbe che adeguarsi alla volontà della donna del ciel che ha mandato Virgilio a soccorrere Dante.
Catone consente dunque l'accesso al Purgatorio ai due pellegrini ma prima di proseguire dovranno compiere un rito di purificazione. Dante dovrà lavar via dal viso ogni sporcizia e cingersi di un giunco, simbolo di umiltà.
Troveranno i giunchi sulla spiaggia dove nessun'altra pianta potrebbe resistere ai colpi delle onde (descritti con una famosa onomatopeia).
Catone si dilegua e mentre il sole sorge Virgilio deterge la caligine infernale dal viso di Dante usando erba bagnata di rugiada. E quando coglie un giunco per cingere la vita del suo assistito la pianta, meravigliosamente, torna subito a rinascere.

Canto II


L'apertura di questo canto consiste in una precisazione dell'ora in cui si svolge l'azione basata su vari riferimenti astronomici ai quali corrispondono altrettanti significati simbolici: il sole aveva toccato l'orizzonte il cui meridiano nel punto più alto sovrasta Gerusalemme e la notte sul Gange entrava nella costellazione della Bilancia in modo che nel Purgatorio i colori dell'aurora passavano dal bianco al rosso e dal rosso al giallo.
I commentatori notano la contrapposizione geografica della montagna del Purgatorio sulla cui sommità si trovava l'Eden, il luogo in cui l'umanità è stata creata innocente, con Gerusalemme, la città in cui Cristo si sacrificò per redimere quella stessa umanità corrotta dal peccato.
Nello stesso momento il sole tramontava a Gerusalemme e novanta gradi più a oriente, alla foce del Gange, era mezzanotte, tutto nella perfetta armonia del Creato della quale qui Dante si pone come ammirato testimone.
Improvvisamente Dante scorge sul mare una luce che si avvicina ad incredibile velocità. Abbreviandosi la distanza l'oggetto in movimento prende forma e Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi ed unire le mani perché quello che sta arrivando è un angelo di Dio che guida un'imbarcazione senza usare remi o vele ma tenendo aperte al vento le sue grandi ali bianche.
Nella barca si trovano più di cento spiriti di trapassati diretti al Purgatorio e quando giunge a riva Dante deve abbassare lo sguardo non potendo sostenere lo splendore della figura angelica.
Le anime intonano il salmo CXIII, In exitu Israel de Aegypto, al quale già nel Convivio Dante aveva attribuito il significato simbolico della liberazione dal peccato.
Una volta che i suoi passeggeri sono sbarcati l'angelo riparte con la stessa velocità con cui è arrivato e gli spiriti, visibilmente disorientati, chiedono ai due Poeti quale sia la via per salire al monte. Mentre Virgilio spiega che anche loro sono arrivati da poco le anime notano che Dante è vivo e si assembrano intorno a lui piene di stupore. Una di loro si fa avanti ed abbraccia Dante con tanto affetto che il Poeta è istintivamente portato a ricambiare ma le sua mani tornano al petto non potendo stringere quello che è soltanto un'ombra.
Quando lo spirito sorride dello stupore di Dante questi riconosce Casella da Pistoia, suo intimo amico in gioventù e famoso musico. All'amico che gli chiede perché, morto da tempo, solo ora può entrare in Purgatorio, Casella spiega che è l'angelo traghettatore a stabilire quanto le anime dei trapassati debbano attendere alla foce del Tevere (dove si raccolgono quanti non sono destinati all'Inferno) prima di poter iniziare il loro periodo di espiazione. Da tre mesi, tuttavia, l'angelo accoglie senza opporsi chi voglia essere trasportato (per effetto del Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII).
Dante prega Casella di cantare per lui, se gli è permesso, come faceva un tempo ed il musico intona Amor che nella mente mi ragiona, una canzone dello stesso Dante commentata nel Convivio.
La dolcezza dei versi e della melodia rapisce l'attenzione di tutte le anime giunte sulla spiaggia con Casella e perfino quella di Virgilio, ma un severo richiamo di Catone serve a scuotere e a riportare alla realtà gli estasiati ascoltatori.
"Cos'è questa negligenza? - domanda Catone - cos'è questo tardare nel raggiungere il luogo di purificazione? " a queste parole tutti si affrettano verso il monte, come un volo di colombi spaventati.


Canto III


La fuga delle anime lascia Dante disorientato e Virgilio crucciato per aver meritato il rimprovero di Catone.
Avviandosi verso il monte con il sole alle spalle, Dante nota la propria ombra ma non quella di Virgilio ed ha un moto di preoccupato stupore credendosi solo, ma prima ancora che si volti la sua guida lo rassicura: il suo corpo che faceva ombra è rimasto a Brindisi e da qui è stato portato a Napoli.
Sono misteri, spiega Virgilio, che non si possono comprendere. Se fosse possibile, continua rivolgendosi alle anime intorno a loro, che la ragione percorra le vie infinite della divinità non sarebbe stata necessaria la nascita di Cristo, ma neanche i grandi sapienti come Aristotele e Platone sono riusciti ad intendere questi misteri ed ancora ne soffrono nel limbo.
Giunti ai piedi del monte i due Poeti si fermano dubbiosi perché la salita è scoscesa ed inaccessibile; vedono giungere una schiera di anime che si muove molto lentamente. Intimidite dalla presenza dei due visitatoti le anima si fermano, avvicinandosi fra loro come pecorelle di un gregge ed indietreggiano un poco notando l'ombra proiettata dal corpo di Dante.
Virgilio si rivolge loro in modo rassicurante esortandole a procedere per poterle seguire lungo un cammino più agevole.
Uno dei trapassati si fa avanti e chiede a Dante di guardarlo e, se può, di riconoscerlo. Dante lo osserva ma deve cortesemente negare di averlo mai visto.
Biondo era e bello e di gentile aspetto ma aveva il viso ed il petto sfigurati dalle ferite. Sorridendo lo spirito si presenta, è Manfredi d'Altavilla, nipote dell'imperatrice Costanza (in quanto figlio naturale di Federico II).
Manfredi prega Dante di portare sue notizie alla figlia Costanza e racconta di essersi pentito in punto di morte dei suoi peccati, ciò che è valso ad assicurargli la salvezza, tanto grande è la misericordia divina.
Il vescovo di Cosenza fece trasmutare il cadavere di Manfredi fuori dal territorio della Chiesa, presso il Garigliano, e fu un trasporto senza ceri (a lume spento) come si usava per gli scomunicati.
La scomunica non comporta la dannazione se chi ne è colpito si pente finché è ancora in vita, ma l'anima dello scomunicato dovrà trascorrere sulla spiaggia, prima di accedere al Purgatorio, un tempo trenta volte superiore a quello vissuto dopo la condanna.
Quest'attesa può essere abbreviata dalle preghiere dei viventi, per questo motivo Manfredi prega di essere ricordato a Costanza.

Canto IV


L'anima ha una sola essenza, sosteneva Dante in contrasto con i platonici, e quando è concentrata su qualcosa sembra non prestare attenzione ad altro.
Dante si trova in questa condiziona meditando sull'incontro con Manfredi quando un'anima lo avverte di essere giunto dove la salita si presenta più facile e solo allora si rende conto di quanto il sole sia salito con il procedere del giorno.
La via al Purgatorio si presenta comunque difficile, si dovrebbe essere capaci di volare, considera il Poeta, per poterla affrontare ma le ali gliele fornisce la speranza, il desiderio della serenità e della purezza dopo gli orrori dell'inferno.
Inizia l'arrampicata e presto Dante esausto prega Virgilio di non lasciarlo indietro e Virgilio paternamente lo esorta a raggiungere un ripiano sul quale riposare. Durante la sosta il Poeta nota con stupore che guardando verso oriente si vede il sole a sinistra. Con una dotta argomentazione astronomica Virgilio spiega che il Purgatorio si trova agli antipodi di Gerusalemme quindi di qui si vede la metà del percorso del sole che non è possibile osservare dall'altro emisfero.
Quanto alle difficoltà della salita il poeta latino assicura che dimunuiranno progressivamente via via che si avvicineranno alla sommità. In termini allegorici dunque si allude al Purgatorio come esperienza di purificazione e di raggiungimento della virtù. esperienza estenuandte all'inizio che procedendo si fa più agevole perché chi la vive va liberandosi del peso del peccato e viene corroborato dal bene che acquisisce.
Nelle vicinanze un gruppo di persone sosta in attesa, una di loro si rivolge ironicamente a Dante suggerendogli di riposare prima di affrontare la salita. Sono le anime dei negligenti che per pigrizia hanno rimandato il loro pentimento fino all'ultimo istante della vita e che dovranno attendere nell'antipurgatorio per un tempo pari a quello che hanno vissuto. Chi ha parlato è il liutaio fiorentino Belacqua, noto in città per la sua pigrizia.
Belacqua siede abbracciandosi le ginocchia e deride bonariamente il Poeta per l'attenzione che stava prestando alla questione astronomica. L'atteggiamento di Belacqua muove al riso Dante che si avvicina e ricambia scherzosamente l'ironia del liutaio.
Il dialogo fra i due ha un fresco sapore familiare e costituisce una nota serena dopo l'impegnativo tema dottrinale che lo ha preceduto. Belacqua giustifica la propria indolenza spiegando che salire ora non servirebbe perché l'ingresso al Purgatorio gli sarebbe comunque precluso fino alla data stabilita.

Canto V


Dante e Virgilio si stanno allontanando dalle anime dei negligenti quando una di queste, notando l'ombra di Dante ed il suo atteggiamento, comprende che è vivo e prorompe in un'esclamazione che richiama l'attenzione del Poeta.
Virgilio nota che Dante si sta soffermando e lo richiama aspramente esortandolo a seguirlo senza distrarsi. "Lascia dir le genti" ordina Virgilio, "sta come torre ferma": sono parole forti per un rimprovero che diversi commentatori considerano esagerato, anche in base ai versi successivi in cui Dante, colpito ed imbarazzato per il richiamo del maestro, arrossisce.
Si tratta di una manifestazione chiara del ruolo della ragione, come sempre rappresentata da Virgilio, che richiama l'attenzione su ciò che più conta e che deve essere raggiunto con inflessibile fermezza (la torre che non crolla la cima al soffiar dei venti), serietà e dignità (il lasciar parlare la gente non curando "di ciò che quivi si pispiglia").
Subito Dante si adegua al precetto della sua guida ma il suo andare da vivo in un mondo ultraterreno è cosa troppo straordinaria per non destare lo stupore delle anime del Purgatorio, così il "Miserere" cantato dal gruppo che sopraggiunge si trasforma in un'espressione di stupore quasi infantile.
Sono le anime di quanti, periti di morte violenta, si sono pentiti soltanto nell'ultimo momento e dovranno rimanere per un tempo imprecisato nell'Antipurgatorio prima di poter iniziare la loro ascesa verso la beatitudine.
Due di questi penitenti, staccandosi dal gruppo, vanno verso i visitatori per chiedere loro chi siano e Virgilio risponde con due terzine improntate a grande solennità confermando quanto essi hanno già intuito, Dante è "vera carne", e quanto essi sperano, cioè che date possa esser loro di aiuto (può esser lor caro).
Spiegata la loro condizione, le anime chiedono a Dante se riconosce qualcuno di loro, il Poeta risponde di no ma promette di fare quanto potrà per aiutarli.
Il primo a farsi avanti è Jacopo del Cassero, nobile guelfo di Fano che fu podestà di Bologna e difese arditamente la città contro gli Estensi, procurandosi l'odio di Azzo VIII d'Este che lo fece uccidere dai propri sicari. Jacopo racconta drammaticamente come fuggendo finì in una palude dove le canne ed il fango lo bloccarono e come vide "delle mie vene in terra farsi laco".
A Jacopo segue Bonconte da Montefeltro, appartenente alla casata dei signori di Urbino e famoso comandante ghibellino caduto nella battaglia di Campaldino.
Il corpo di Bonconte non fu mai ritrovato e la sua anima spiega che, grazie al suo pentimento in extremis, venne un angelo a prenderla per recarla in Purgatorio mentre un demone sfogava la propria ira facendo in modo che il cadavere fosse trasportato e disperso dalle acque del torrente Archiano in piena.
L'ultimo intervento, breve e dolcissimo, è quello della senese Pia che è stata identificata con Pia de' Tolomei la quale sposò Nello d'Inghiramo dei Pannocchieschi e fu da questi fatta uccidere.
I motivi dell'uxoricidio non sono noti con certezza, nei commenti antichi si parla di infedeltà accertata o presunta di Pia, oppure si dice che il marito voleva liberarsi di lei per sposare un'altra donna.
Dante non si esprime in merito ma le attribuisce evidentemente una colpa dal momento che la colloca fra i peccatori pentitisi all'ultimo momento.
La grazia del personaggio è evidente nei primi due versi che pronuncia: chiede a Dante di ricordarla quando si sarà riposato del lungo viaggio, quindi parla di se con poche parole dicendosi nata a Siena e "disfatta" in Maremma e ricordando la gemma del suo anello nuziale.

Canto VI


Le anime si affollano intorno a Dante pregandolo di ricordarle ai vivi perché con le preghiere possono abbreviare la loro permanenza nell'Antipurgatorio.
Dante ricorda che in passo dell'Eneide si nega che le preghiere umane possano influenzare la volontà divina, chiede quindi a Virgilio se la speranza dei trapassati non sia soltanto un'illusione ma Virgilio chiarisce che la sua affermazione riguardava dei pagani le cui invocazioni non si rivolgevano all'unico vero Dio. Ma questo concetto sarà spiegato più chiaramente da Beatrice che aprirà all'intelletto del Poeta la comprensione della verità.
Udito il nome di Beatrice, Dante esorta Virgilio a procedere più rapidamente affermando di sentire molto meno la fatica, ma Virgilio vuole parlare con un personaggio solitario che li osserva in silenzio con atteggiamento raccolto e dignitoso.
Quando viene interrogato sulla via da seguire il personaggio non risponde ma chiede a sua volta informazioni sulla provenienza dei visitatori, e non appena Virgilio pronuncia la parola "Mantova" lo abbraccia commosso svelando di essere Sordello, suo conterraneo.
Si tratta di Sordello da Goito, noto trovatore del XIII secolo. Il personaggio verrà sviluppato nel canto seguente ma qui l'emozione per l'incontro dei due compatrioti è occasione per scagliare una famosa invettiva contro la situazione politica dei tempi dell'Autore: Ahi serva Italia, di dolore ostello.
La passione politica, il dramma personale, lo sdegno di Dante trovano sfogo in questi versi ma senza compromettere il rigore stilistico ed il significato storico.
L'Italia è abbandonata a se stessa (nave senza nocchiere in gran tempesta) ed è straziata dalle guerre fra le città e all'interno delle città stesse.
Sono state inutili le riforme giuridiche di Giustiniano, in mano alla gente di chiesa che dovrebbe pensare alla fede più che al potere, l'Italia è come una cavalla ribelle senza la guida dell'imperatore.
Ma proprio all'imperatore si rivolge la seconda parte dell'invettiva, la più drammatica: Alberto d'Asburgo, come suo padre Rodolfo I, ha trascurato l'Italia per curare gli interessi della Germania.
Dante lo invita, anzi lo sfida, a scendere in Italia per vedere la devastazione di quello che dovrebbe essere il giardino d'Europa, dove le antiche e nobili famiglie sono umiliate, dove Roma priva di un Cesare piange vedova e sola.
Nell'enfasi della sua indignazione, il Poeta arriva a chiedere a Cristo perché abbia rivolto gli occhi altrove, quindi cambia tono improvvisamente e si rivolge a Firenze con cocente sarcasmo, congratulandosi con la sua città per il clima di concordia e di giustizia in cui vive e infine, pensando ai continui sommovimenti politici fiorentini, la paragona ad un'inferma che si agiti nel suo letto nel vano tentativo di trovare sollievo al dolore.


Canto VII


Dopo le entusiastiche effusioni Sordello chiede chi siano i due visitatori e quando apprende di parlare con Virgilio "gloria dei Latini" gli abbraccia le ginocchia in segno di reverenza.
Virgilio gli parla del Limbo, dove risiede per non aver potuto abbracciare la fede cristiana insieme a quanti come lui sono macchiati dal solo peccato originale.
Sordello si offre di accompagnare Dante e Virgilio fin dove gli sarà possibile ma fa notare che il tramonto è ormai prossimo e non sarà possibile proseguire nelle tenebre, accompagna quindi i due poeti in una amena valletta dove una folta schiera di trapassati sta intonando l'inno "Salve Regina" ed indica loro i personaggi più famosi.
Nell'ordine: Rodolfo d'Asburgo, l'imperatore che come si è detto nel canto precedente fu indotto dalle vicende tedesche a trascurare l'Italia, Ottocaro II re di Boemia, uomo più virtuoso del figlio Venceslao IV, Filippo III l'Ardito re di Francia e Enrico il Grasso re di Navarra rispettivamente padre e suocero del "mal di Francia" Filippo IV il Bello.
Pietro III re d'Aragona e Carlo I d'Angiò re di Napoli. Si allude ad un giovinetto figlio di Pietro III d'Aragona ma non è certo se si intenda Alfonso III o Pietro. Giacomo II e Federico II, altri figli di Pietro III: il primo fu re d'Aragona dopo Alfonso III, il secondo divenne re di Sicilia nel 1296.
Costanza vedova di Pietro III ha motivo di vantarsi del marito più di quanto ne abbiano Beatrice di Provenza e Margherita di Bologna, prima e seconda moglie di Carlo d'Angiò. Il figlio di quest'ultimo, Carlo II lo Zoppo, è a sua volta inferiore al padre e la Puglia e la Provenza soffrono per il suo mal governo.
Migliore la discendenza di Arrigo III d'Inghilterra, figlio di Giovanni Senzaterra e padre di Edoardo I.
Chiude il canto la figura di Guglielmo III detto Spadalunga marchese del Monferrato, vicario imperiale che morì prigioniero dei cittadini di Alessandria, per vendicarlo suo figlio Giovanni I scatenò una guerra.

Canto VIII


Sta per concludersi la prima giornata di Dante nel secondo regno ultramondano ed il momento vespertino è descritto con la toccante malinconia di celebri versi: Era già l'ora che volge il disio ... .
L'attenzione di Dante viene attratta da un'anima che chiama con la mano gli altri penitenti ed intona con voce dolcissima un inno sacro.
Al termine del canto corale scendono dal cielo due angeli che si dispongono ai limiti della valletta per allontanare - come spiega Sordello - il serpente che presto giugnerà.
Nella valletta dei principi Dante incontra Nino Visconti, nipote di Ugolino della Gherardesca, bandito da Pisa e piiù tardi rientratovi, che aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita in Sardegna, nel giudicato di Gallura e vi era morto nel 1296.
Dall'attenzione con cui Nino Visconti ha osservato Dante e dagli affettuosi saluti che scambia con il Poeta si presume che i due abbiano avuto occasione di conoscersi personalmente, Dante infatti si rallegra nell'apprendere che l'anima di Nino è salva.
Dante informa rapidamente sul suo viaggio Nino che vuole condividere la sorprendente notizia con un compagno di penitenza, Corrado Malaspina.
Nino vorrebbe essere ricordato nelle preghiere della figlia Giovanna, ma non spera di esserlo in quelle di sua moglie (Beatrice d'Este, figlia di Obizzo II), la quale si è risposata con Galeazzo Visconti ed ancora non sa quali tristi eventi le recherà questo matrimonio (esiliato nel 1302 Galeazzo trascorrerà il resto della vita in esilio).
Il colloquio di Dante con Nino Visconti si conclude e Dante osserva tre stelle comparse nel cielo mentre - come gli fa osservare Virgilio - sono tremontate le quatto che si vedevano durante il mattino.
Secondo molti commentatori le tre stelle rappresentano le virtù teologali, mentre le quattro del mattino le virtù cardinali. Il loro avvicendarsi si accompagna con la progressiva ascesa dell'anima verso la perfezione.
Compare in questo momento il serpente, forse lo stesso che tentò Eva, ma i due guardiani celesti spiccano immediatamente il volo e basta il rumore delle loro ali per mettere in fuga il rettile.
Si fa avanti Corrado Malaspina il Giovane e dopo aver indirizzato un augurio a Dante gli chiede notizie del suo paese, la Val di Magra. Dante nega di esservi stato ma assicura a Corrado che la sua casata è famosa in Europa per liberalità e valore. Corrado risponde con una profezia: prima che siano trascorsi sette anni Dante avrà modo di sperimentare personalmente le virtù dei Malaspina.
In effetti risulta che nel 1306 Dante fu ospite dei Malaspina in Lunigiana e conservò di quel periodo un ricordo grato ed affettuoso.

Canto IX


Questo canto, con il quale si conclude la permanenza dei due Poeti nell'Antipurgatorio, è denso di allegorie, simboli, riferimenti mitologici e biblici ad iniziare dal primo verso nel quale l'aurora viene definita La concubina di Titone antico.
Vinto dalla stanchezza, Dante si è addormentato e ha sognato di essere rapito da una grande aquila dalle penne d'oro e trasportato in una sfera di fuoco. Il Poeta si sveglia spaventato ma Virgilio lo tranquillizza: durante la notte è venuta a loro Lucia e lo ha portato dalla valletta alla porta del Purgaorio.
Alla porta si accede salendo tre gradini di colore diverso: il primo è bianco, il secondo quasi nero, il terzo rosso. Secondo molti commentatori rappresentano tre momenti della confessione: il bianco corrisponde all'esame di coscienza con cui l'anima raggiunge una chiara visione di se stessa, il gradino scuro indica i peccati oggetto della confessione ed il rosso la redenzione ottenibile grazie al sangue versato da Cristo.
Sul gradino più alto si trova un angelo portinaio che interroga i due visitatori e quando Virgilio parla della "donna del Cielo" che li ha accompagnati li invita ad avvicinarsi. Dante si inginocchia e l'angelo incide sulla sua fronte sette "P" che rappresentano i sette peccati capitali che saanno assolti durante la visita alle sette cornici del Purgatorio.
L'angelo mostra due chiavi: una d'oro che rappresenta l'autorità divina ed una d'argento simbolo della teologia morale. E' necessario che entrambe aprano le rispettive serrature perché la porta del Purgatorio si dischiuda alle anime dei penitenti. Il divino portinaio racconta di averle avute da San Pietro che gli aveva raccomandato di essere indulgente come Cristo aveva fatto con lui.
Quando la porta viene finalmente aperta si ode un suono cupo come un tuono che presto si trasforma nell'inno Te Deum laudamus.

Canto X


Superata la porta senza voltarsi indietro come l'angelo ha raccomandato, Dante e Virgilio si trovano a persorrere un sentiero sinuoso fino a raggiungere un "piano solingo" dove si concedono una sosta.
Si tratta della cornice che, salendo dolcemente, circonda la Montagna del Purgatorio. La parete del monte è ornata in basso da una fascia di marmo scolpita con tanta perizia da stupire non soltanto Policleto ma la natura stessa.
La prima scultura rappresenta l'Annunciazione, il realismo delle figure è sottolineato dall'aspetto dell'Arcangelo Gabriele che non sembiava immagine che tace e nell'atteggiamento di Maria che sembra rispondere Ecce ancilla Dei.
Nel rilievo successivo Dante riconosce la processione che trasporta l'Arca da Baala a Gat, preceduta dal re Davide che in atto di umiltà festosa e devota procede cantando e danzando, rinunciando al comportamento regale, mentre la moglie Micol lo osserva scandalizzata.
Procedendo Dante può contemplare l'imperatore Traiano che circondato da cavalieri ed insegne si appresta a partire per la guerra: una donna lo trattiene per pregarlo di vendicare la morte del figlio, Traiano vorrebbe rimandare ma davanti alle insistenze della supplice ammette di avere il dovere di fare giustizia prima di partire.
Le tre scene, che rappresentano altrettanti esempi di umiltà, non si limitano a singoli "fotogrammi" ma riescono miracolosamente ad esprimere intere sequenze di azioni, dialoghi compresi. Il prodigio del visibile parlare è possibile perché le sculture non sono opera umana ma divina.
Richiamato da Virgilio, Dante distoglie l'attenzione dalle sculture per rivolgerla ad una singolare processione che avanza lentamente. I penitenti procedono trasportando macigni e, gravati dal carico, sono costretti ad avanzare con la schiena e le gambe piegate, come certe mensole di sostegno che venivano intagliate come persone in questa posa.
Sono i superbi ed il contrappasso è evidente nell'umiliazione della pena che li costringe ad avanzare ranicchiati sotto il peso, lo sguardo sempre rivolto verso il basso. Dante, in un'invettiva contro la superbia, paragona gli uomini ad insetti ancora incompleti: i bruchi destinati a divenire angelica farfalla.

Canto XI


Il canto precedente si è concluso con la visione delle anime che nel primo girone del Purgatorio scontano il peccato di superbia camminano oppresse dal peso di un macigno che portano sulle spalle e che, per contrappasso, le costringe a guardare in terra.
Il canto XI si apre con un Pater Noster recitato da un gruppo di penitenti al termine del quale Virgilio chiede dove sia un passaggio alla successiva cornice che anche Dante, gravato com'è dal suo corpo vivente, possa riselire. L'anima che risponde invita i due viaggiatori a seguire il corteo fino al desiderato passaggio e svela di essere Omberto Aldobrandeschi signore di Campagnatico, un nobile che fu così orgoglioso del proprio lignaggio da disprezzare il resto dell'umanità.
Chinandosi per ascoltare Omberto, Dante riconosce un altro penitente. E' il suo amico Oderisi da Gubbio, famoso miniatore.
Oderisi confida a Dante che la sua fama è ormai superata da quella di Franco, miniatore bolognese, così come Giotto ha superato Cimabue, così come Guido Cavalcanti ha superato Guido Guinizelli e forse è già nato chi oscurerà la fama di entrambi.
E' probabile, come ritengono molti commentatori, che Dante alluda qui a se stesso, se ciò è vero Dante, come autore di questa affermazione, si colloca fra i superbi alle cui pene sta assistendo, ma nello stesso tempo si ammette succube dello stesso destino che rende tanto fragile ed effimera la gloria umana.
Non farà alcuna differenza la durata della vita di un vecchio da quella di un bambino perchè entrambe sono più brevi di un battito di ciglia di fronte all'eternità.
Davanti a lui, dice Oderisi cammina Provenzano Salvani, già famoso signore di Siena ormai dimenticato da tutti. La superbia con la quale ha voluto dominare la sua città lo ha condotto alla pena presente, ma gli è stato evitato l'Antipurgatorio grazie ad un atto di umiltà compiuto sul finire della vita. Quando si trattò di pagare l'esosa taglia richiesta per liberare un amico catturato dai nemici, Provenzano non esitò a mendicare per raggiungere la somma necessaria, accantonando la sua superbia.

Canto XII


Dante segue ancora l'amico Oderisi camminando chino come lui (come buoi che vanno a giogo) quando Virgilio lo esorta a riprendere la via procedendo più rapidamente.
Il pavimento del primo girone è decorato da bassorilievi, prodigiosi nella fattura come quelli del decimo canto, che rappresentano esempi di superbia punita. Vi si vede la caduta di Lucifero, Briareo colpito a morte, Apollo, Minerva e Marte che riuniti intorno a Giove contemplano il campo di battaglia dove hanno appena fatto strage dei Titani.
Una scultura rappresenta il biblico Nembrot (Nimrot) ideatore della Torre di Babele, un'altra Niobe che piange i suoi figli e le sue figlie, un'altra ancora il cadavere di Saul che, abbandonato da Dio per la sua superbia, è stato sconfitto dai Filistei e si è ucciso.
Gli esempi di superbia punita sono numerosi: Aracne tramutata in ragno, Roboamo figlio di Salomone scacciato da Gerusalemme dal popolo in rivolta, Alcmeone che uccide la madre Erifile colpevole di aver tradito lo sposo per ottenere un gioiello di origine divina, il re assiro Sennacherib ucciso dai figli, la regina Tamiri che dopo aver decapitato Ciro ne getta il capo in un otre pieno di sangue, la disfatta dell'esercito assiro dopo la morte del generale Oloferne ucciso da Giuditta, la distruzione di Troia intesa come punizione divina per la superbia dei suoi abitanti.
Mentre contempla i bassorilievi Dante viene ancora una volta richiamato e sollecitato da Virgilio: un angelo si sta avvicinando ai due poeti ed indica loro la scala che li porterà al girone superiore procedendo più facilmente ora che hanno superato il peccato della superbia.
Sono pochi - considera l'angelo - gli uomini che accolgono questo invito e si chiede perché l'umanità, nata per ascendere alla perfezione, ceda così facilmente alla tentazione del peccato.
La creatura angelica, il cui aspetto viene presentato da Dante in modo indiretto con accenni al candore della veste e alla bellezza del volto che sembra la stella del mattino, sfiora con le ali la fronte di Dante prima di lasciare che i due viaggiatori salgano la scala, ripida come quella di San Miniato al Monte a Firenze.
Uno coro che intona Beati Pauperes Spiritu accompagna la salita e Dante si meraviglia di quanta poca fatica provi e chiede spiegazioni a Virgilio il quale promette che quando sulla fronte del poeta saranno cancellate tutte le P non sono non si affaticherà più ma salire sarà una gioia.
Conclude il canto il sorriso di Virgilio, divertito dall'espressione ingenua di Dante che, resosi conto che l'ala dell'angelo ha cancellato il primo dei simboli del peccato, si tocca la fronte per controllare.

Canto XIII


Giunti al sommo della scala i due Poeti incontrano la seconda cornice che, come la prima, cinge la montagna del Purgatorio. Qui non ci sono sculture, la parete e il piano mostrano il livido color della petraia.
Virgilio rivolge una preghiera al Sole perché li aiuti a trovare la strada, secondo alcuni commentatori il sole qui rappresenta la Grazia divina, per altri la ragione.
Procedendo, Dante e Virgilio odono una voce misteriosa pronunciare le parole Vinum non habent, un'altra gridare I' sono Oreste ed ancora Amate da cui male aveste. Si tratta, come spiega Virgilio, di tre esempi di carità: il primo è riferito al miracolo delle Nozze di Cana (Giovanni II, 1-10), il secondo ricorda il gesto di Oreste che svela la propria identità al nemico per impedire a Pilade di sacrificarsi al suo posto, il terzo infine è un precetto di Cristo nel discorso della Montagna: Amate i vostri nemici.
Questi esempi hanno qui valore di monito per gli invidiosi puniti in questo luogo.
Vestiti di un grigio saio che si confonde con il colore della parete di pietra alla quale si appoggiano tanto che Dante deve scrutare con attenzione per distinguerli, i penitenti si sostengono l'un l'altro pregando. Hanno le palpebre cucite con il filo di ferro, una visione orribile che spinge Dante alla pietà e al timore di fare oltraggio veggendo altrui, non essendo veduto, ma prima che riesca a chiederne il consenso, Virgilio, come sempre sensibile alle emozioni del suo assistito, lo incita a rivolgersi agli invidiosi.
Dante chiede quindi se fra quelle anime vi siano degli italiani e gli risponde una voce ricordandogli che nel Purgatorio ciascuno è cittadino della Città di Dio.
A parlare è stata Sapìa (moglie di Guidobaldo Saracini) che ammette di esseere stata più lieta del male altrui che del proprio bene.
Racconta che quando i suoi concittadini ghibellini vennero a battaglia con i guelfi di Firenze a Colle Val d'Elsa, pregò Dio per la loro sconfitta e si rallegrò quando li vide fuggire inseguiti dal nemico, tanto da rivolgersi con arroganza al Signore.
Si pentì negli ultimi tempi della sua vita e giovarono alla sua anima le preghiere, pietose e devote, di Pier Pettinaio, un umile terziario francescano che teneva a Siena una bottega di pettini.
Narrata la sua storia Sapìa chiede a Dante chi sia e il poeta riconosce che anche lui dovrà passare un breve periodo fra gli invidiosi, ma molto di più lo preoccupa il tormento dei superbi che ha incontrato nella cornice precedente.
Conferma di essere vivo ed invita Sapìa ad affidargli un messaggio per i viventi, la donna lo prega di ricordarlo ai suoi concittadini ma lo fa con sarcasmo alludendo con disprezzo a due fallimentari progetti dei Senesi: l'acquisto di Talamone (volevano farne un porto ma il luogo si rivelò inadatto) e la ricerca mai soddisfatta di un fiume sotterraneo chiamato Diana che si diceva scorresse sotto la loro città.

Canto XIV


Il quattordicesimo canto del Purgatorio è il secondo dedicato agli invidiosi. Le anime di due penitenti si chiedono chi sia il visitatore ancora vivo di cui avvertono la presenza e gli chiedono di rivelar loro la sua patria e il suo nome.
Sono Guido del Duca e Rinieri da Calboli, due nobili romagnoli pressoché contemporanei di Dante. Il poeta risponde con una perifrasi (un fiumicel che nasce in Falterona) alla domanda sulla sua provenienza ma non rivela il proprio nome che non è ancora conosciuto.
L'accenno all'Arno è occasione per Guido del Duca di rivolgere un'invettiva agli abitanti delle località bagnate da quel fiume, gente corrotta e degenerata, dimentica di ogni virtù. Guido del Duca prevede inoltre che Fulcieri da Calboli, nipote del suo compagno di pena, sarà tiranno a Firenze provocando gravi sofferenze ai cittadini.
Su richiesta di Dante Guido svela la sua identità e quella di Rinieri pur notando che il visitatore gli chiede di dire ciò che ha preferito tacere. Il romagnolo ammette di essere stato invidioso e conclude il suo discorso con parole di rimpianto per le perdute virtù del passato e per gli uomini nobili e valorosi che un tempo abitavano la sua terra, dei quali ricorda diversi nomi.
Mentre Dante e Virgilio si allontanano, voci misteriose, potenti come il tuono, ricordano esempi di invidia punita.

Personaggi citati:
  • Circe
  • Guido del Duca
  • Rinieri da Calboli
  • Fulcieri da Calboli
  • Lizio di Valbona
  • Arrigo Manardi di Bertinoro
  • Piero dei Traversari
  • Guido di Carpegna
  • Fabbro dei Lambertazzi
  • Bernardino di Fosco
  • Guido da Prada
  • Ugolino d'Azzo degli Ubaldini
  • Federigo Tignoso
  • Famiglia Traversari
  • Famiglia Anastagi
  • Famiglia Malvicini
  • Famiglia Castrocaro
  • Famiglia Conio
  • Famiglia Pagani
  • Ugolino dei Fantolini
  • Caino
  • Aglauro

    Canto XXI


    Dante è desideroso di conoscere le ragioni del terremoto verificatosi nel canto precedente, assetato di verità come la samaritana che chiese a Cristo di dissetarla con la Sua acqua.
    Un penitente saluta i due viaggiatori e si stupisce quando apprende dalla risposta di Virgilio che questi non potrà accedere al Paradiso. Soddisfatta la domanda del penitente Virgilio chiede spiegazione del terremoto e del coro intonato subito dopo da tutte le anime.
    La montagna del Purgatorio, spiega l'interlocutore, è esente da tutti i fenomeni atmosferici che interessano la terra dei viventi e soprattutto dai terremoti. Qui la terra trema solo quando un'anima è pronta per ascendere alla beatitudine e a questo evento segue sempre il canto del Gloria. E' proprio lui che dopo secoli di permanenza nel Purgatorio è finalmente pronto.
    A Virgilio che gli chiede di rivelare la sua identità, l'anima risponde di essere il poeta latino Publio Papinio Stazio, autore della Tebaide e dell'Achilleide.
    Tutta la sua arte, dice Stazio, prese ispirazione e nutrimento dallo studio appassionato dell'Eneide senza il quale la sua opera non avrebbe avuto alcun valore. Egli accetterebbe di prolungare di un anno la sua penitenza pur di essere vissuto nel tempo di Virgilio.
    Virgilio ordina con uno sguardo a Dante di tacere ma Dante non riesce a reprimere un sorriso che non sfugge a Stazio il quale ne chiede la ragione. A questo punto, con il consenso della sua guida, Dante rivela a Stazio che sta parlando proprio con quel Virgilio che ha tanto amato. Stazio si inginocchia per abbracciare le gambe di Virgilio ma questi gli ricorda che sono solo due ombre.

    Canto XXII


    Un angelo cancella dalla fronte di Dante una delle "P" che simboleggiano i sette peccati, ora che il Poeta sta lasciando il quindo cerchio. Dante e Virgilio procedono in compagnia di Stazio al quale Virgilio racconta di come Giovenale, giunto nel limbo, abbia parlato della sua poesia e del suo amore per l'Eneide.
    Virgilio di stupisce del fatto che una persona come Stazio abbia potuto peccare d'avarizia (egli si trovava infatti tra gli avari nel quinto cerchio) e Stazio risponde sorridendo che la sua colpa non fu l'avarizia ma l'eccessiva prodigalità, nel Purgatorio infatti i peccati diametralmente opposti sono puniti nello stesso luogo e nello stesso modo.
    Virgilio chiede ancora a Stazio di parlargli della sua conversione al Cristianesimo e la risposta che ottiene è sorprendente: fu proprio un brano di Virgilio (Egloghe IV, 5-7) in cui si parla di rinnovamento e di una nuova progenie venuta dal cielo che spinse Stazio ad avvicinarsi ai Cristiani che predicavano la nuova religione e a convertirsi.
    Prima di comporre la Tebaide Stazio era già divenuto cristiano ma per timore delle persecuzioni aveva mantenuto segreta la propria conversione e per questo motivo aveva scontato più di quattro secoli nel quarto cerchio del Purgatorio, fra gli accidiosi.
    E' la volta di Stazio di domandare: desidera conoscere il destino di altri poeti latini come Terenzio, Plauto, Cecilio Stazio, Lucio Vario Rufo. Virgilio risponde che quanti Stazio ha nominato e molti altri ancora si trovano nel Limbo come Omero, Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone e lo stesso Viregilio.
    Vi si trovano anche i personaggi di cui trattavano le opere di Stazio come Antigone, Deifile, Argia, Ismene, Isifile, Manto, Teti e Deidamia.
    Questo passo (vv. 109-114) presenta alcuni problemi. Virgilio parla di questi personaggi mitologici come se avessero vissuto una vita reale, del resto anche nell'Inferno si sono incontrate diverse figure tratte dal mito; si ritiene quindi che Virgilio voglia contraccambiare gli elogi di Stazio dando rilievo ai suoi protagonisti che infatti definisce "genti tue".
    Il secondo problema, più enigmatico, consiste nel personaggio di Manto, qui collocata nel Limbo ma in Inferno XX fra gli spiriti dannati degli indovini. Nonostante i numerosi tentativi di interpretazione il problema rimane sostanzialmente irrisolto.
    Giunti al sommo della salita che stanno percorrendo, Dante, Virgilio e Stazio incontrano un albero carico di frutti dalle cui fronde giunge una voce misteriosa che elenca alcuni esempi di temperanza: Maria alle nozze di Cana, le antiche donne romane che non bevevano vino, i digiuni del profeta Daniele, Giovanni Battista che si nutriva di locuste e miele selvatico.