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PUBLIO OVIDIO NASONE

TRISTIA (Tristezze)


LIBRO PRIMO

1. Ovidio inizia l'opera con un'apostrofe al libro stesso che andrà a Roma ove egli, esule, non può tornare.
L'autore esorta il libro ad avere un aspetto dimesso quale si conviene all'argomento e a non temere le critiche di chi lo respingerà, ma anche a non tentare di perorare la sua causa tanto delicata.
E' stato Augusto a condannare Ovidio ed ora il Poeta teme anche il solo pensiero del Palatino, sede dell'imperatore e di tante divinità: anche Fetonte eviterebbe il cielo, se fosse vivo. D'altro canto la ferita di Ovidio può essere curata solo da chi l'ha inferta, come fu per Telefo ed Achille.
Infine l'esortazione (sempre rivolta al libro) a non amare i suoi tre "fratelli" che hanno portato il padre alla rovina: si riferisce ai tre libri de L'arte di amare, paragonandoli ai famosi parricidi Edipo e Telegono, per i quali Ovidio fu accusato di oscenità e subì l'esilio.

2. Il viaggio verso Tomi, luogo dell'esilio. Il mare è in tempesta e Ovidio teme di naufragare. In un cupo clima di tragedia si rivolge agli dei pregandoli di poter finire la sua vita, già devastata dalla condanna, in un luogo della terraferma dove possa sperare in una sepoltura.

3. Il ricordo doloroso e struggente della notte della partenza da Roma, l'esitazione che poeta che cerca di far tesoro degli ultimi istanti trascorsi con la moglie nella sua casa.
Ovidio insiste nel distinguere il reato dalla colpa, cioè nel sostenere di aver commesso i fatti per cui viene esiliato senza rendersi conto di sbagliare e non per la volontà di commettere un crimine, e spera per questo di mitigare la condanna.
Il dolore del profugo in partenza viene paragonato a quello di Mettio Fufezio portato al supplizio.

4. Ancora sul viaggio e sulla tempesta. Nuova invocazione agli dei perché i venti non respingano la nave sulle coste dell'Italia, terra ormai proibita all'esule.

5. Ovidio si rivolge ad un amico che dopo la condanna gli ha prestato aiuto e conforto per ringraziarlo. Volutamente non ne dice il nome, alcuni hanno pensato al poeta Caro altri a Celso.
Il comportamento dell'amico viene paragonato ai famosi casi di amicizia e fedeltà: Teseo e Piritoo, Oreste e Pilade, Eurialo e Niso, mentre l'autore paragona le proprie sciagure a quelle di Ulisse trovando il proprio destino peggiore di quello dell'Itacense.

6. Rivolgendosi alla moglie Fabia, Ovidio ricorda il sostegno amorevole che ha ricevuto da lei e loda il coraggio con cui sopporta la situazione. E' presente anche un accenno ad un anonimo nemico che sta cercando proditoriamente di impadronirsi delle sostanze del poeta.
La fedeltà di Fabia è paragonata a quella di Andromaca, Laodamia, Penelope.

7. In questa elegia Ovidio affida ad un destinatario non identificato il compito di curare l'edizione della sua opera giustificandone le imperfezioni dovute all'improvvisa interruzione del lavoro. Il riferimento mitologico è qui ad Altea che bruciò il tizzone al quale le Parche legavano la vita del figlio Meleagro: così il poeta ha bruciato le sue creazioni incompiute.

8. Una dura invettiva contro un amico "traditore" che dopo la condanna del poeta non gli ha fatto visita, non gli ha rivolto una parola di conforto. Anche qui il personaggio rimane non identificabile.

9. Rivolgendosi ancora una volta ad un amico il poeta depreca la falsità di quanti si allontanano nel momento della disgrazia. Vengono di nuovo ricordati, come nell'elegia n. 5, i grandi esempi di amicizia disinteressata: Teseo e Piritoo, Oreste e Pilade, Eurialo e Niso.
10. L'ultima parte del viaggio verso Tomi, sede del confino. Ovidio naviga nell'Ellesponto e vede luoghi resi celebri dal mito, di conseguenza abbondano i riferimenti: lo stesso Ellesponto che prese il nome da Elle, le Simplegadi, Troia.
L'elegia si chiude con un'invocazione ai Dioscuri, numi tutelari della navigazione.

11. Scrivere durante il viaggio, fra il timore dei pirati e l'ansia provocata dalle bufere. Eppure scrivere è di qualche conforto al dolore del poeta.



LIBRO SECONDO


Diversamente dal primo libro che è diviso in undici elegie, il secondo libro dei Tristia è composto da un unico lungo testo.
Ovidio si rivolge ad Augusto, autore della sua condanna, e senza osare discutere la giustizia del verdetto, chiede clemenza basandosi sostanzialmente su due elementi: la generosità dell'imperatore e la natura ingenua e non criminale del suo reato.
Interessante il passo in cui il poeta si chiede se la sua condanna sia dipesa (anche) dall'essere venuto a conoscenza di una colpa, dall'aver visto qualcosa. Su questa circostanza, alla quale si accenna anche altrove, sono state avanzate molte ipotesi: Ovidio sarebbe venuto fortuitamente a conoscenza di qualche segreto di stato, oppure di particolari scabrosi della vita privata di Augusto o dei suoi familiari? Ma sono solo ipotesi, Ovidio non dice di più e si limita a proclamarsi innocente come Atteone che solo per caso vide la nudità di Diana.
Da queste pagine ricaviamo alcuni particolari sulla vicenda giudiziaria di Ovidio: il verdetto fu emesso personalmente da Augusto e non dal senato o da un tribunale: una procedura prevista dalla lex iulia maiestatis, la condanna fu di relegazione e non di esilio, quindi non comportò la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili.
Non sperando nel permesso di tornare a Roma, Ovidio chiede di essere almeno trasferito in una località più vicina e sicura, Tomi era infatti terra di frontiera, all'estremo confine dell'impero.
Ovidio precisa che la sua condanna è dipesa "da un libro e da un errore" ma che non parlerà dell'errore per non rinnovare il dispiacere dell'imperatore. Quanto al libro, sostiene, è un'opera di poesia amorosa dal tono scherzoso che aveva lo scopo di divertire il lettore, non quello di indurlo a peccare.
Per sostenere la legittimità del suo poema Ovidio richiama alla memoria i grandi lirici come Anacreonte, Saffo e Callimaco che hanno composto versi licenziosi senza per questo subire condanne.
Anche l'Iliade parla di un'adultera (Elena) e della passione degli eroi greci per le loro schiave (Criseide e Briseide) e l'Odissea comprende argomenti erotici come la contesa dei pretendenti di Penelope e la rivalità di due dee (Circe e Calipso) per l'amore di Ulisse.
Nell'Ippolito di Euripide si parla dell'amore accecante di Fedra per il figliastro e nella tragedia Eolo (per noi perduta) lo stesso poeta narrava l'amore incestuoso di Macareo e Canace.
E ancora gli amori di Pelope e Ippodamia, Medea e Giasone, Tereo e Filomela, Tieste e Erope, Scilla e Minosse, Clitemnestra ed Egisto ispirarono altrettante tragedie.
Ed Ovidio prosegue nell'elencare esempi di vicende scabrose o romantiche che hanno ispirato copolavori letterari: Stenebea, Ermione, Danae, Andromeda, Semele, Emone, Alcmena, Admeto, Alcesti, Protesilao, Laodamia, Iole, Deidamia, Deianira, Ila, Ganimede.
Non mancano casi di opere a tema erotico anche nella letteratura romana: Catullo, Gaio Licinio Calvo, Publio Terenzio Varrone Atacino, Tibullo, Properzio, Ortensio Ortalo ed altri. Perfino Virgilio ha cantato l'amore di Enea e Didone.
Infine Ovidio ricorda di non aver scritto soltanto opere a carattere leggero, ma anche testi impegnativi come i Fasti, una tragedia su Medea (perduta) e le Metamorfosi.

LIBRO TERZO


1. Il libro parla in prima persona e compiange il suo autore. Rivolgendosi al lettore assicura che nelle sue pagine non si trova nulla di malizioso, di erotico e di giocoso ma soltanto una grande tristezza.
Giunto a Roma, il libro cerca una guida ma trova una sola persona disposta a mostrargli la città: il foro di Cesare, la Via Sacra, il Palatino, la casa di Augusto. Davanti a quest'ultima il libro-messaggero si sofferma a pregare per la salute dell'imperatore e per la sua riconciliazione con il poeta che lo ha scritto.
La visita prosegue fino al tempio di Apollo fronteggiato dal portico delle Danaidi (di cui parla anche Properzio) e alla biblioteca fondata da Augusto dove il libro-messaggero viene cacciato dal custode. Viene restinto anche dalle altre biblioteche in quanto opera di una autore condannato e non gli rimane che implorare ancora una volta la clemenza di Augusto.

2. L'autore riprende a parlare in prima persona e ricorda i pericoli e le fatiche del terribile viaggio affrontato per arrivare al Ponto, luogo del suo esilio. Ma ora che superata l'impresa si trova nella terra della sua condanna soffre terribilmente per la nostalgia ed invoca la morte.

3. Ovidio scrive alla moglie una lettera lunga e sconsolata raccontandole di essere malato e di non tollerare il clima, l'acqua e il cibo del luogo.
Viene ribadito il concetto delle morte preferibile all'esilio e della vita che ha avuto termine nel momento in cui l'autore è stato costretto a lasciare la patria. Il poeta prega la moglie di far tornare a Roma le sue ossa per non essere esule anche da morto ed allega un breve epitaffio per la sua tomba.

4a. Rivolgendosi ad un amico, Ovidio gli raccomanda di evitare di avere rapporti con i potenti perche la loro ira può avere conseguenze fatali. Chi cade dall'alto non ha scampo, scrive il poeta ricordando il mito di Elpenore, caduto dal tetto della dimora di Circe dove si era addormentato ubriaco e quello di Icaro, morto per essere salito troppo in alto.
Ancora l'ambizione causò la fine di Dolone che accettò di spiare il campo degli Achei per avere i cavalli di Achille e fu ucciso da Diomede, e di Fetonte che volle guidare il carro del padre.

4b. La precedente elegia e la presente sono unite in un solo componimento in una parte dei codici.
Ovidio rimpiange Roma e la sua sposa con versi di struggente nostalgia, si rivolge quindi agli amici che non ha dimenticato ma dei quali per prudenza non dice i nomi per augurare loro di non conoscere mai una sorte come la sua.

5. Il Poeta si rivolge ad un personaggio ignoto, suo amico recente, che gli ha dimostrato nel momento della disgrazia un affetto inaspettato. Dopo averlo ringraziato con grande commozione di prega di perorare ancora la sua causa.
Confidando nella clemenza di Augusto, Ovidio cita esempi famosi di magnanimità: Achille che concesse a Priamo le spoglie di Ettore, Alessandro Magno che tributò onori funebri a Dario III, Giunone che accettò per genero Ercole al quale era stata tanto ostile.
Si ribadisce un tema molto discusso dalla critica, Ovidio sostiene di non avere altra colpa che quella di essere stato involontariamente testimone di un crimine.

6. Ad un altro amico al quale Ovidio era legato da un'antica amicizia nota a tutti, il Poeta chiede di usare il suo prestigio per aiutarlo e torna sulla consueta difesa: non ha commesso un crimine ma soltanto un errore.

7. Una lettera indirizzata ad una giovane donna il cui nome Perilla è probabilmente di fantasia, alcuni critici l'hanno identificata con la figliastra del Poeta.
Ovidio le scrive delle sue sofferenze e ricorda con affetto i componimenti poetici della giovane esortandola a coltivare il suo talento.

8. Il carro di Trittolemo, i draghi di Medea, le ali di Dedalo, i calzari alati di Perseo: questi i mezzi mitici con cui Ovidio sogna di tornare in patria, ma è un attimo e subito la realtà torna a ricordargli la sua triste situazione. Non osando sperare nel perdono di Augusto, Ovidio si augura che almeno il luogo del suo confino possa cambiare.

9. Anche nel desolato paese dell'esilio di Ovidio esistono città greche fondate dai coloni di Mileto. La città di Tomi prendeva il nome dal fratricidio commesso da Medea che aveva fatto a pezzi il fratello Absirto (tomè=taglio) e aveva disperso i resti per rallentare i suoi inseguitori dopo essere fuggita con Giasone.

10. Ovidio lamenta la durezza degli inverni del suo esilio descrivendo le nevicate, i venti gelidi, i ruscelli gelati. Perfino il mare si copre di grandi lastre di ghiaccio sulle quali è possibile camminare.
In questo scenario quasi surreale i barbari spesso compiono incursioni. I guerrieri devastano le regioni vicine facendo strage degli abitanti e distruggendo quanto non riescono a saccheggiare.
Il clima ingrato e la paura della guerra distolgono la gente dall'agricoltura e nell'intero paese è miseria, desolazione e fame.

11. Rivolgendosi ad un ipotetico accusatore che ancora continui a criticarlo, Ovidio lo paragona a Busiride e Falaride, "straordinari inventori di supplizi".

12. Il ritorno della buona stagione ravviva in Ovidio la nostalgia di Roma e dei festosi eventi che vi si svolgono in primavera. Anche nella Scizia i ghiacci si sciolgono e qualche nave ritornerà ad approdare sulle rive del Ponto. Ovidio si augura che ne giunga una dall'Italia e gli porti notizie di Roma.

13. E' il compleanno dell'autore e la ricorrenza in cui si festeggiava il genius natalis era molto sentita nel mondo romano dell'epoca ma Ovidio lo celebra in negativo perché l'esule non può che dolersi di un altro anno trascorso lontano dalla patria.

14. Ovidio scrive ad un amico, evidentemente un libraio o un editore, pregandolo di curare la divulgazione delle sue opere. Probabilmente il destinatario è Gaio Giulio Igino, liberto di Augusto che dirigeva la biblioteca del tempio di Apollo ed intimo amico di Ovidio.
L'autore gli affida anche quest'ultima opera, composta in terra d'esilio e, retoricamente, chiede indulgenza per gli eventuali difetti della lingua e dei versi.

LIBRO QUARTO


1. Il tema della richiesta di indulgenza al lettore con cui si è chiuso il libro precedente è ripreso in apertura del quarto libro.
Scrivendo Ovidio non cerca gloria ma sollievo, i suoi versi sono come il canto di chi lavora duramente e cerca in una rozza canzone conforto alle proprie fatiche.
Oppure sono come il suono della lira di Achille afflitto per la perdita di Briseide o di quella di Orfeo piangente per la sua Euridice.
Pur essendo stato danneggiato dai suoi stessi versi, Ovidio non rinnega il suo assurdo amore per la poesia. L'innamorato rimane attaccato a ciò che lo rovina come i Lotofagi al loto e il poeta nell'atto creativo dimentica i suoi dolori come una baccante in delirio.
Dunque alle Muse Ovidio chiede aiuto ora che si trova in quella desolata terra di confine dove spesso si deve difendere la propria vita dagli attacchi dei barbari.

2. Riferendosi alla campagna intrapresa dall'esercito imperiale in Germania sotto il comando di Tiberio per vendicare la disfatta di Varo, Ovidio immagina il trionfo che certamente sarà celebrato a vittoria ottenuta.
La descrizione, pur immaginaria, è densa di particolari: i comandanti vincitori, i re nemici prigionieri costretti a sfilare, i racconti dei reduci, le rappresentazioni allegoriche della Germania e del fiume Reno in catene.

3. L'esule si rivolge alla moglie con grande nostalgia: non dubita della sua fedeltà ma si rammarica nell'immaginarla sola e vergognosa per la sorte toccata al marito. Le siano di consolazione le figure mitiche punite ma non per questo private dell'affetto dei loro cari come Capaneo, Fetonte, Semele.

4. Il destinatario di questa elegia è probabilmente Marco Valerio Messalla Messalino, figlio di Messalla Corvino. Ovidio gli chiede di patrocinare presso Augusto la sua preghiera, non di essere perdonato ma di essere esiliato in un luogo meno ostile di quello in cui si trova attualmente.
Per descrivere il carattere sinistro del paese in cui vive, l'autore rievoca il mito di Ifigenia in Tauride e dei sacrifici umani che si dedicavano ad Artemide sotto il regno di Toante.

5. Elegia dedicata con riconoscenza ad un altro amico che nel momento della disgrazia aveva offerto il suo aiuto a Ovidio mettendogli a disposizione le proprie sostanze, ma il generoso gesto non era stato necessario perché i beni del Poeta non erano stati confiscati. Si ritiene che il personaggio sia Marco Valerio Cotta Massimo, figlio di Messalla Corvino e fratello di Marco Valerio Messalla Messalino dedicatario dell'elegia precedente.
Il breve componimento si conclude con auguri di felicità all'amico lontano.

6. Sono trascorsi due anni dalla condanna ma il tempo, che spesso lenisce le sofferenze, nel caso di Ovidio non è stato di aiuto, anzi più la lontananza dalla patria e dagli affetti si prolunga, più si fa dolorosa, mentre la speranza di tornare si allontana sempre di più.

7. Qui Ovidio si rivolge ad un amico che non gli ha mai scritto durante l'esilio e vuole sperare che le sue lettere siano andate perdute. Si dice più disposto a credere all'esistenza delle chimere e di altri mostri che all'infedeltà dell'amico.

8. Sentendo avvicinarsi la vecchiaia, Ovidio rimpiange di non poterla vivere con la serenità che si era augurato.

9. Ovidio si rivolge ad un ignoto nemico che continua ad infierire sulle sue disgrazie minacciando di rendere noto il suo nome e, grazie al potere della poesia, divulgare e tramandare la notizia della sua iniquità.

10. Breve autobiografia dell'autore: nacque a Sulmona sotto il consolato di Irzio e Pansa (43 a.C.) ed ereditò la condizione equestre di antica discendenza. Aveva un fratello maggiore nato come lui il 20 marzo.
La propensione alla poesia si manifestò precocemente benchè Ovidio, convinto dal padre a cercare un'attività più redditizia, provasse a scrivere in prosa.
Frequentò i migliori poeti del periodo come Emilio Macro, Properzio ed altri. Ammirò la maestria di Orazio, riuscì soltanto a vedere Virgilio e Tibullo. Ancora molto giovane lesse pubblicamente i suoi versi. Scrisse molti componimenti di argomento romantico dando alle fiamme quelli che non riteneva riusciti.
Prima di quella attuale Ovidio aveva avuto altre due mogli che non avevano avuto un posto importante nella sua vita, amava la figlia che lo aveva reso due volte nonno.
I suoi genitori erano morti prima della condanna. Compiuti i cinquant'anni, Ovidio venne condannato all'esilio a Tomi, sulla sponda sinistra del Ponto Eusino.
L'autore non espone le cause della condanna che ritiene fin troppo note ma, come sempre, ribadisce che il suo fu un errore e non una colpa volontaria.
Ora che la poesia è la sua unica consolazione, Ovidio è grato alla sua Musa e ai suoi lettori per la fama che lo accompagnerà dopo la morte.

LIBRO QUINTO


1. Un'altra raccolta di elegie dalla costa getica e Ovidio avverte il lettore che in questa, come nelle precedenti, non troverà i lieti versi amorosi delle sue opere giovanili.
Se la sua pena sarà attenuata, promette il Poeta, tornerà a comporre canti pieni di gioia anche se non più frivoli come quelli di un tempo, ma intanto non può che piangere sulle proprie disgrazie.
Retoricamente Ovidio si rivolge a chi dovesse deplorare il suo lamento ricordando che perfino Falaride concesse a Perillo di dare sfogo al proprio dolore, così Achille a Priamo, Apollo e Diana a Niobe.
Del resto Ovidio scrive solo per trovare conforto ed invia i suoi versi a Roma per sentirsi in qualche modo vicino alle persone care.

2. Ancora una preghiera rivolta ad un amico o forse ad un parente perché interceda presso Augusto in favore di Ovidio. Nella seconda parte dell'elegia l'autore si rivolge direttamente all'imperatore in termini encomiastici per porgere la sua supplica. Questo cambiamento di destinatario ha fatto supporre ad alcuni editori che in origine si trattasse di due diversi componimenti.

3. Nel giorno dei Liberalia (feste in onore di Bacco che si celebravano il 17 marzo) Ovidio rimpiange i tempi in cui partecipava ai festeggiamenti con gli altri poeti e si rammarica della mancata protezione del dio al quale è stato particolarmente fedele.
Vengono rievocati alcuni epidodi dei miti dionisiaci: la nascita a Tebe, la fuga in Tracia per sfuggire all'odio del re Licurgo, le imprese in India, il re Penteo dilaniato dalle baccanti per essersi opposto ai loro riti.
Infine l'autore rivolge una preghiera commossa a Bacco perché lo aiuti e agli altri poeti perché non lo dimentichino.

4. La lettera scritta da Ovidio piangente parla in prima persona e racconta la sofferenza del suo autore.
Al destinatario, che in questo caso non è stato identificato, viene rivolta la consueta preghiera di intercedere presso Augusto in nome di un'amicizia particolarmente salda per la quale si usano paragoni mitici: Patroclo, Pilade, Teseo, Eurialo.

5. Ovidio celebra il compleanno della moglie, come forse Ulisse lontano dalla patria festeggiò quello di Penelope. Con grande nostalgia il Poeta pensa alla moglie augurandole di non avere altra sofferenza che quella causata dall'esilio del marito e prega gli dei perché alla sua donna venga risparmiata ogni pena.

6. Destinatario di questa elegia è un altro anonimo amico di Ovidio che sembra aver dimenticato l'esule nonostante la sollecitudine mostrata in precedenza. Nel rimproverarlo il Poeta gli ricorda gli esempi mitici di lealtà e serietà come quello di Palinuro nella guida della nave, quello di Automedonte auriga di Achille, quello di Podalirio verso i suoi pazienti.

7. Una lettera più discorsiva in cui Ovidio racconta dei costumi barbari e dell'aspetto truce dei Geti e dei Sarmati che abitano i luoghi del suo esilio. Interessante un particolare: all'amico che gli aveva scritto che i suoi versi ricevevano a Roma molti applausi, Ovidio precisa di non aver mai scritto nulla per il teatro ma si compiace comunque di essere ricordato.

8. Una lettera indignata con cui Ovidio ricorda ad una persona a lui ostile quanto improvvisamente la fortuna possa cambiare.

9. Al contrario della precedente questa lettera rende grazie ad un amico con toni commossi per la solidarietà e la benevolenza dimostrate.

10. Ancora una descrizione dei Geti che parlano una lingua incomprensibile, non intendono il latino e spesso offendono o deridono l'esule costretto a vivere fra loro.

11. Ovidio scrive alla moglie che è stata offesa da qualcuno che l'ha definita "moglie di un esiliato". Nel consolarla fa un'interessante precisazione: la sentenza che lo ha allontanato da Roma lo ha definito "relegato", non esiliato e per questa differenza egli ha mantenuto i diritti politici e non ha perso i suoi averi.

12. Un amico esorta nelle sue lettere Ovidio a cercare conforto nella letteratura, il Poeta risponde parlando della propria sofferenza con una serie di exempla mitologici (Priamo, Niobe) e storici (Socrate accusato ingiustamente).

13. Di nuovo una lettera ad un amico: Ovidio lamenta qui disturbi fisici causati dal clima rigido della Scizia e prega il corrispondente di scrivergli più spesso.

14. L'ultima elegia dell'opera è indirizzata alla moglie di Ovidio che, rimastagli fedele, ha continuato a proteggere i suoi interessi e la sua reputazione. Ovidio la ricambia con la fama imperitura che la donna ricaverà dai suoi versi, la stessa fama toccata a Penelope, Alcesti, Andromaca, Evadne, Laodamia.