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APOLLONIO RODIO

ARGONAUTICHE

LIBRO PRIMO

Il poema inizia con una breve invocazione ad Apollo, che svolgerà un ruolo fondamentale negli eventi narrati. Nel proemio si dichiara che si ricorderanno le gesta di Giasone e la navigazione di Argo.
Il re Pelia era stato avvertito da un oracolo che un suddito con un solo sandalo avrebbe procurato la sua rovina. Quando vide arrivare ad un suo banchetto Giasone che aveva perduto un sandalo nel guado del fiume Anauro, ricordò la profezia e decise di affidargli un'impresa pericolosissima.

Della costruzione della nave Argo, già cantata in antichi poemi, Apollonio non intende parlare e si dedica al catalogo dei partecipanti alla spedizione.
L'elencazione ha inizio con Orfeo, il mitico cantore figlio della Musa Calliope e del dio fluviale Eagro. Si narrava che il suo canto avesse poteri taumaturgici, tali da costringere le querce di un bosco a seguirlo ed allinearsi lungo le coste.
Dopo Orfeo, che è posto così in rilievo, inizia il catalogo vero e proprio dei partecipanti che vengono presentati nell'atto di raggiungere la spiaggia per unirsi a Giasone: Asterione, Polifemo, Ificlo (zio di Giasone), Admeto di Fere, Erito ed Echione (figli di Hermes e di Antianira), Etalide (figlio di Hermes ed Eupolemia), Corono (figlio di Ceneo). L'indovino Mopso, Euridamante, Menezio (figlio di Attore e padre di Patroclo).
Eurizione, Eribote, Oileo, Canto (figlio di Caneto d'Eubea).
Clizio e Ifito, figli di Eurito.
Telamone e Peleo, figli di Eaco.
Bute e Falero, dalla Cecropia.
Tifi, figlio di Agnias, pilota della nave.
Fliante, della città di Aretirea (Peloponneso).
Taleo e Areo (figli di Biante), con Leodoco, da Argo.

Al centro del catalogo compare, in posizione di particolare rilievo, la figura di Eracle. Apollonio lo presenta appena tornato dalla cattura del cinghiale del monte Erimanto che subito, contro il volere di Euristeo, si incammina per unirsi alla spedizione degli Argonauti.
E' con lui il giovane scudiero Ila, figlio di Teodamante, re della Misia. Nauplio, discendente di Danao e padre di Palemede. Idmone, altro indovino della missione, che decise di partire pur prevedendo la propria morte.
I Dioscuri Castore e Polluce, figli di Leda e di Zeus (in altre versioni solo Castore è figlio del dio).
Ida e Linceo, figli diAfareo.
Periclimeno, figlio di Neleo.
Anfidamante e Cefeo, figli di Aleo; Anceo, figlio di Licurgo.
Augia, figlio del Sole, noto per la fatica di Eracle nelle sue stalle.
Asterio e Anfione, figli di Iperasio, dall'Acaia.
Eufemo, figlio di Posidone e di Europa, così veloce da poter correre sull'acqua.
Ergino di Mileto e Anceo, figlio di Posidone, dell'Asia Minore.
Meleagro, figlio di Eneo, giovanissimo, accompagnato dal precettore Laocoonte.
Ificlo, zio di Meleagro, da non confondere con l'omonimo zio di Giasone.
Palemonio, figlio di Efesto.
Ifito della Focide, da non confondere con l'omonimo fratello di Clizio.
Zete e Calais, figli di Borea, dotati di ali.
Completano il catalogo Acasto, figlio di Pelia ed Argo, che sotto la guida di Atena aveva costruito la nave.

Con grande effetto scenico Apollonio rende l'atmosfera della partenza degli eroi tramite le parole di due gruppi di astanti, in funzione di semicori teatrali, l'uno maschile e l'altro femminile: mentre il primo elogia l'aspetto eroico degli Argonauti, il secondo descrive il dolore e la desolazione di Esone ed Alcimede, genitori di Giasone.
Segue il lamento di Alcimede per la partenza del figlio, lamento consolato da Giasone. Tema del colloquio è, accanto alla disperazione della madre, la controllata rappresentazione antieroica che Apollonio fornisce di Giasone.
Infine Giasone si incammina verso la nave, fra l'emozione della folla.
Qui si tratteggia l'episodio della vecchia Ifiade, sacerdotessa di Artemide, che bacia la destra di Giasone ma non riesce a parlare, vinta dall'emozione, e rimane indietro, superata dalla folla di giovani.
Prima di salpare Giasone raduna gli uomini e propone la libera elezione di un comandante, tutti guardano ad Eracle, ma questi rifiuta e propone, con un breve discorso, che il capo sia Giasone. Giasone accetta lietamente ed ordina che prima di partire si costruisca un altare in onore di Apollo e si celebri un banchetto rituale con sacrifici al dio.
Infine si procede al varo della nave, operazione che viene descritta nei particolari con linguaggio sapientemente vivace, si sorteggiano i posti dei rematori e si affida a Tifi il compito di pilotare Argo. Idmone pronuncia un vaticinio, guardando il sangue dei sacrifici, è una prima risposta alle preghiere rivolte da Giasone ad Apollo: il fato prescrive l'esito positivo della missione. Quanto a se stesso, Idmone conferma che non potrà tornare in Grecia, ma accetta la morte per la gloria della sua famiglia.

Al tramonto gli eroi banchettano sulla spiaggia allegramente, con grande abbondanza di vino e di cibo, Eracle ed Anceo hanno infatti abbattuto due buoi offerti da Giasone per i sacrifici. Solo Giasone appare triste e pensieroso, lo nota Ida che, con atteggiamento tracotante, lo esorta a non aver paura. A Ida risponde con durezza Idmone deprecandone la superbia, la lite che segue è placata da Orfeo che inizia a cantare di argomenti mitici catturando l'attenzione di tutti.
Nel canto di Orfeo Apollonio riprende tradizioni rare ed erudite che vedono Ofione e Eurinome come predecessori di Crono e Rea, mentre nella mitologia più diffusa Crono succedeva direttamente a Urano dopo averlo evirato.
Si parla anche di Zeus, cresciuto nell'isola di Creta, al riparo dalla minaccia paterna, al quale i Ciclopi avevano fornito il trono e la folgore.

All'alba Tifi risveglia i compagni e finalmente ci si dispone alla partenza. Apollonio descrive solennemente la nave sospinta dai remi che si stacca dalla riva e prende il largo, osservata dagli dei. Il centauro Chirone con il piccolo Achille raggiunge la spiaggia per salutare Peleo e i suoi compagni.
Usciti dal porto a forza di remi, gli Argonauti issano la vela mentre Orfeo intona un canto in onore di Artemide protrettrice delle navi e di Iolco.
Dopo un giorno di navigazione nell'Egeo, la nave Argo approda sulle coste di Magnesia, presso la tomba dell'eroe arcaico Dolope. Dopo tre giorni di sosta forzata dai venti contrari la nave riprende il mare.
Apollonio continua la descrizione sintetica dell'itinerario, un'elencazione catalogica dei luoghi. Il secondo giorno, dopo aver superato il monte Athos, Argo raggiunge l'isola di Lemno.
Qui l'anno precedente si era consumata una grande tragedia; gli uomini avevano a lungo trascurato le mogli per amare delle schiave trace giunte sull'isola. Accecate dalla gelosia, provocate anche dall'ira di Afrodite che era stata a lungo privata degli amori dovutile, le donne avevano ucciso tutti gli uomini e le loro amanti. Nell'eccidio non erano morti soltanto i mariti infedeli ma tutti gli individui di sesso maschile dell'isola. In questo modo - avevano pensato le omicide - nessuno avrebbe potuto in futuro punirle. Si salvò solo il vecchio Toante al quale la figlia Ipsipile offrì una possibilità di scampo abbandonandolo in mare in una cassa.
Da allora le donne di Lemno avevano svolto i lavori maschili, sempre temendo che dal mare arrivassero i nemici Traci. Per questo timore le donne di Lemno accolgono con ostilità gli Argonauti (che scambiano per Traci) ma Etalide - inviato come araldo alla regina Ipsipile - la convince a lasciarli pernottare sull'isola.
Ipsipile convoca in adunanza le concittadine e propone che si offrano doni agli Argonauti portandoli sulla spiaggia per evitare che questi, entrando in città, scoprano i loro misfatti. Ma la vecchia Polisso è di diversa opinione: prevedendo un'orrenda vecchiaia per tutte loro che senza figli e senza sposi, resteranno indifese a morire sull'isola, propone che si trattengano i nuovi venuti, si affidi loro il governo dell'isola ed il futuro della sua popolazione.
così decide l'assemblea ed Ipsipile invia Ifinoe alla nave perché inviti gli Argonauti ad entrare in città. Accogliendo l'invito Giasone veste il suo mantello, donatogli da Atena, e qui inizia una lunga digressione nella quale Apollonio descrive gli episodi mitici ricamati nei riquadri del mantello, con evidente riferimento al modello omerico della descrizione dello scudo di Achille.
I riquadri del mantello riproducono:

  • i Ciclopi intenti a fabbricare la folgore di Zeus;
  • la fondazione di Tebe ad opera di Anfione e Zeto;
  • Afrodite che si specchia nello scudo del suo amante Ares;
  • i pirati Teleboi che fanno strage dei figli di Elettrione;
  • la gara tra Enomao e Pelope per la mano di Ippodamia;
  • Apollo che uccide Tizio;
  • Frisso che dialoga con il magico montone

    Continua la descrizione della vestizione di Giasone con la lancia a questi donata da Atalanta. La vergine guerriera aveva chiesto di partecipare all'impresa, ma Giasone non l'aveva accettata temendo che la sua presenza femminile creasse difficoltà e gelosie.
    Giasone si reca alla reggia di Ipsipile attraversando la città fra gli sguardi affascinati delle donne. La regina gli fornisce una versione parzialmente falsata degli eventi: sconvolti dalla passione per le schiave trace gli uomini di Lemno avevano abbandonato e trascurato le loro donne finchè queste, indignate, non si erano accordate per chiuderli tutti fuori della città. Gli uomini si erano tutti trasferiti in Tracia portando con loro i figli maschi ed ora Lemno era popolata di sole donne. Per questi motivi esse pregavano gli stranieri di rimanere sull'isola, in particolare Ipsipile offriva a Giasone la sua casa, il suo letto ed il trono paterno.
    Giasone torna alla nave per riferire la proposta ai compagni dopo aver avvisato Ipsipile che in nessun caso essi potranno rimanere per sempre in quanto hanno una missione da compiere. Lo seguono le donne recando doni ai marinai. Gli Argonauti si trattengono a lungo sull'isola finchè Eracle, che con pochi compagni ha rifiutato di lasciare la nave, non li riunisce per rimproverarli. Con il suo discorso Eracle riprende di fatto il comando della missione ed ordina ai compagni di rimettersi in mare, Giasone resti pure, se vuole, nel letto di Ipsipile per ripopolare l'isola di Lemno.
    Le donne di Lemno prendono commiato con dolce tristezza dagli Argonauti. Anche Ipsipile saluta Giasone e gli promette di conservagli il trono se un giorno vorrà tornare da lei. Giasone le chiede, se avrà un suo figlio maschio, di mandarlo a Iolco, una volta cresciuto a conoscere i nonni paterni.
    Gli Argonauti ripartono e, verso sera, raggiungono l'isola di Samotracia, dove - su consiglio di Orfeo - partecipano a riti misterici che l'autore dice di non poter descrivere in ossequio al segreto religioso.
    Proseguendo il viaggio Argo raggiunge l'Ellesponto "fremente di vortici", giunge infine ad una penisola della Propontide, nel Mar Nero, detta "Monte degli Orsi", abitata da mostri a sei braccia. Loro vicini sono i Dolioni, sui quali regna Cizico, figlio di Eneo. Cizico, che era stato avvertito da un oracolo, accoglie gli Argonauti ed offre loro la sua ospitalità. Il re, giovanissimo, aveva da poco sposato Clite, figlia di Merope, e non aveva ancora avuto figli. Dopo il banchetto offerto da Cizico, Dolioni e Argonauti sono attaccati dagli orrendi vicini, i "Figli della terra", giganti con sei braccia. Li combatte Eracle, subito imitato dagli altri compagni ed infine i mostri vengono sterminati. Dopo la battaglia gli Argonauti riprendono il mare, ma durante la notte il vento contrario li riporta sulla costa dei Dolioni. Nelle tenebre gli Argonauti non si rendono conto di essere tornati indietro ed anche i Dolioni non li riconoscono e credono si tratti sbarco nemico. L'equivoco provoca una battaglia nella quale Cizico cade ucciso da Giasone. La luce dell'alba svela l'accaduto e Argonauti e Dolioni si uniscono nella comune disperazione. Grandi onori funebri vengono tributati a Cizico, mentre la sua sposa Clite si toglie la vita.
    Per dodici giorni e dodici notti la condizione del mare impedisce agli Argonauti di ripartire, una notte l'indovino Mopso interpreta la voce di un alcione che sorvola il capo di Giasone addormentato: Giasone dovrà placare la collera di Cibele per ottenere il vento propizio.
    Subito Giasone ed i compagni costruiscono un altare per Cibele e svolgono riti pregando la dea di far cessare la tempesta. La danza rituale degli Argonauti, che con il clangore delle armi disperdono i lamenti dei Dolioni, serve ad Apollonio per giustificare l'origine di comportamenti cultuali ancora ai suoi tempi in essere in quelle regioni.
    Accogliendo la supplica, la dea si manifesta con vari prodigi: subitanea fioritura dei campi, belve mansuete e l'improvviso sgorgare di una fonte che sarà poi detta "fonte di Giasone".
    Il mattino seguente Argo riprese il mare e, nella bonaccia, i marinai improvvisarono una gara di resistenza. A sera, tuttavia, il mare si ingrossò e mentre tutti, sfiniti, abbandonavano il remo, solo Eracle continuò a vogare. Erano già in vista delle coste della Misia quando il remo di Eracle si ruppe. Apollonio descrive ironicamente il fortissimo eroe che cade in terra per il contraccolpo e rimane stupito ed imbarazzato a guardarsi le mani.
    I Misi accolgono gli Argonauti con amicizia ed offrono loro un abbondante banchetto.
    Solo Eracle diserta il banchetto per cercare nel bosco un tronco con il quale costruire un nuovo remo. Trovato un albero di suo gradimento non esita a svellerlo dal terreno a forza di braccia. Intanto Ila si era allontanato dai compagni in cerca di una fonte.
    Breve disgressione sulla storia di Ila: Eracle lo aveva preso con se ancora fanciullo dopo aver ucciso il padre Teodamante, re dei Driopi in una guerra da lui stesso provocata per punire l'ingiustizia di quel popolo.
    Giunto ad una fonte Ila incontra un gruppo di ninfe intente a danzare in onore di Artemide. Una ninfa, colpita dalla bellezza del giovane, lo abbraccia trascinandolo nel vortice della fonte. Solo Polifemo sente il grido di Ila e si da inutilmente a cercarlo nei pascoli.
    Polifemo incontra Eracle e lo avverte della sparizione di Ila e del grido che ha udito. Anche Eracle, sconvolto, comincia a vagare per la vegetazione cercando e chiamando il giovane scomparso.
    All'alba gli Argonauti riprendono il mare e solo dopo qualche tempo si accorgono della mancanza di alcuni compagni.
    Nasce una lite per quanti vogliono tornare a cercare Eracle e quanti vogliono proseguire, Giasone è incapace di prendere una decisione e Telamone lo accusa di gradire la scomparsa di Eracle, che avrebbe potuto offuscare la sua gloria. A Telamone si oppongono Zete e Calais che, anticipa Apollonio, saranno per questo uccisi da Eracle molto tempo più tardi.
    A dirimere la contesa appare dal mare Glauco, eroe divinizzato, che spiega gli eventi agli Argonauti: Eracle deve tornare ad Argo per volere di Zeus ed ivi completare le sue fatiche prima di essere ammesso all'Olimpo, Polifemo è destinato a rimanere nella Misia per fondare una gloriosa città, quanto a Ila è stato rapito da una ninfa che ne ha fatto il suo sposo.
    Tranquillizzati gli Argonauti riprendono il viaggio mentre Telamone chiede ed ottiene il perdono di Giasone.
    Eracle, rimasto in Misia, minaccia di distruggere il paese e gli vengono consegnati alcuni giovani in ostaggio per rassicurarlo sulla continuità degli sforzi per rintracciare Ila.
    Il libro si chiude con gli Argonauti che, dopo aver navigato per tutto il giorno e la notte successiva sospinti da un vento impetuoso giungono all'alba in vista di una nuova terra.


    LIBRO SECONDO




    Erano giunti nel paese dei Bebrici, governati da Amico, figlio di Posidone e della ninfa Melia. Amico, estremamente arrogante, aveva stabilito una legge nei confronti degli ospiti: nessuno poteva andar via senza essersi battuto con lui nel pugilato, in questo modo aveva ucciso molti ospiti. Amico sfida subito gli Argonauti, ignorando le più semplici regole dell'ospitalità. Alla sua sfida risponde con indignazione Polluce.
    I preparativi del combattimento sono descritti con effetti di grande efficacia: Amico è rosso, selvaggio, viene paragonato con il mostruoso Tifeo. Per contro Polluce appare giovane e radioso, paragonabile ad una divinità solare. Il contrasto dell'aspetto fisico dei contendenti è ripetuto e accentuato nei loro atteggiamenti. Con parole arroganti e minacciose Amico ordina a Polluce di scegliere i cesti (i guantoni) con i quali combattere. Polluce ribatte solo con un sorriso alle provocazioni dell'altro.
    Anche durante lo scontro Apollonio confronta la forza bruta di Amico con l'intelligenza di Polluce: mentre il primo attacca senza sosta con l'irruenza "del flutto che si solleva violento contro una rapida nave" il secondo evita agilmente i colpi più duri e studia la tattica e le debolezze del nemico. Dopo un lungo combattimento Polluce schiva un colpo micidiale e colpisce Amico alla testa fratturandogli il cranio. Mentre Amico esala l'ultimo respiro i Bebrici si scagliano su Polluce che viene subito protetto da alcuni compagni. Ne segue un combattimento descritto in stile omerico, almeno nelle linee generali anche se i singoli episodi sono riportati in estrema sintesi. I Bebrici vengono presto sopraffatti, è in particolare Anceo che giù in precedenza ha presentato caratteri molto simili a quelli di Eracle, a scatenarsi fra i nemici mettendoli in fuga. Nel frattempo, avverte Apollonio, i Mariandini, nemici dei Bebrici, approfittando dell'assenza di Amico, avevano saccheggiato capi e villaggi.
    Durante la notte gli Argonauti banchettano sulle rive e festeggiano la vittoria di Polluce. Al mattino Argo riprende il mare e si dirige verso il Bosforo. Qui un'onda gigantesca minaccia la nave che viene tratta in salvo dall'abilità del timoniere Tifi. Il giorno seguente la nave approda alla terra di Fineo.
    Fineo, indovino ed ex re dei Traci, era stato punito da Zeus per aver abusato delle sue arti profetiche e condannato ad un interminabile vecchiaia tormentata dalle cecità e dalle Arpie che rubavano sempre il suo cibo lasciandogliene solo pochi resti immondamente contaminati. Fineo riconosce gli Argonauti grazie alla chiaroveggenza e li prega di liberarlo dalle Arpie, giura che l'aiuto a lui dato non provocherà l'ira degli dei.
    Viene preparato del cibo per Fineo ma l'intervento fulmineo delle Arpie gli impedisce come sempre di servirsene. Zete e Calais si lanciano all'inseguimento dei mostri volanti. Gli alati figli di Borea raggiungono i mostri e stanno per ucciderli quando interviene Iride, messaggera di Zeus: non è a loro concesso uccidere le Arpie, ma Iride giura sullo Stige che esse non torneranno più a tormentare Fineo.
    Credendo al giuramento i Boreadi tornano indietro. Intanto gli Argonauti avevano lavato il vecchio ed approntato un banchetto al quale Fineo partecipa assaporando il cibo con un piacere quasi onirico.
    Finalmente sazio il vecchio indovino pronuncia una profezia sull'esito della missione di Argo. Inizia precisando che l'oracolo sarà incompleto come vuole Zeus e che non ripeterà l'errore che gli è già costato tanta sofferenza. Fineo avverte gli Argonauti che dovranno superare le Simplegadi, rupi mobili che seguono il passaggio fra il Bosforo ed il Mar Nero: prescrive di mandare avanti una colomba, se questa non supererà le rupi dovranno senz'altro abbandonare l'impresa, pena l'essere schiacciati dalle rupi. Se supereranno le Simplegadi - e la profezia è pronunciata in modo da non fornire garanzie in merito - gli Argonauti entreranno nel Ponto. Vengono elencate rapidamente le tappe successive (l'isola di Tinia, la terra dei Mariandini, la scogliera Acherusia, la terra dei Paflagoni, ecc.) in una elencazione di stile catalogico. La profezia giunge fino alla Colchide, con la descrizione del Vello appeso ad una quercia nel bosco sacro ad Ares evitando tuttavia di soffermarsi sugli aspetti chiave del viaggio e di dare indicazioni ulteriori di comportamento, secondo il desiderio del voto non ripetere i suoi errori passati. Giasone, angosciato, chiede esplicitamente se dopo l'impresa riusciranno a tornare in Grecia e come potranno, inesperti di navigazione come sono, affrontare un viaggio tanto lungo e pericoloso. Fineo risponde in modo oscuro che un dio li assisterà e che dovranno "cercare l'inganno di Cipride, alludendo all'aiuto di Medea".
    Tornano Zete e Calais e riferiscono dell'inseguimento, dell'intervento di Iride e del suo giuramento con grande letizia di tutti ed in particolare di Fineo.
    Sorge l'aurora ed i vicini di Fineo giungono come di consueto a portare aiuto al vecchio ed a chiedere consigli alla sua chiaroveggenza, tutti si rallegrarono apprendendo all'arrivo degli Argonauti e della cacciata delle Arpie, eventi che il vecchio aveva da tempo predetto. Fra loro è Parebio, un pastore che aveva a lungo scontato con una vita di difficoltà e privazioni la colpa del padre che aveva abbattuto un albero sacro, ignorando le preghiere di una ninfa che vi abitava. Parebio, su consiglio di Fineo, aveva ottenuto il perdono innalzando un altare e dedicando sacrifici alla ninfa. Il pastore era stato sempre riconoscente all'indovino e lo aveva aiutato con ogni suo mezzo. Ora Fineo gli chiede un montone da offrire agli eroi e subito Parebio gliene porta due, gli animali vengono sacrificati e gli eroi trascorrono in un lungo banchetto un altro giorno di riposo.
    Apollonio inserisce qui una digressione sul mito di Aristeo che aveva risolto una terribile siccità implorando Zeus ed ottenendo i benefici venti etesi. La digressione serve appunto ad introdurre l'alzarsi di tali venti che, spirando in senso contrario, costringono gli Argonauti ad una lunga ed imprevista sosta presso Fineo.
    Infine, dopo aver costruito un altare agli dei, gli Argonauti si rimettono in viaggio, pronti ad affrontare il passaggio delle Simplegadi. Dall'Olimpo la dea Atena si porta sul luogo per prestare il suo soccorso. Come prescritto da Fineo gli Argonauti liberano una colomba e vistala attraversare illesa il terribile passaggio, si mettono ai remi con grande vigore per superare le Simplegadi. L'episodio è reso con grande tensione drammatica: l'abilità del timoniere, lo sforzo supremo dei rematori, le grida di Eufemo che incita i compagni a remare più forte; il riflusso della corrente finisce comunque per immobilizzare la nave nella minacciosissima gola e solo una spinta poderosa della mano invisibile di Atena fa uscire Argo dal passaggio prima che le rupi si richiudano saldandosi definitivamente fra loro.
    La tensione dell'episodio si risolve in una scena dialogata: Tifi, pur non consapevole dell'intervento di Atena, attribuisce alla dea il merito del successo riferendosi alla solidità strutturale di Argo della quale Atena è la principale artefice. Ora che le Simplegadi sono alle loro spalle l'esito dell'impresa è assicurato, conclude Tifi ottimisticamente. Giasone tuttavia risponde con un discorso in negativo, si dichiara pentito di essere partito e tormentato dal timore di esporre continuamente i suoi compagni a pericoli mortali. I commenti dei compagni - non riferiti dall'autore - servono però a confortare Giasone che finisce per condividere l'ottimismo di Tifi e tutti tornano, rinfrancati a remare.

    Dopo un altro tratto di faticosa navigazione, nella prima luce del giorno, Argo raggiunge l'isola Tinia. Qui agli Argonauti stremati dalla fatica appare il dio Apollo. Il dio cammina verso la terra degli Iperborei, recando con se l'arco e la faretra. Non si rivolge agli Argonauti, anzi li ignora e quelli rimangono muti a contemplare in religioso stupore le divine fattezze del Nume. Solo dopo che Apollo è svanito in lontananza, camminando nell'aria sopra il mare, Orfeo si riscuote ed invita i compagni ad onorare Apollo.
    Subito si innalza un altare e, con la caccia, si procurano vittime per i sacrifici. Orfeo canta le gesta di Apollo, l'uccisione del serpente Pitone, e tutti si giurano amicizia e reciproco aiuto, in nome della Concordia.
    All'alba del terzo giorno Argo lascia l'isola per raggiungere, il mattino successivo, il porto di Capo Acherusio, nella terra dei Mariandini. Nei pressi si trova uno degli ingressi dell'Ade, dove il fiume Acheronte si getta in un orrido immenso.
    Gli Argonauti, preceduti dalla loro fama, vengono accolti dai Mariandini con grande amicizia. Questi infatti sono al corrente dell'uccisione di Amico, re dei Bebrici, loro tradizionali nemici.
    Il re Lico offre loro un lauto banchetto e Giasone gli racconta tutti gli eventi del viaggio. Lico si duole con gli Argonauti per la perdita del famoso Eracle. Apollonio utilizza lo spunto per narrare per bocca di Lico le precedenti imprese di Eracle. Eracle era stato in quei luoghi in passato ed aveva aiutato i Mariandini contro vari nemici. Partito Eracle i Bebrici di Amico avevano tolto a Lico molte delle sue terre, ma ora Polluce li aveva vendicati.
    In segno di riconoscenza Lico dispone che suo figlio Dascilo si unisca alla spedizione procurando agli Argonauti benevoli accoglienze fra i popoli amici. Inoltre Lico decide di costruire un tempio in onore dei Dioscuri sulla vetta del promontorio Acherusio.
    Poco prima della partenza si verifica un triste evento: Idmone viene aggredito da un feroce cinghiale, Peleo ed Ida abbattono la bestia ma Idmone spira fra le loro braccia mentre viene condotto alla nave. Gli Argonauti rimandano la partenza per rendere le dovute onoranze funebri ad Idmone, ma durante le esequie muore anche Tifi, ucciso da un morbo improvviso.
    La perdita del pilota e dell'indovino getta gli Argonauti in uno stato di impotente desolazione finché Anceo, ispirato da Era, non si offre di sostituire Tifi alla guida di Argo. La proposta di Anceo, caldeggiata da Peleo serve a scuotere gran parte degli uomini e, nonostante il pessimismo di Giasone, si decide di riprendere il viaggio.

    Navigando vedono la foce del fiume Callicoro, dove Dioniso aveva istituito danze a lui sacre, ed il sepolcro di Stenelo, caduto combattendo le Amazzoni al fianco di Eracle. L'ombra dell'eroe appare rapidamente sulla tomba, inducendo gli Argonauti a fermarsi per rendergli onore.
    La tappa successiva è nella terra d'Assiria, dove nel mito aveva dimora la vergine Sinope, negatasi a tre divinità. Qui gli Argonauti incontrano tre ex compagni di Eracle: Deileonte, Autolico e Flogio i quali si uniscono alla spedizione.
    Proseguendo gli Argonauti raggiungono e superano la terra delle Amazzoni, senza avere occasione di incontrarle, occasione che avrebbe certamente provocato uno scontro data l'indocile natura delle figlie di Ares.
    Subito dopo oltrepassano il paese dei Calibi, popolazione che ricavava il proprio sostentamento dalla produzione del ferro.
    Seguono i Tibareni, noti per l'usanza degli uomini di mimare le doglie del parto delle loro mogli.
    Proseguendo l'elenco di particolari curiosi e sorprendenti che caratterizza questa parte del viaggio, Apollonio parla del popolo dei Mossineci, dalle singolari usanze: fanno l'amore in pubblico e condannano il re, quando sbaglia un giudizio, ad un giorno di digiuno e reclusione.

    Giunti in vista dell'isola di Ares, gli Argonauti vengono aggrediti da terribili uccelli che li feriscono lasciando cadere le loro penne taglienti.
    Anfidamante escogita un espediente per superare l'ostacolo: gli Argonauti indossano gli elmi, ostentano lance e scudi, levano grida fortissime, il tutto per produrre un effetto tale da spaventare gli uccelli. L'espediente ha successo e gli Argonauti, protetti dalla tettoia formata dagli scudi, raggiungono l'isola, mentre gli uccelli fuggono spaventati. La tappa sull'isola di Ares è stata consigliata da Fineo ed Apollonio passa ora a spiegarne le ragioni.
    I figli di Frisso, poco prima, avevano intrapreso un viaggio contemporaneo ed in direzione opposta a quella di Argo, erano partiti dalla Colchide per raggiungere Orcomeno e recuperare le ricchezze del padre, come questi aveva ordinato loro morendo. Avevano però fatto naufragio sull'isola di Ares e qui incontrano gli Argonauti ai quali si affrettano a chiedere aiuto. Interrogati da Giasone i naufraghi sintetizzano la storia di Frisso che aveva raggiunto la Colchide cavalcando un montone volante poi mutato in oro da Hermes. Frisso aveva sposato Calciope, figlia di Eeta e dalla loro unione erano nati i quattro naufraghi: Citissoro (Cilindro), Frontis, Melas, Argo.
    Giasone rivela loro di essere nipote di Creteo, fratello di Atamante, padre di Frisso, sono dunque parenti, offre loro quindi indumenti con i quali coprirsi ed insieme offrono sacrifici ad Ares.
    Giasone chiede ai figli di Frisso di seguirlo ed aiutarlo, con la loro esperienza dei luoghi, nella conquista del Vello d'oro. Quelli inorridiscono e descrivono la crudeltà di Eeta e la ferocia del serpente immortale, nato dal sangue di Tifone che custodisce il Vello. Interviene Peleo ed interrompe il discorso che minaccia di terrorizzare gli Argonauti.
    L'indomani Argo lascia l'isola di Ares e costeggia l'isola di Filira, qui si era svolto l'adulterio di Crono con l'oceanina Filira, da cui era nato il centauro Chirone.
    Giunti in vista del Caucaso gli Argonauti avvistano la grande aquila che si nutriva del fegato di Prometeo, ivi incatenato, quindi odono il lamento del Titano.
    Quella notte, guidati dai figli di Frisso, giungono alla foce del fiume Fasi, estremo confine del Ponto. Risalendo il fiume raggiungono il bosco sacro ad Ares dove il mostruoso serpente custodisce il vello d'oro.


    LIBRO TERZO




    Dall'Olimpo Era ed Atena osservano gli eroi finalmente giunti in Colchide e discutono su come aiutarli, Era propone di coinvolgere Afrodite perché faccia innamorare Medea di Giasone ed Atena, ignara dei giochi e delle pene d'amore, acconsente.
    Nella casa di Efesto, Afrodite accoglie con sorpresa la visita di Era ed Atena. Le parla Era spiegando le ragioni del suo affanno per Giasone: ella lo stima per un atto di pietà compiuto nei suoi confronti mentre si fingeva una debole vecchia, inoltre ha in odio Pelia che l'aveva una volta trascurata nei suoi sacrifici. Dunque Era chiede ad Afrodite di mandare suo figlio Eros da Medea perché si innamori di Giasone, Afrodite è perplessa, spiega che suo figlio le reca ben poco rispetto e nessuna obbedienza, tuttavia tenterà, per compiacere le dee.
    Afrodite va in cerca di Eros e lo trova nelle valli di Olimpo intento a giocare a dadi con Ganimede. Ganimede, sconfitto, si allontana con disappunto, senza notare l'arrivo della dea.
    Afrodite incarica Eros di colpire con le sue magiche frecce il cuore di Medea e gli promette in cambio un giocattolo favoloso, già di Zeus quando era bambino, una palla luminescente dai mille riflessi che lanciata lascia nell'aria un alone di luce. Come un bambino capriccioso Eros insiste per ottenere subito il regalo me Afrodite promette che glielo darà solo a missione compiuta.
    Mentre Eros vola verso Colchide gli Argonauti si riuniscono in assemblea.
    Giasone propone di compiere un tentativo diplomatico per ottenere il Vello d'Oro senza far uso della forza. Ottenuto il consenso dei compagni prende con se i quattro figli di Frisso, Telamone ed Augia e si reca alla reggia di Eeta.
    Il cammino di Giasone e dei suoi compagni attraversa una scena macabra: non era infatti uso dei Colchi cremare o seppellire i morti, ma li appendevano agli alberi, fuori città, avvolti in pelli di bue non conciate.
    Viene descritta la splendida reggia di Eeta, adornata da molte opere fra cui i tori di bronzo forgiati da Efesto. Nella stanza più grande abitava Eeta, con la sua sposa Idea, figlia di Oceano e di Teti. In un'altra abitava Assirto da questi concepito con la ninfa caucasica Asterodea, prima del matrimonio.
    Nella reggia vivevano anche le due figlie di Eeta, Calciope e Medea, sacerdotesse di Ecate. Scorgendo improvvisamente i visitatori Medea lancia un grido, richiamando la sorella e le ancelle.
    Calciope, accorsa, riconosce i propri figli che abbraccia con gioia. Accorrono anche Eeta e Idea, si riunisce gran folla ed i servi si affrettano ad imbandire il consueto banchetto. Nel frattempo giunge, invisibile, Eros ed in un istante compie la sua missione lasciando Medea sconvolta ed innamorata.
    Durante il banchetto Eeta interroga I nipoti sulle ragioni del ritorno e sull'identità dei loro accompagnatori. Risponde Argo, il maggiore dei figli di Frisso, ricordando la tempesta ed il naufragio, nonché l'aiuto ricevuto dagli Argonauti sull'isola di Ares.
    Infine Argo spiega la ragione del viaggio di Giasone. Argo dichiara che le intenzioni di Giasone sono pacifiche e che in cambio del Vello egli intende aiutare Eeta a combattere i Sauromati, nemici dei Colchi. Passa quindi ad esporre le origini dei suoi amici, Giasone discende, come Frisso, da Eolo; Augia - come Eeta - è figlio del Sole e Telamone è figlio di Eaco, nato da Zeus.

    La reazione di Eeta è terribile, egli sospetta che gli Argonauti tramino per privarlo del regno e che i figli di Frisso siano d'accordo con loro. Li caccia tutti e rimpiange che l'averli accolti alla sua mensa gli impedisca ora di punirli severamente.
    Con un breve discorso adulatorio Giasone riesce a calmarlo, ma Eeta gli propone una terribile prova: egli dovrà arare un campo usando i buoi di bronzo creati da Efesto, seminarlo con denti di drago e vincere i terribili guerrieri che, al tramonto, nasceranno dalla semina. Solo quando avrà superato questa prova - alla quale Eeta dichiara di essersi più volte sottoposto - Giasone otterrà il Vello d'Oro. Giasone, dopo un'angosciata esitazione, accetta la prova pur disperando di riuscire a superarla. Spavaldamente Eeta lo congeda perché vada a riferire l'accaduto ai suoi compagni.
    Mentre Giasone ed i suoi lasciano la reggia Medea si tormenta per il nuovo amore e prega Ecate per la salvezza dell'eroe.
    Quando Giasone spiega ai compagni la terribile prova che dovrà affrontare molti di loro si offrono di sostituirlo ma Argo - lo ha già proposto strada facendo a Giasone - insiste perché si chieda l'aiuto di Medea.
    In quel momento gli dei danno un segno (una colomba sfugge ad uno sparviero e si posa sulle gambe di Giasone) e Mopso lo interpreta come un'esortazione a ricorrere a Medea, ricordando l'allusione di Fineo e gli inganni di Afrodite. Medea può aiutare Giasone - ha spiegato Argo - perché la dea Ecate di cui è sacerdotessa l'ha resa edotta di misteriosi sortilegi.
    Solo Ida, come sempre arrogante e rozzo, si oppone alla decisione e propone di ricorrere alla forza, ma la decisione è ormai presa ed Argo viene incaricato di tornare alla reggia e parlare con sua madre Calciope.
    Eeta con un lungo discorso - che Apollonio riferisce in forma indiretta - prepara la rovina degli Argonauti, quando Giasone sarà perito nella prova, la nave Argo sarà incendiata e "i pirati" verranno puniti. Altrettanto dura sarebbe stata la punizione dei figli di Frisso e Calciope che Eeta considerava ormai alla stregua di traditori.
    Il ritmo della narrazione si fa sempre più intenso: Argo si sforza di convincere Calciope a procurare l'aiuto di Medea, Medea intanto sogna di combattere e vincere i tori, sogna che il Vello d'oro sia soltanto un pretesto di Giasone che, in realtà, vuole conquistarla come sposa e sogna di scegliere di seguirlo, abbandonando la casa paterna.
    Magistrale la descrizione dell'angoscia che assale Medea al suo risveglio: ella spera che Calciope chieda il suo aiuto per i suoi figli ma, combattuta fra desiderio e vergogna, esita a lungo sulla porta della sua stanza. Una richiesta d'aiuto da parte di Calciope le fornirebbe una sorta di alibi per salvare Giasone senza svelare la sua passione, ma nel sollecitare una tale richiesta, dovrebbe svelare i propri sentimenti alla sorella ed in questo la trattiene il pudore. Mediatrice un'ancella che ha scorto il pianto di Medea, è Calciope a raggiungere la sorella e nel trovarla stravolta teme un presagio funesto. Medea esita ancora ed infine risolve con l'inganno, spiegando di aver sognato terribili mali induce Calciope a chiedere il suo aiuto. Alle suppliche di Calciope Medea risponde promettendo che aiuterà lo straniero con i suoi filtri. Cela una gioia invereconda quando Calciope le dice che Giasone, tramite Argo, ha richiesto il suo aiuto.

    Scende la notte, portatrice di quiete e di riposo e nel profondo silenzio Medea medita sulla sua decisione. E' un brano di alta letteratura nel quale Apollonio indaga le passioni dell'animo della sua protagonista con sorprendente lucidità. Medea è combattuta fra le sue passioni e tutto il retaggio della sua educazione: la trattengono, dall'aiutare Giasone, più che il timore della punizione paterna, il senso dell'implicito tradimento e la vergogna per l'onore perduto. Potrebbe morire, si dice, dopo aver salvato Giasone, ma anche in questo caso sarebbe disonorata e la sua memoria rinnegata dai conterranei. Meglio dunque morire quella notte stessa, abbandonando Giasone al proprio destino e liberandosi del tormento della passione prima di aver compiuto qualsiasi azione disonorevole. Medea pone mano al cofanetto contenente il veleno, ma proprio quando sta per darsi la morte la salva un subitaneo attaccamento alla vita, rivede i momenti felici della sua infanzia, ripensa alla dolcezza della luce del sole e questo sano desiderio di vivere aiuta la sua ragione e riprende il controllo, Medea ha infine deciso: depone il cofanetto ed attende impazientemente l'aurora per poter preparare il filtro che salverà Giasone.

    All'alba i preparativi di Medea, il suo vestirsi ed abbellirsi per l'incontro imminente con Giasone, sono descritti sapientemente e fanno pensare alla vestizione di una sposa.
    Mentre le ancelle preparano il carro che la porterà al tempio Medea estrae dal cofanetto un filtro - detto filtro di Prometeo - che rende invulnerabile chi ne cosparga le membra. L'unguento era ricavato da un fiore nato dal sangue di Prometeo sparso dall'aquila tormentatrice.
    Giunta al tempio Medea cerca la complicità delle ancelle, anche questa volta con l'inganno. Confida loro che Argo e Calciope le hanno promesso del danaro per aiutare Giasone e che lei intende fingere di farlo con un finto filtro per ottenere il compenso che spartirà con le sue ancelle se queste sapranno mantenere il segreto e se si fermeranno in disparte per lasciarla incontrare Giasone da sola.
    Intanto Giasone - che Era ha reso per l'occasione irresistibilmente bello - accompagnato da Mopso, si avvicina al tempio dove - come Argo lo ha avvertito - dovrà incontrare Medea. Mopso - che ha ormai chiari i risvolti erotici della situazione riceve, in forma grottesca, un avvertimento divino. Una cornacchia lo schernisce da un albero facendogli notare quanto inopportuna sarà la sua presenza all'incontro galante. Sorridendo Mopso si ferma ed invita Giasone a proseguire da solo verso il tempio.
    L'incontro di Giasone e Medea: il primo a parlare è Giasone che invita delicatamente Medea a non temerlo e a non eccedere nel pudore, quindi pronuncia una supplica, con la consueta invocazione a Zeus protettore degli ospiti per ottenere il magico aiuto di lei. Senza parlare Medea gli porge l'unguento: Apollonio rende l'emozione di Medea in un crescendo, dell'esitazione iniziale, alle istruzioni sull'uso del filtro pronunciate con voce rotta; dalla tensione fino al definitivo cedere del pudore e all'appassionata dichiarazione di Medea che vorrebbe trovarsi improvvisamente nella casa di Giasone ed in sua compagnia. Molto più misurato il comportamento di Giasone che pure si mostra sensibile al fascino della donna: le dice che potrà seguirlo in Grecia, se vorrà, e diventare sua sposa, ma le sue parole sembrano più dettate dalla gratitudine che dall'amore. Al termine del colloquio, mentre Medea esita stordita dalle emozioni, è Giasone a riportarla alla realtà e a prendere dolcemente commiato da lei.
    Tornato alla nave ed informati i compagni, Giasone segue scrupolosamente le istruzioni di Medea celebrando i riti ed i sacrifici in onore di Ecate necessari per attivare l'unguento.
    Giunto il giorno della prova Giasone cosparge il proprio corpo e le armi con l'unguento e subito si sente invadere da una forza sovrumana. Davanti a Colchi esterefatti costringe i buoi ad accettare il giogo, insensibile alle fiamme che quelli gli alitano contro, e trascorre la giornata arando il campo e seminando i denti del drago. A sera i giganti guerrieri escono prodigiosamente dai solchi. Come gli aveva suggerito Medea, Giasone scaglia una grande pietra fra i giganti e quelli, con brutale stupidità si gettano sulla pietra stessa contendendosela ed uccidendosi fra loro mentre Giasone con la spada abbatte i superstiti.
    Alla fine della prova Eeta torna in città furibondo, meditando sul modo di colpire Giasone e gli Argonauti.


    LIBRO QUARTO




    Apollonio si rivolge alla Musa, egli non saprebbe dire se sulla decisione di Medea di seguire Giasone pesò più l'amore della maga per l'eroe o la paura della vendetta di Eeta. Oltre a queste due cause umane l'autore ne sottintende una terza: Era vuole che Medea parta perché prevede che una volta giunta Iolco, sarà causa della rovina di Pelia che si ricorderà, aveva offeso la dea trascurandone il culto.
    Infatti Era infonde nel cuore di Medea un folle terrore e la maga fugge nella notte, protetta dal buio, dopo un muto addio alla casa della sua giovinezza. La vede la Luna che prevedendo il futuro, pronuncia un breve monologo sugli "infiniti dolori" che attendono Medea.
    Medea raggiunge la riva e chiama a gran voce i figli di Frisso. La odono dalla nave e subito Giasone scende a terra ad accoglierla. Medea grida che si deve fuggire, che Eeta ha intuito l'inganno: aiuterà lei Giasone a prendere il Vello, ma vuole un giuramento. Giasone giura solennemente che la porterà in Grecia come sua legittima sposa.
    Senza altre esitazioni si recano subito al bosco sacro a prendere il Vello ma li sente avvicinarsi il mostruoso dragone che subito blocca la strada. Le strida del dragone svegliano tutti i Colchi e vengono udite anche a grande distanza, ma Medea invocando Ecate ed il dio Sonno e ricorrendo ad un altro suo filtro, riesce a far addormentare la belva. Preso il Vello Giasone e Medea tornano rapidamente alla nave dove tutti vorrebbero guardare e toccare la reliquia, ma non c'è tempo - dice Giasone - Eeta sta sicuramente organizzando la loro cattura.
    Infatti Eeta, ormai chiaro il tradimento di Medea, sta organizzando una grande flotta per inseguire gli Argonauti.
    In tre giorni, grazie al vento propizio mandato da Era, Argo raggiunge la Paflagonia dove approda per consentire a Medea di celebrare misteriosi riti di ringraziamento ad Ecate che ha favorito la conquista del Vello d'Oro.
    Qui gli Argonauti discutono sulla via del ritorno, Fineo ha infatti profetizzato che non potranno tornare per la stessa rotta di andata. Argo, il figlio di Frisso, indica come rotta possibile il risalire l'Istro (Danubio) finchè questo non si biforca a seguire poi l'altro ramo che raggiunge l'Adriatico. E' un passo complesso e non si capisce da dove Argo tragga le sue indicazioni, comunque "la dea mandò loro un messaggio propizio" e tutti decisero di seguire la strada indicata, facendo subito rotta verso la foce dell'Istro.
    Fra le isole al delta del fiume gli inseguitori Colchi raggiungono e circondano Argo. Dalla nave si pensa di patteggiare, consegnare Medea e tenere il Vello, ma Medea se ne avvede parla a Giasone in modo molto minaccioso. La flotta dei Colchi è guidata da Assirto, figlio di Eeta e Giasone pensa di catturarlo ma Medea è molto più risoluta, sarà lei a trarre in inganno il fratello, ad attirarlo chiedendogli un colloquio privato perché Giasone possa ucciderlo.
    così si procede, Giasone invia doni e messaggeri ad Assirto e si organizza un incontro fra i due fratelli nel tempio di Artemide che sorgeva su una delle isole. Durante il colloquio Giasone, che era rimasto in agguato, aggredisce Assirto e lo uccide. Subito dopo gli Argonauti assaltano una delle navi dei Colchi e ne uccidono tutti gli occupanti, aprendo un varco nell'accerchiamento.
    Quando al mattino, il grosso dei Colchi scopre l'accaduto la mancanza di un capo impedisce di organizzare l'inseguimento, Era dal canto suo li terrorizza con i fulmini e molti dei Colchi, spaventati all'idea della punizione di Eeta per il fallimento, rinunciano a tornare in patria e prendono terra, in seguito fonderanno varie colonie.
    Qui Apollonio anticipa che il viaggio di ritorno degli Argonauti sarà molto più lungo del previsto e ne spiega la ragione: Zeus, sdegnato per l'assassinio di Assirto aveva decretato che gli Argonauti non tornassero in patria senza essere stati purificati dalla mano di Circe. Dopo aver raggiunto l'Adriatico navigando sull'Istro, ed aver fatto sosta nella terra degli Illei (tribù dorica presso la penisola di Zara), gli Argonauti raggiungono Corcira (Adriatico Meridionale) che prendeva nome dalla ninfa Corcira amata da Posidone e madre di Feace. Quando Argo è ormai in vista dei Monti Cerauni una tempesta la respinge a Nord mentre una voce prodigiosa che fuoriesce dalla nave stessa avverte gli Argonauti dell'ira di Zeus e della necessaria purificazione presso Circe.
    Spinta dalle onde la nave entra nella foce dell'Eridano. Non è chiaro qui se con questo nome Apollonio intenda indicare il Po o il Rodano, comunque in questo libro si ipotizza l'esistenza, a nord delle Alpi, di un sistema fluviale tale da permettere agli Argonauti di attraversare un lungo tratto dell'Europa per raggiungere il Tirreno. E' questa parte del viaggio caratterizzata dalla passività degli Argonauti che più che navigare sembrano lasciarsi trasportare dalle correnti nell'intricata rete fluviale. Storditi dai miasmi dell'Eridano, che la leggenda attribuiva al corpo semicombusto di Fetonte ivi precipitato, avvolti da una fitta nebbia voluta da Era per nasconderli alla vista delle selvagge popolazioni locali, essi procedono fra terre misteriose. In un punto rischiano di finire nell'Oceano, dove si sarebbero definitivamente perduti e li salva un tremendo grido ammonitore di Era. Infine raggiungono il Tirreno e, sbarcati alle isole Stecadi, rendono grazie agli dei.
    La tappa successiva è all'isola Etalia (Elba) quindi, proseguono verso sud raggiungono il porto di Eea, sede di Circe.
    Trovano la maga intenta a purificarsi con l'acqua marina, ancora sconvolta da un incubo notturno che le ha mostrato la propria casa grondante di sangue, funesto presagio dell'uccisione di Assirto. La circonda uno stuolo di mostri le cui membra sono in parte umane ed in parte bestiali.
    L'incontro fra Giasone e Circe è descritto senza alcun dialogo: gli Argonauti la riconoscono subito per la sua somiglianza con il fratello Eeta, Circe li riconosce grazie ai suoi poteri di maga e veggente.
    Giasone e Medea vengono accolti nella casa di Circe ove ha luogo il rito di purificazione. Anche quando Circe interroga Medea e Medea risponde il dialogo viene riportato in forma indiretta.
    Nel suo breve resoconto Medea giustifica le proprie azioni con l'ansia per la sorella ed i nipoti e non fa parola dell'uccisione di Assirto, nota a Circe a causa dei suoi sogni. Circe risponde che disapprova le azioni di Medea, non le farà del male in quanto supplice e parente ma la caccia dalla sua casa.
    Giasone prende per mano Medea, affranta dalle parole della zia, ed insieme tornano alla nave.
    Ora che la purificazione è avvenuta Era vuole affrettare il ritorno degli Argonauti ed incarica Iride di parlare con varie divinità (Teti, Efesto, Eolo) perché facilitino il viaggio.
    A Teti, Era si rivolge personalmente convocandola sull'Olimpo perché protegga la nave dai marosi e la tenga lontano da Scilla e Cariddi. Il discorso di Era e Teti costituisce una digressione in cui viene riepilogato il mito di Teti (la resistenza a Zeus, le nozze con Peleo, la nascita di Achille) e fa riferimento ad una versione in cui Medea finiva per sposare Achille. Dopo aver avvertito tutte le sue sorelle del volere di Era, Teti raggiunge gli Argonauti sulla spiaggia di Eea e, manifestandosi al solo Peleo, li sollecita a riprendere il mare. Con grande delicatezza Apollonio descrive l'emozione e il rimpianto di Peleo, sposo abbandonato di Teti, nel rivedere dopo anni la sua sposa divina.
    Il mattino seguente Argo giunge in vista di Antemoessa, l'isola delle Sirene. A salvare gli Argonauti dalle seduzioni del canto delle Sirene è Orfeo che con il suono della cetra riesce a coprire le voci delle mitiche creature. Solo uno degli eroi, Bute, affascinato dal canto si getta in mare ma viene salvato da Afrodite, che impietosita, lo porta a terra assegnandogli per dimora il Capo Lilibeo in Sicilia.
    Ad attraversare lo stretto di Scilla e Cariddi e superare le Plancte, orribili scogliere infuocate dall'officina di Efesto, aiutano Argo tutte le Nereidi che muovendosi nel mare come delfini intorno alla nave la guidano e sospingono oltre i pericoli. Costeggiando la Sicilia gli Argonauti vedono le bianche mandrie del Sole condotte al pascolo da Faetusa e Lampezie, giovani figlie del dio. Finalmente Argo raggiunge l'isola dei Feaci dove, si diceva, era interrata la falce con cui Crono evirò Urano.
    La grande gioia con cui gli Argonauti sono accolti dai Feaci è turbata dall'arrivo dei Colchi che attraverso il Ponto, sono venuti a riprendere Medea.
    Si fa mediatore Alcinoo, re dei Feaci: intanto Medea, sconvolta dal terrore del padre, si affida alla protezione della regina Arete, moglie di Alcinoo, e prega disperatamente ciascuno degli Argonauti perché tengano fede al loro impegno di proteggerla.
    Durante la notte Arete supplica Alcinoo in favore di Medea ed Alcinoo decide che se Medea è ancora vergine la renderà ad Eeta ma se divide il letto con Giasone non vorrà spezzare un unione legittima. Poiché Medea nel supplicare Arete le ha confidato di essere ancora vergine la regina si affretta ad avvertire Giasone della decisione presa da Alcinoo.
    Gli Argonauti, aiutati da ninfe inviate da Era preparano subito il talamo nuziale e durante la notte Giasone e Medea celebrano il loro matrimonio che avrebbero voluto rimandare all'arrivo a Iolco.
    Al mattino Alcinoo comunica solennemente la propria decisione ai Colchi, mentre si diffonde la notizia delle nozze e tutti recano doni agli sposi. Davanti all'inflessibile decisione di Alcinoo i Colchi rinunciano ad insistere, ma temendo l'ira di Eeta al loro ritorno, chiedono ed ottengono di potersi stabilire nella terra dei Feaci.
    Dopo sette giorni, con molti doni ospitali da parte di Alcinoo, gli Argonauti ripartono.
    Quando sono ormai in vista delle coste greche una terribile tempesta li respinge e li trasporta verso la Libia dove Argo finisce con l'insabbiarsi nel Golfo della Sirte.
    Alla vista delle terre desertiche e dell'ampia distesa di fango che li circonda gli Argonauti sono vinti dalla disperazione.
    Al calar della sera gli eroi si dispongono sparsi sulla riva, velandosi il corpo, decisi ad aspettare la morte.
    Hanno pietà di loro le "Eroine della Libia", divinità locali del deserto che, apparendo a Giasone, gli indicano sotto forma di enigma, una via di salvezza: gli eroi dovranno "pagare il debito verso la madre per le pene sofferte portandovi tanto tempo nel ventre, quando Anfitrite scioglierà il rapido carro di Posidone".
    Giasone riunisce subito i compagni e racconta loro della prodigiosa apparizione, appena ha finito di parlare un gigantesco cavallo esce dal mare e si slancia in corsa nell'entroterra.
    E' Peleo a sciogliere l'enigma: l'apparizione del cavallo indica che Anfitrite ha sciolto il carro di Posidone, nonché la direzione da prendere. Quanto alla "madre" da ricompensare si tratta della nave che per tanto tempo li ha trasportati nel suo ventre. Dovranno quindi proseguire per un tratto via terra trascinando la nave.
    Così avviene e gli eroi con grandissima fatica trasportano per dodici giorni la nave lungo le dune del deserto seguendo le orme del cavallo. Arrivano alle acque del lago Tritonide dove possono riposare depositando Argo. Nei pressi del lago giaceva inerte il drago Ladone, custode delle mele d'oro delle Esperidi. Intorno al drago, che era stato abbattuto da Eracle, le Esperidi levano un lamento funebre. Alla vista degli Argonauti che vagando in cerca di una fonte si avvicinavano, le ninfe si tramutano in polvere. Orfeo indirizza loro una preghiera chiedendo l'indicazione di una fonte e le Esperidi si commuovono: immediatamente il suolo si copre di erba e di virgulti fioriti, le ninfe si tramutano in alberi prima di riprendere il loro aspetto originale.
    Una di loro, Egle, racconta del passaggio in quei luoghi di Eracle, che aveva ucciso il drago e rubato le mele. Forse ispirato da un dio Eracle aveva colpito una roccia facendo sgorgare una fonte che la ninfa indica agli Argonauti.
    Dopo essersi dissetati cinque Argonauti esplorano la zona nella speranza di rintracciare Eracle: Zete, Calais, Linceo, Eufemo e Canto. La ricerca è vana ma Canto, nel tentativo di rubare delle pecore per sfamare se stesso e i compagni, viene ucciso dal pastore Cafauro, discendente di Apollo.
    Anche Mopso muore nel deserto per il morso di un velenosissimo serpente. Dopo averlo sepolto e onorato gli Argonauti riprendono posto sulla nave ma dopo una lunga perlustrazione non riescono a trovare una via d'uscita dal lago Tritonide. Giasone decide di offrire alle divinità locali un tripode avuto in dono da Apollo, sperando di ottenere un aiuto. Li soccorre il dio marino Tritone che compare loro con aspetto umano ed indica chiaramente il passaggio fra il lago ed il mare aperto. Mentre la nave si allontana Tritone si immerge nel lago ma poiché Giasonegli offre un sacrificio dal ponte della nave il dio riappare con il suo vero aspetto e porge un ulteriore aiuto spingendo vigorosamente Argo che procedeva lentamente a forza di remi.
    Dopo una navigazione tranquilla Argo si avvicina a Creta ma qui il gigante di bronzo Talos, scagliando pietre, impedisce l'approdo. Gli Argonauti hanno grande necessità di approdare per rifornirsi di acqua e di cibo, quindi Medea, ricorre alle sue arti magiche contro il gigante. Dopo aver evocato le demoniache Chere, Medea concentra la propria volontà sul gigante, questi colpito dalla malia di Medea urta contro una roccia l'unico punto vulnerabile del suo corpo, una vena sotto la caviglia, e muore dissanguato.
    Dopo una sosta a Creta, gli Argonauti riprendono il mare me una notte senza stelle e senza luna si perdono nelle tenebre.
    Disperato Giasone invoca Apollo che lo ascolta e sceso dal cielo rischiara la notte con i bagliori del suo arco dorato. Grazie a questo aiuto gli Argonauti raggiungono una delle Sporadi che chiameranno Anafe (luogo dell'apparizione).
    Sull'isola si svolgono dei modesti sacrifici, data la scarsa disponibilità di cibo e di vino, la situazione suscita l'ilarità di tutti (l'episodio costituisce l'Aition di un rituale in vigore nell'isola ai tempi di Apollonio).
    Ripartiti, Eufemo ricorda un sogno della notte precedente: gli era sembrato di unirsi ad una giovane nata dalla piccola zolla di terra che Tritone aveva donato loro in precedenza e che questa gli dicesse di essere figlia di Tritone e di Libia e gli chiedesse di lasciarla nel mare di Anafe. Più tardi lo avrebbe raggiunto per essere la nutrice dei suoi figli.
    Su consiglio di Giasone, che interpreta il sogno, Eufemo getta la zolla in mare e ne nasce l'isola di Calliste, ove ebbero dimora i figli di Eufemo, dopo aver vissuto in Lemno ed a Sparta.
    Facendo sosta ad Egina gli Argonauti gareggiano a portare l'acqua alla nave (Aition di una competizione che si svolgeva ad Egina detta Idroforie).
    E' il commiato di Apollonio: dopo Egina, egli dice senza ulteriori difficoltà gli Argonauti proseguiranno nell'Egeo fino a sbarcare lietamente nel porto di Pegase.

    SINTESI DELL'OPERA
    .

    LIBRO PRIMO:

    Pelia, re di Iolco, ordina a Giasone la conquista del Vello D'Oro.
    Catalogo dei partecipanti all'impresa.
    Partenza di Argo.
    Sosta nell'isola di Lemno, abitata da sole donne che avevano massacrato tutti gli uomini per gelosia. Sedotti dalle donne di Lemno gli Argonauti si fermano a lungo, finchè Eracle non li convince a ripartire.
    Sosta nella terra dei Dolioni. Ripartita Argo viene respinta a terra dalla tempesta. Nella notte Dolioni ed Argonauti non si riconoscono e credendosi nemici si combattono. Cizico viene ucciso da Giasone.
    Gara di resistenza ai remi. Vince Eracle ma rompe il proprio remo.
    Sosta in Misia dove Ila, scudiero di Eracle, viene rapito da una ninfa. Argo riparte senza accorgersi che Ila, Eracle e Polifemo sono rimasti a terra.
    Scoperta la mancanza dei compagni gli Argonauti litigano sul da farsi ma appare il dio marino Glauco che spiega loro che l'accaduto è stato un volere di Zeus.



    LIBRO SECONDO:

    Sosta nella terra dei Bebrici. Il re Amico sfida il più forte degli Argonauti ad uno scontro di pugilato, accetta la sfida Polluce che vince uccidendo Amico.
    Gli Argonauti combattono con i Bebrici e li mettono in fuga.
    Incontro con l'indovino Fineo, ex re dei Traci che Zeus ha punito per aver rivelato agli uomini i pensieri degli Dei con la cecità e la persecuzione da parte delle Arpie.
    I Boreadi (Zete e Calais) mettono in fuga le Arpie liberando Fineo.
    Profezia di Fineo e sue indicazioni per il viaggio.
    Sosta a Tinia, epifania di Apollo.
    Passaggio delle Simplegadi.
    Sosta nella terra dei Mariandini, banchetto offerto dal re Lico.
    Idmone muore ucciso da un cinghiale. Il pilota Tifi muore di malattia. Anceo prende il posto di Tifi al timone .
    Varie tappe ed avvistamenti di località del Ponto.
    Isola di Ares. Incontro con i figli di Frisso, naufragati mentre viaggiavano verso Orcomeno per riscuotere l'eredità del nonno Atamante. I figli di Frisso si uniscono agli Argonauti.
    Arrivo di Argo in Colchide.




    LIBRO TERZO



    Afrodite, su richiesta di Era ed Atena, invia Eros da Medea perché si innamori di Giasone.
    Giasone, accompagnato dai figli di Frisso, da Telamone e da Augia, si reca alla regia di Eeta nel tentativo di ottenere pacificamente il Vello D'Oro. In cambio offre aiuto ai Colchi contro i nemici Sarmati.
    Eeta rifiuta indignato, all'insistenza di Giasone gli ordina una prova terribile: aggiogare due buoi mostruosi che sputano fiamme, seminare nel campo così arato i denti di un drago ed uccidere i guerrieri che nasceranno dai denti.
    Argo, figlio di Frisso, prega la madre Calciope di chiedere aiuto alla sorella Medea.
    Dopo una notte d'angoscia Medea decide di aiutare Giasone.
    Incontro di Medea e Giasone, consegna dell'unguento magico.
    Giasone, grazie all'unguento di Medea, supera la prova voluta da Eeta.
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    LIBRO QUARTO



    Medea decide di fuggire e si unisce agli Argonauti.
    Fuga dalla Colchide attraverso il Ponto. Alla foce dell'Istro (Danubio) i Colchi raggiungono i fuggitivi, li guida Assirto, figlio di Eeta.
    Su consiglio di Medea Assirto viene attirato a terra per incontrare la sorella ma Giasone lo aggredisce e lo uccide.
    Navigando l'Istro ed altri fiumi, Argo raggiunge l'Adriatico, ma una tempesta respinge gli Argonauti costringendoli a risalire il fiume Eridano. E' Zeus a volerlo, ha infatti deciso che gli eroi non tornino in patria, prima di essersi purificati per opera di Circe.
    Dopo lunga navigazione fluviale Argo raggiunge il Tirreno e naviga fino ad Eea, dimora di Circe.
    Circe purifica Giasone e Medea ma poi li scaccia disapprovando il comportamento di lei.
    Con l'aiuto delle Naiadi, inviate da Era, Argo supera l'isola delle Sirene, Scilla e Cariddi e le Plancte. .
    Argo raggiunge l'isola dei Feaci ma qui l'attende una flotta di Colchi che reclama Medea.
    Alcinoo, re dei Feaci, decide che non consegnerà Medea se questa si è unita a Giasone. Avvertiti dalla regina Arete, Giasone e Medea si affrettano a celebrare le nozze. Viene preparato il letto nuziale nell'antro in cui visse Macride, nutrice di Dioniso scacciata dall'Eubea per la gelosia di Era. Sul talamo viene steso il Vello d'Oro.
    Davanti alla decisione di Alcinoo i Colchi rinunciano ma, temendo l'ira di Eeta chiedono ed ottengono di rimanere.
    Una tempesta spinge Argo nel Golfo della Sirte, dove la nave si insabbia.
    Grazie all'intervento delle " Eroine Libiche " gli eroi comprendono che possono salvarsi solo via terra e trasportano faticosamente la nave nel deserto fino al lago Tritonide.
    Il dio Tritone si manifesta ed aiuta gli Argonauti a riprendere il mare.
    A Creta il gigante Talos sbarra il passo agli Argonauti ma muore per la magia di Medea.
    Gli Argonauti si smarriscono nella notte e vengono aiutati da Apollo che rischiara le tenebre con il suo Arco d'Oro.
    Dopo una sosta ad Egina gli Argonauti riprendono il viaggio e tornano finalmente a casa.