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DIONE CASSIO



STORIA ROMANA
(Sintesi parziale)



LIBRO XXXVI

Il periodo al quale si riferisce l'inizio del libro XXXVI è quello della seconda guerra mitridatica (69-66 a.C.).
Il console Quinto Ortensio Ortalo, famoso avvocato, rinunciò a comandare la guerra contro i pirati cretesi a causa dei suoi impegni forensi e la missione passò al collega Quinto Cecilio Metello (che acquisterà più avanti il soprannome di Cretico).
Intanto in Armenia Lucullo assediava Tigranocerta subendo gravi perdite a causa della preponderanza numerica degli assediati, dell'abilità degli arcieri, della tecnica del nemico di incendiare con la nafta le torri di legno e le altre macchine da guerra romane. Comunque Lucullo riuscì ad espugnare la città costringendo alla fuga il re Tigrane.
Tigrane e Mitridate decisero di combattere insieme e cercarono l'alleanza del re dei Parti (Dione lo chiama Arsace, titolo onorifico che si attribuiva a tutti i re dei Parti dal nome del fondatore della loro dinastia, ma si tratta di Fraate III). Per ottenere l'appoggio dei Parti, Tigrane cedette loro un territorio da tempo conteso. Anche Lucullo, che nel frattempo continuava ad estendere l'occupazione dell'Armenia, mandò a Fraate ambasciatori che furono accolti benevolmente, tuttavia i Parti in quell'occasione si mantennero neutrali.
L'anno successivo fu console Quinto Marcio, senza collega perché l'altro console Lucio Cecilio Metello morì all'inizio della carica (68 a.C.), Lucullo penetrò in Mesopotamia ed attaccò la città di Nisibi, una roccaforte di Tigrane ben protetta da una doppia cerchia di mura. Con difficoltà Lucullo riuscì ad espugnare anche questa città ma intanto Tigrane e Mitridate attaccavano i presidi romani in Armenia e riprendevano parte dei territori conquistati da Lucullo.
L'anno successivo (67 a.C.) furono consoli Manio Acilio Glabrione e Gaio Calpurnio Pisone. Si continuava a combattere in Armenia e Mitridate riuscì in qualche occasione ad infliggere ai Romani gravi perdite. Le truppe romane, che non avevano particolare stima per Lucullo, erano indisciplinate ed il loro comportamento minacciava un'insurrezione fomentata, secondo Dione, dal tribuno della plebe Publio Clodio.
Questa situazione portò alla defezione in massa delle truppe quando Lucullo decise di tentare un attacco decisivo contro Tigrane. In un inciso Dione tiene a chiarire che Lucullo era un abile generale che perse la fiducia dei suoi soldati per aver imposto troppo duramente la disciplina, non sapeva usare persuasione, clemenza o lusinghe. La prova di ciò, secondo l'autore, è nel fatto che le truppe seguirono poi Pompeo senza alcuna ribellione.
Di questi eventi approfittò Mitridate per riguadagnare terreno. Intanto il console Acilio Glabrione era stato inviato a sollevare Lucullo dal comando ma, venuto a conoscenza della defezione delle legioni si fermò in Bitinia.
Nello stesso periodo Metello conquistava l'isola di Creta ottenendo il trionfo ed il soprannome di Cretico. Le imprese di Metello, tuttavia, furono macchiate da diversi abusi commessi ai danni della popolazione e spesso ostacolate da Pompeo che, al comando di tutte le operazioni contro i pirati dell'Egeo, sosteneva che Metello stesse invadendo le competenze del suo incarico.
Qui Dione si accinge a narrare le vicende di Pompeo alla quali premette una breve descrizione della diffusa pirateria dell'epoca, precisando che i pirati arrivavano ormai a spingere le loro navi fino ad Ostia. Erano molto numerosi ed uniti fra loro da fortissimi vincoli di solidarietà che li rendevano ancora più pericolosi.
Aulo Gabinio propose di organizzare una campagna contro i pirati affidandone il comando a Pompeo. La proposta entusiasmò la popolazione ma non trovò l'assenso dei senatori preoccupati che Pompeo ottenesse troppo potere. Si verificarono dei disordini e, per evitare una popolazione popolare i senatori furono costretti a riconsiderare le proprie posizioni.
Da parte sua Pompeo era ansioso di ottenere l'incarico ma, da buon politico, finse di respingerlo. Dione inserisce a questo punto due "discorsi", il primo di Pompeo per rifiutare il mandato, il secondo di Gabinio per convincerlo ad accettare.
Qualcuno tentò di opporsi alla nomina di Pompeo ma la moltitudine gli impedì di parlare. Alla fine intervenne l'autorevole Quinto Lutazio Catulo, princeps senatus, dichiarandosi contrario alla proposta: le leggi - disse Catulo - prevedevano che missioni di questo tipo fossero condotte dai consoli, non era necessario nominare un generale. Inoltre, data l'ampiezza del territorio nel quale la guerra alla pirateria avrebbe dovuto svolgersi, era preferibile organizzare non uno ma diversi eserciti nominando i rispettivi comandanti i quali, eletti dal popolo e non designati da un unico capo, si sarebbero certamente comportati con maggiore impegno.
Tuttavia il dibattito si concluse con la vittoria di Pompeo che ottenne il comando. Gli furono affidate grandi risorse e cominciò a navigare nel Mediterraneo combattendo i pirati. Mostrandosi clemente con quanti gli si arrendevano riuscì a demolire molte bande senza combattere.
A Roma, intanto, si promulgavano nuove leggi contro i brogli elettorali e la corruzione dei giudici.
Il tribuno delle plebe Gaio Manilio propose di affidare a Pompeo il comando della guerra contro Tigrane e Mitridate (Lex Manilia). La proposta fu appoggiata da Cesare e da Cicerone mossi entrambi, secondo Dione, da considerazioni opportunistiche. Cicerone assunse la difesa di Manilio in un processo per concussione intentatogli dagli ottimati.
L'elezione dei consoli di quell'anno (65 a.C.) venne invalidata per sospetto di brogli, si trattava di Publio Antonio Peto e di Publio Cornelio Silla. Al loro posto vennero nominati Lucio Manlio Torquato e Lucio Aurelio Cotta. Fu ordita una congiura alla quale prese parte Lucio Catilina, congiura che venne scoperta e neutralizzata con l'assegnazione di una guardia del corpo ai nuovi consoli.
Ottenuto il comando della guerra in Oriente, Pompeo inviò ambasciatori a Mitridate per saggiarne le intenzioni. Mitridate, che sapeva Pompeo in contatto con il re dei Parti Fraate, accettò di cercare un accordo ma i suoi soldati si ribellarono e fu chiaro che una nuova guerra non era evitabile.
Pompeo penetrò in Armenia con le sue legioni e Mitridate iniziò una logorante guerriglia nella speranza che il nemico esaurisse le vettovaglie. Pompeo tuttavia riuscì ad impossessarsi di una regione dell'Armenia assicurandosi rifornimenti e rinforzi. Infine Pompeo riuscì a tendere un'imboscata notturna alle truppe di Mitridate in marcia verso i territori di Tigrane e a farne grande strage.
Sfuggito all'agguato, Mitridate cercò rifugio ed aiuto presso Tigrane ma questi, che lo sospettava di aver tramato contro di lui, non volle riceverlo. Mitridate quindi si spostò nella Meotide (Mar Nero) dove fece uccidere il figlio Macare che era passato ai Romani.
Il figlio di Tigrane, anche egli di nome Tigrane, intanto aveva abbandonato il padre e si era trasferito presso Fraate al quale consigliò di invadere l'Armenia. L'invasione ebbe luogo ma quando Fraate tornò indietro affidando l'assedio di Artaxata al giovane Tigrane questi fu sconfitto e finì per arrendersi a Pompeo che lo prese come guida.
Quando Pompeo marciò contro Artaxata il vecchio Tigrane decise di arrendersi e si presentò spontaneamente al campo romano in atteggiamento di supplice. Pompeo ne ebbe pietà e lo accolse benevolmente. Tigrane padre fu confermato sul trono con l'imposizione di un tributo mentre al figlio, che aveva mantenuto un atteggiamento ostile, fu assegnata solo la regione della Sofanene con l'ordine di consegnare al padre il tesoro del regno che vi era custodito in una fortezza. Poiché il giovane rifiutò la consegna, Pompeo lo fece arrestare e trasferire a Roma sotto scorta mentre ascrisse fra gli alleati il vecchio Tigrane dal quale aveva ricevuto molti donativi.
Durante l'inverno le legioni di Pompeo furono aggredite da Orose, re degli Albani (un popolo che abitava sulle coste occidentali del Mar Caspio). La reazione delle forze romane ebbe facilmente ragione degli aggressori ed Orose fu costretto alla fuga.
Tornato dall'Armenia, Pompeo si dedicò a sistemare varie questioni delle province orientali, esaminò le richieste dei governanti locali e riorganizzò la Celesiria e la Fenicia.
A questo punto una lacuna nel testo, parzialmente compensata da un riassunto di Xifilino, interrompe il racconto delle vicende di Pompeo e si passa bruscamente a Giulio Cesare.
Si parla degli splendidi Ludi Romani e Megalesi celebrati e finanziati da Cesare durante la sua edilità e degli spettacoli gladiatorii da lui offerti al popolo in occasione dei funerali del padre.



LIBRO XXXVII

L'anno seguente, consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato, Pompeo combattè contro gli Albani e contro gli Iberi.
Artoce, re degli Iberi, si preparava secondo Dione ad assalire i Romani nel timore che invadessero il suo regno ma Pompeo lo prevenne cogliendolo di sorpresa ed aprendo una rapida guerra che si concluse con la resa degli Iberi e la consegna in ostaggio dei figli di Artoce. Anche gli Albani furono rapidamente sottomessi e Pompeo si trovò a controllare tutto il Caucaso fino ai confini del Ponto.
Intanto Fraate, re dei Parti, continuava a contendere all'Armenia la regione detta Conduene. La questione fu risolta con l'arbitrato di tre ambasciatori inviati da Pompeo ma di fatto, osserva Dione, Fraate e Tigrane compresero l'importanza di trovare un accordo fra loro in modo da poter fronteggiare insieme la minacciosa presenza delle legioni romane.
In Oriente Pompeo riorganizzò la Celesiria, la Fenicia ed altri stati negandoli ad Antioco e sottoponendoli alle leggi romane.
A Roma Cesare ricoprendo l'edilità celebrò i Ludi Romani e i Megalesi acquisendo grande popolarità. Prodigi nefasti preoccuparono la popolazione, i censori non trovarono accordo fra loro riguardo alla concessione della cittadinanza alla Gallia Transpadana e si dimisero, su proposta del tribuno Gaio Papio gli stranieri non italiani vennero espulsi da Roma.
Durante il consolato di Figulo e Lucio Cesare (64 a.C.) per iniziativa di Cesare furono processati molti sicari di Silla.
Consoli Cicerone e Gaio Antonio Ibrida (63 a.C.), Mitridate si uccise e Catilina tentò di sconvolgere lo stato.
Non volendo rassegnarsi alla sconfitta, Mitridate aveva progettato di passare il Danubio ed attaccare l'Italia, ma gli alleati lo stavano abbandonando ed egli sempre più sospettoso faceva giustiziare tutti coloro di cui non si fidava compresi alcuni suoi figli.
Il figlio Farnace cospirò contro id lui, venne scoperto ma ormai i soldati erano passati dalla sua parte e marciarono contro Mitridate. Questi fece morire le mogli ed i figli con il veleno ma non riuscì a suicidarsi e fu finito da Farnace. Per molto tempo infatti aveva assunto controveleni e non ebbe sufficiente forma per uccidersi con la spada.
Farnace inviò a Pompeo il cadavere imbalsamato del padre ed ottenne il regno del Bosforo.
Pompeo mosse quindi contro Areta re degli Arabi che nonostante fosse già stato sconfitto continuava ad arrecare danni alla Siria, sconfitto Areta il generale si rivolse contro la Palestina i cui abitanti avevano compiuto scorrerie in Fenicia.
Si contendevano il trono dei Giudei i fratelli Ircano e Aristobulo. Senza difficoltà Pompeo costrinse i due ad arrendersi ed i partigiani di Ircano lo aiutarono nella presa di Gerusalemme che era occupata da Aristobulo. Più difficile fu la conquista del Tempio che Pompeo riuscì a prendere soltanto attaccando di sabato quando gli Ebrei, per motivi religiosi, si astengono dal combattere.
Pompeo restituì il regno a Ircano e Aristobulo fu mandato a Roma.
Dione Cassio divaga brevemente sulla diffusione degli Ebrei anche fuori dal loro paese (tanto che a Roma aveva ottenuto il diritto di celebrare i propri riti) e sul loro culto monoteista che considera molto particolare.
Segue un'altra divagazione sull'uso di assegnare ai giorni della settimana i nomi dei pianeti o delle divinità che ad essi presiedono
L'autore riprende quindi la narrazione delle gesta di Pompeo che dopo le imprese suddette tornò in Italia.
Giunto a Brindisi Pompeo congedò immediatamente l'esercito e Dione loda questo gesto da parte del generale che grazie alle ricchezze, alle alleanze ed al prestigio conseguiti avrebbe potuto facilmente impadronirsi del potere.
Pompeo accettò di celebrare un solo trionfo per tutte le sue imprese e non volle nomi onorifici se non quello di "Magno" che aveva già ottenuto in precedenza.
Dei molti onori che gli furono offerti accettò soltanto quello di poter indossare la corona d'alloro ed il mantello del trionfo in occasioni speciali, onore che gli fu riconosciuto grazie all'appoggio di Cesare e contro il parere di Catone.
Da parte sua Catone, di cui Dione tratteggia in poche righe il carattere democratico e libertario, non aveva motivo di odio verso Pompeo ma riteneva quei privilegi contrari alle tradizioni.
In quei giorni fu possibile celebrare "l'augurio della salute", un rito propiziatorio che poteva aver luogo solo quando non vi erano guerre in corso o in preparazione. Tuttavia si verificarono prodigi nefasti (fulmini a ciel sereno, scosse telluriche, ecc.) che certamente annunciavano eventi negativi.
Tito Labieno per attaccare il prestigio del Senato, volle riaprire una vecchia questione giudiziaria citando in giudizio il senatore Gaio Rabirio che trentasei anni prima (ai tempi di Mario) era stato processato per l'uccisione del tribuno Lucio Saturnino ed era stato assolto.
L'assoluzione era stata promossa dal senato che ora recepiva come un'offesa alla propria autorità la riapertura del processo.
L'iniziativa di Labieno suscitò molte polemiche ma con l'intervento di Cesare si giunse al processo. Furono nominati giudici (con procedura non regolare secondo Dione Cassio) lo stesso Giulio Cesare e suo cugino Lucio Cesare.
Rabirio venne condannato ma prima che la sentenza fosse formalizzata il pretore Quinto Metello Celere interruppe il procedimento con un espediente. Rabirio evitò così la condanna e Labieno rinunciò a citarlo di nuovo.
Nello stesso periodo iniziarono le vicende di Catilina che tramò per uccidere Cicerone che lo ostacolava nella sua aspirazione al consolato proponendo una legge contro i brogli elettorali.
Il complotto venne scoperto e Cicerone prese a girare sempre scortato indossando una corazza. Per qualche tempo Catilina e i suoi seguaci rimasero tranquilli ma dopo l'elezione dei nuovi consoli presero a cospirare apertamente attirando a Roma molti individui facinorosi. Catilina arrivò a sacrificare un bambino e a mangiarne le carni con i compagni a titolo di giuramento vincolante.
Fra i più stretti collaboratori di Catilina erano Publio Lentulo, consolare già espulso dal Senato, e Gaio Manlio, ex centurione di Silla che aveva dilapidato i propri averi.
I cospiratori avevano base in Etruria mentre a Roma il Senato decretava lo stato di emergenza con la formula tradizionale che conferiva pieni poteri ai consoli. Catilina, posto sotto processo, si costituì e tornò a Roma dove fu affidato al pretore Metello. Qui cercò di organizzare un nuovo attentato a Cicerone con i seguaci che aveva in città ma anche questa volta fu scoperto ed espulso.
Tornato a Fiesole intraprese apertamente la guerra con le bande reclutate da Manlio. Contro di lui il Senato inviò il console Antonio (che in precedenza aveva segretamente appoggiato Catilina) mentre Cicerone rimase a Roma e sventò un tentativo di incendiare la città organizzato da Lentulo con l'aiuto di certi ambasciatori allobrogi.
I congiurati arrestati tentarono di attribuire responsabilità anche a Cassio ma non furono creduti. Per evitare che venissero liberati, Cicerone occupò con un drappello il Campidoglio ed il Foro ed il mattino seguente persuase i senatori a condannare a morte i cospiratori. Si era opposto Cesare proponendo l'esilio ma l'intervento di Catone fu decisivo e i prigionieri furono giustiziati.
Si cercarono altri sostenitori di Catilina ed alcune persone furono colpite da giustizia privata come il senatore Aulo Fulvio che fu ucciso dal proprio padre.
Su proposta di Labieno venne abrogata una legge di Silla in modo che l'elezione dei sacerdoti tornasse al popolo. La proposta fu appoggiata da Cesare che, come aveva sperato, fu nominato pontefice massimo.
Mentre Cesare godeva di un periodo di grande favore popolare, Cicerone era malvisto per aver fatto condannare dei cittadini romani.
Quando Lentulo fu giustiziato Catilina fu abbandonato da molti seguaci e, assediato a Fiesole da Antonio e Metello Celere, rinunciò a temporeggiare. Decise di attaccare lo schieramento di Antonio ma questi, che in precedenza aveva aderito alla congiura, per evitare di essere scoperto si finse malato cedendo il comando a Marco Petreio che vinse la battaglia uccidendo tremila nemici fra i quali lo stesso Catilina.
A Roma tornò la tranquillità, i ribelli superstiti furono affrontati e rapidamente eliminati o condannati in contumacia anche grazie alle delazioni del "pentito" Lucio Vezio.
La polemica per l'operato di Cicerone e dei senatori tuttavia non si placò e Metello Nepote arringò al popolo denunciando la morte di Lentulo come un gravissimo abuso ma il senato protesse Cicerone garantendogli l'impunità.
Nepote non ebbe successo neanche con la proposta di richiamare a Roma Pompeo dall'Asia per fargli mettere ordine nella situazione politica. Gli si opposero Catone e Quinto Minucio e la discussione degenerò in rissa. Nepote abbandonò la città e raggiunse Pompeo.
In quei giorni Cesare ottenne la pretura e propose che il completamento del tempio di Giove fosse affidato a Pompeo.
Pompeo aveva molto potere per il suo prestigio e perché era temuto non essendo chiaro se al suo ritorno a Roma avrebbe congedato l'esercito.
Publio Clodio sedusse la moglie di Cesare (Pompeia) introducendosi nella sua casa mentre si celebrava un rito precluso agli uomini e Cesare ripudiò la donna affermando che sua moglie non doveva essere neanche sfiorata dal sospetto di adulterio.
Fu costruito il Ponte Fabrizio all'Isola Tiberina.
L'anno successivo (61 a.C., consolato di Marco Pupio Pisone e Messalla Corvino), Clodio fu processato per sacrilegio, per adulterio (su denuncia di alcuni senatori, non di Cesare) e per sospetto incesto con la sorella Clodia. Clodio ottenne l'assoluzione, forse corrompendo i giudici.
Intanto la Gallia Narbonese, attaccata dai Galli Allobrogi guidati dal loro re Catugnato, veniva difesa dal governatore Gaio Pomptino e dai suoi luogotenenti Lucio Mario e Servio Galba.
Pompeo rientrò in Italia e fece eleggere consoli Lucio Afranio e Metello Celere sperando che le sue proposte di legge e i suoi atti venissero approvati ma l'opposizione dei patrizi gli impedì di realizzare le sue aspirazioni. Anche il console Afranio lo ostacolò perché Pompeo aveva sposato e poi ripudiato sua sorella.
Gli si oppose anche Lucio Lucullo, suo avversario politico, che pretese che gli atti di Pompeo venissero esaminati criticamente ed approfonditamente e non ratificati in blocco.
Al tribuno della plebe Lucio Flavio che sosteneva l'assegnazione delle terre ai veterani di Pompeo si oppose Metello e la lita arrivò al punto che il tribuno fece arrestare Metello ma rischiò una sollevazione popolare.
Di fronte a queste difficoltà Pompeo accantonò molte sue richieste rendendosi conto che la sua potenza era ormai al tramonto.
Publio Clodio, per odio verso i patrizi, ripudiò il proprio stato e passò alla plebe ma non ottenne il tribunato per l'opposizione di Metello.
Metello Nepote promosse una legge per alleviare le imposte.
Fausto Silla offrì giochi in onore del padre.
Dopo la pretura Cesare ottenne il governo della Lusitania, liberò facilmente la provincia dal brigantaggio ma per desiderio di farsi notare provocò egli stesso una popolazione che tendeva alla ribellione per poterla combattere e sconfiggere.
Tornato a Roma chiese il trionfo ed il consolato. Dovette rinunciare al primo per l'opposizione di Catone mentre ottenne il secondo essendo riuscito a procurarsi anche l'appoggio di Pompeo e di Crasso.
Con la mediazione di Cesare, Pompeo e Crasso che erano avversari si rappacificarono, ciascuno convinto di agire per il personale tornaconto. I tre si allearono per gestire il potere seguiti dai rispettivi partigiani mentre a Roma, dice Dione, rimanevano soltanto Catone e pochi altri a fare politica in modo disinteressato.



LIBRO XXXVIII

Cesare presentò una legge per la distribuzione delle terre studiata con grande accortezza in modo da soddisfare le aspettative dei veterani e dei cittadini bisognosi ma senza in alcun modo nuocere agli interessi degli ottimati.
In realtà Cesare sapeva di far cosa gradita a Crasso e a Pompeo e di guadagnarsi il favore popolare ma il modo in cui aveva presentato la legge lo poneva al riparo da qualsiasi critica.
Non avendo motivi plausibili per respingere la proposta i senatori contrari a Cesare si limitarono a non approvarla. Davanti a questo comportamento Cesare reagì bruscamente, minacciò di incarcerare Catone ed altri senatori e da quel giorno presentò le sue proposte direttamente al popolo tralasciando di comunicarle al senato.
Davanti al popolo Cesare consultò Bibulo, suo collega nel consolato, il quale si dichiarò nettamente contrario alla proposta di legge, a quel punto chiamò in assemblea Pompeo e Crasso che, benché privati cittadini, valsero con la loro autorità a convincere il popolo ad approvare il progetto di Cesare.
Bibulo mise in atto tutti i mezzi disponibili per impedire o almeno ritardare l'approvazione della proposta di Cesare ma il popolo occupò il Foro e quando il console cercò di intervenire venne cacciato con la violenza insieme a quanti lo accompagnavano.
Spaventati dagli umori popolari i senatori non prestarono alcun appoggio a Bibulo che si ritirò nella sua casa rinunciando alle attività politiche.
Alla fine anche gli oppositori più tenaci, come Catone e Metello Celere, furono costretti ad approvare la legge e i terreni furono distribuiti, fatto questo che procurò a Cesare la simpatia popolare.
Cesare favorì anche i cavalieri con benefici fiscali e fece approvare tutti gli atti di Pompeo e molte delle sue proposte. Ottenne dal popolo il comando dell'Illiria e della Gallia Cisalpina con tre eserciti, il senato gli affidò anche la Gallia Transalpina con un ulteriore esercito.
Prima di partire per la Gallia consolidò i suoi rapporti con Pompeo facendogli sposare la propria figlia e sposò egli stesso la figlia del console designato per l'anno successivo Lucio Pisone.
Un certo Lucio Vezio tentò di uccidere Cesare e Pompeo ma scoperto e arrestato denunziò come mandanti Cicerone, Lucullo e Bibulo. Poiché Bibulo era proprio colui che aveva avvertito Pompeo del complotto si pensò che Vezio mentisse e, senza dar seguito alle sue denunce, lo si rinchiuse in prigione dove più tardi venne ucciso.
Le circostanze dell'attentato non furono mai chiarite ma Cesare e Pompeo presero a diffidare di Cicerone e quando l'oratore difese Antonio Ibrida accusato di aver partecipato alla congiura di Catilina venne alla lite con Cesare. Come governatore della Macedonia, Ibrida aveva vessato la popolazione e saccheggiato i territori confinanti provocando scontri e subendo rovesci. Fu condannato per queste azioni mentre venne assolto dall'accusa di cospirazione.
Clodio era in debito verso Cesare che non lo aveva denunciato per adulterio, perciò Cesare fece in modo che venisse nominato tributo. Ottenuta la carica, infatti, Clodio non tardò ad attaccare Cicerone in senato.
Benché potente e molto stimato come oratore, Cicerone con il suo comportamento altezzoso e con la sua libertà di parola si era procurato l'odio di molti. Clodio quindi si sforzò di ottenere l'appoggio di tutte le classi e di sfruttare l'astio degli avversari per colpire l'oratore.
Fece eseguire una distribuzione gratuita di grano ai cittadini più bisognosi, promosse altre iniziative gradite alla cittadinanza ed una legge che sospendeva la consultazione degli "augurii del cielo" nei giorni in cui il popolo era chiamato a votare.
Tradizionalmente, infatti, il popolo sospendeva le votazioni se gli augurii lo indicavano e Clodio non voleva rischiare che le sue iniziative contro Cicerone si bloccassero per questo motivo.
Ingannò Cicerone fingendosi amichevole e quando si sentì più forte attaccò.
Presentò una legge contro chi aveva condannato a morte cittadini romani e, benché Cicerone non fosse espressamente nominato, il provvedimento mirava chiaramente a colpirlo per aver eliminato Lentulo e altri seguaci di Catilina.
Cesare e Pompeo, ai quali l'oratore si rivolse chiedendo aiuto contro il tribuno, non fecero capire di essere gli istigatori di Clodio, anzi Cesare propose a Cicerone di partire come suo legato in modo di allontanarsi dal pericolo con un pretesto dignitoso. Pompeo al contrario consigliava a Cicerone di rimanere a Roma e di difendersi con la sua eloquenza e con il suo prestigio.
L'Arpinate finì per seguire il consiglio di Pompeo.
Gli avversari di Cicerone divennero rapidamente più numerosi dei suoi sostenitori e anche Pompeo, che gli aveva promesso il suo supporto se fosse rimasto in città, trovò tutti i pretesti per disinteressarsi alla cosa.
Amareggiato ed impaurito, Cicerone partì da Roma diretto in Sicilia, provincia della quale era stato governatore, dove sperava di ricevere una buona accoglienza, ma subito dopo la sua partenza la legge di Clodio fu approvata.
Cicerone fu condannato all'esilio, i suoi beni vennero confiscati e la sua casa distrutta, gli fu proibito di soggiornare in Sicilia e gli fu imposto di rimanere ad una distanza di almeno 3750 stadi da Roma (circa 700 km.)
L'Arpinate si stabilì in Macedonia. A questo punto Dione immagina un lungo dialogo fra l'esule ed un greco che lo consola con argomenti filosofici tipici della retorica.
Intanto a Roma Clodio costringeva Catone ad andare a governare l'isola di Cipro per allontanarlo da Roma, faceva fuggire Tigrane il Giovane che si trovava prigioniero in città, offendeva Pompeo e Gabinio. Sdegnato Pompeo operò per far rientrare rapidamente Cicerone.
In Gallia Cesare aveva trovato pace assoluta ma quando gli Elvezi, comandati da Orchitorige e decisi a migrare per trovare un territorio migliore del loro, saccheggiarono il paese dei Sequani e degli Edui questi si rivolsero a Cesare per chiedere aiuto.
Cesare aderì alla richiesta e partì all'inseguimento degli Elvezi. Distrusse la retroguardia nemica con tale rapidità che gli Elvezi chiesero subito di trattare ma la trattativa saltò e si riprese a combattere.
I Romani subirono una sconfitta ma poi le capacità strategiche di Cesare ebbero la meglio e i barbari furono battuti. Quanti accettarono di arrendersi furono lasciati tornare ai loro villaggi di origine, gli altri tentarono di proseguire la marcia verso il Reno ma furono rapidamente eliminati dagli alleati dei Romani dei quali attraversarono i territori.
Cesare aveva vinto ma voleva ulteriori occasioni di gloria quindi accettò volentieri la richiesta dei Sequani che volevano aiuto per liberare i loro connazionali tenuti in ostaggio da Ariovisto re dei Celti.
Benché Ariovisto fosse alleato di Roma, Cesare gli impose la riconsegna dei prigionieri provocando, come desiderava, una reazione indignata e collerica che gli bastò per iniziare una guerra.
Dopo aver tenuto un lungo discorso ai suoi ufficiali per convincerli dell'opportunità di combattere contro i Celti, Cesare attaccò senza indugio Ariovisto.
I Celti avevano riunito forze considerevoli ed erano superiori per numero di uomini ai Romani ma anche questa volta l'esperienza dei legionari ed il genio militare di Cesare prevalsero. Osservando indicazioni oracolari, Ariovisto rifiutò fino a sera il combattimento e quando gli eserciti schierati stavano per ritirarsi attaccò improvvisamente riportando qualche vantaggio, ma il giorno succesivo i Romani non lasciarono al nemico il tempo di schierarsi e con un assalto immediato vinsero la battaglia e fecero strage dei Celti.
Ariovisto riuscì a fuggire con una barca lungo il fiume.



LIBRO XXXIX

Sconfitto Ariovisto, Cesare affrontò i Belgi che nel timore di vedere il proprio paese invaso dai Romani si erano confederati ed armati.
La vittoria sui Belgi fu rapida e Cesare conquistò le loro città in qualche caso senza combattere. Anche i Nervii furono rapidamente sconfitti.
Gli Aduatici, una tribù dei Cimbri accorsi in aiuto dei Nervii, furono respinti dai Romani ma si barricarono in una fortezza e per molti giorni riuscirono a resistere. Infine i Romani allestendo delle macchine da guerra spaventarono gli assediati che in un primo momento cercarono di trattare poi tentarono una sortita notturna ma furono massacrati.
Dopo aver sottomesso queste ed altre popolazioni, Cesare si ritirò per l'inverno mentre a Roma venivano indetti grandi festeggiamenti per la sua vittoria.
Servio Galba, un luogotenente di Cesare che si era accampato non lontano dai confini italiani fu attaccato di sorpresa mentre aveva molti uomini in licenza ma con grande coraggio lui e i suoi soldati sfondarono l'accerchiamento nemico e si misero in salvo.
Intanto a Roma Pompeo, aiutato dal tribuno Tito Annio Milone e dal console Lentulo Spintere, si era attivato per far rientrare Cicerone. Contro l'iniziativa erano Clodio, suo fratello Appio Claudio e il console Nepote. Si verificarono scontri e al momento di votare la proposta di richiamo di Cicerone Clodio scatenò dei gladiatori sull'assemblea impedendo la votazione.
Milone tentò di incriminare Clodio per violenza ma non riuscendo ad aprire un processo per le varie difficoltà burocratiche che gli venivano opposte si procurò a sua volta una squadra di gladiatori per fronteggiare quella di Clodio.
Quando il console Nepote cambiò atteggiamento divenendo favorevole al rientro di Cicerone, Clodio non riuscì più a opporsi e l'oratore venne richiamato.
Cicerone dimostrò la propria gratitudine a Pompeo dimenticando i passati rancori e convincendo il Senato a nominarlo capo dell'annona per cinque anni, carica che in tempo di carestia conferiva un grande potere reale.
Rimasero invece difficili, anche se dissimulati, i rapporti dell'oratore con Cesare e Crasso.
Cicerone fu reintegrato nel possesso dei suoi beni e risarcito per la distruzione della casa.
Il re egiziano Tolomeo Aulete fuggì dall'Egitto dove la popolazione gli era avversa per le imposizioni fiscali e per la sua politica filoromana e venne a Roma per chiedere al senato di essere reinsediato saldamente sul trono. Gli abitanti di Alessandria inviarono a Roma numerosi ambasciatori per chiarire la situazione ma Tolomeo riuscì a intercettarli per ucciderli o corromperli.
Una consultazione dei Libri Sibillini fornì indicazioni negative riguardo alla richiesta di Tolomeo ed il tribuno della plebe Gaio Catone fece di tutto per divulgare questa profezia, inoltre i senatori erano indignati per il comportamento di Tolomeo verso gli ambasciatori alessandrini e sospesero ogni decisione. Comprendendo che non avrebbe avuto aiuti dai Romani, Tolomeo si ritirò ad Efeso dove visse presso il tempio di Diana.
Ottenuta l'edilità, Clodio citò in giudizio Milone per il reato che egli stesso aveva commesso, cioè l'aver reclutato ed armato i gladiatori. Durante il processo Clodio trovò il modo di offendere ed irritare spesso Pompeo senza mai accusarlo direttamente.
Si verificarono alcuni prodigi nefasti e gli indovini ne dedussero che era stato violato un luogo sacro, Clodio ne incolpò Cicerone che aveva ricostruito la casa sul suo terreno che durante l'esilio era stato consacrato alla dea Libertà.
Catone, che andava fiero del suo operato a Cipro, si schierò con Clodio che gli aveva fatto avere il governo di quell'isola; tuttavia quando Clodio tentò di attribuirsi onori e meriti che non gli spettavano Catone si oppose e i rapporti fra i due si guastarono.
Quanto a Pompeo era angustiato dalla sua terribile gelosia nei confronti di Cesare la cui popolarità aumentava rapidamente per effetto delle sue vittorie in Gallia. Per prevalere su Cesare, Pompeo rinnovò i suoi accordi con Crasso.
Pompeo e Crasso si candidarono al consolato ma erano oltre i termini di tempo previsti, perciò fecero pressione su vari personaggi per rimandare le elezioni.
Clodio tornò ad allearsi con Pompeo e il comportamento degli aspiranti consoli provocò lo sdegno del senato e disordini fra la popolazione; l'anno passò senza elezioni perché molti senatori per timore disertarono le riunioni.
Infine Pompeo e Crasso furono eletti consoli e subito fecero eleggere per le altre cariche uomini di loro fiducia. I soli oppositori investiti di una carica pubblica erano i tribuni Gaio Ateio Capitone e Publio Acilio Gallo.
Il tribuno Gaio Trebonio propose di affidare a Pompeo e Crasso il comando militare in Siria e Spagna per cinque anni con pieni poteri. I sostenitori di Cesare si opposero a questa proposta ma i consoli li convinsero facendo prolungare di tre anni anche il comando di Cesare. In senato si opposero Catone e Favonio ma i loro interventi non convisero i senatori. La legge proposta da Trebonio fu approvata in un clima di intimidazioni e disordini.
In quei giorni Pompeo dedicò il suo teatro e lo inaugurò con spettacoli, giochi ed uccisioni di belve
Pompeo, con il pretesto dei suoi impegni come capo dell'annona, rimase a Roma e mandò in Spagna i suoi luogotenenti. Crasso invece, nonostante l'opposizione di alcuni tribuni, partì verso l'oriente per una spedizione che gli sarebbe stata fatale.
L'anno successivo (56 a.C.) sotto il consolato di Gneo Cornelio Lentulo Marcellino e Lucio Marcio Filippo, Cesare combattè contro i Veneti, una tribù della Bretagna che aveva catturato alcuni suoi uomini inviati in cerca di cibo.
Le città nemiche erano sulla costa ed erano difese da rupi scoscese e dalle maree e Cesare non ottenne risultati fino all'arrivo di Decimo Bruto con una flotta di navi veloci. Le navi dei Veneti, costruite per resistere alle maree e alle onde dell'Oceano, erano molto più grandi e massicce e quando attaccarono con il vento favorevole Decimo Bruto evitò lo scontro ma quando il vento calò le navi romane si dimostrarono molto più leffere da manovrare con i remi ed il comandante approfittò abilmente di questo vantaggio. I Romani fecero strage dei nemici e catturarono tutti i sopravvissuti. I capi furono messi a morte da Cesare , gli altri furono venduti come schiavi.
Cesare attaccò quindi i Morini e i Menapii ma presto rinunciò perché queste genti si erano stabilite nella foresta ed era troppo rischioso combatterle in vista dell'inverno.
Esito positivo ebbe invece la spedizione del luogotenente Quinto Titurio Sabino contro i Venelli. Questi erano molto numerosi ma il legato li indusse con un espediente ad attaccare in situazione per loro sfavorevole e li massacrò senza pietà.
Publio Crasso, figlio di Marco, fece una spedizione in Aquitania e sconfisse i Soteati.
I Tencteri e gli Usipeti superarono il Reno ed invasero il territorio dei Treveri ma trovandovi i Romani li temettero e subito chiesero una tregua per rientrare nel loro paese. Tuttavia i più giovani, sottovalutando le risorse di Cesare, assalirono un gruppo di soldati romani violando la tregua.
Gli anziani di quelle genti chiesero la clemenza di Cesare ma Cesare fece strage dei soldati nemici e chiese la consegna di quanti avevano aggredito i suoi uomini, non ottenendola superò il Reno entrando nel territorio dei Celti, era un'impresa senza precedenti che Cesare era molto lieto di compiere.
Dopo il passaggio del Reno Cesare sbarcò per la prima volta in Britannia dove incontrò l'ostilità della popolazione, tuttavia i Britanni erano preoccupati per la fama dei Romani e per il coraggio che questi avevano dimostrato nel compiere la traversata, quindi avviarono trattative. Quando una tempesta danneggiò le navi di Cesare, tuttavia, mutarono avviso e attaccarono il campo romano. Furono respinti ma poichè era inverno Cesare ritenne opportuno tornare in Gallia.
Nello stesso periodo scoppiò in Spagna la rivolta dei Vaccei che furono combattuti ma non del tutto sconfitti da Metello Nepote, luogotenente di Pompeo.
Pompeo ordinò a Gabinio, allora governatore della Siria, di ricondurre in patria Tolomeo e Gabinio lo fece con una spedizione armata. Ciò era contrario alle decisioni del senato ed alla profezia ma, secondo Dione, Pompeo agì per amicizia e Gabinio per denaro. In seguito Gabinio fu processato e venne assolto per intervento di Pompeo.
Gabinio aveva governato malissimo la Siria attento soltanto ad arricchirsi ed aveva progettato una spedizione contro i Parti in favore di Mitridate, figlio di Fraate, che era stato cacciato dal fratello Orode. Aveva però abbandonato questo progetto per incassare il ricco premio promesso da Tolomeo.
Durante la spedizione giunse in Palestina dove arrestò Aristobulo e lo inviò a Pompeo perché era fuggito da Roma, impose un tributo ai Giudei ed infine arrivò in Egitto. Qui la regina Berenice, figlia di Tolomeo, aveva sposato un certo Seleuco della stirpe reale siriana ma non essendosi lo sposo dimostrato all'altezza Berenice lo fece uccidere e sposò Archelao.
Gabinio catturò Archelao ma si fece corrompere e lo lasciò andare simulando una fuga, anche per far apparire la sua impresa più ardua agli occhi di Tolomeo. Gabinio vinse rapidamente gli Egiziani uccidendone molti compreso Archelao, quindi consegnò l'Egitto a Tolomeo che a sua volta fece morire Berenice e tutti i notabili confiscandone i beni.
Il comportamento di Gabinio suscitò scandalo a Roma e Cicerone insistette per processarlo ma Pompeo e Crasso, che erano ancora consoli, bloccarono ogni iniziativa.
Quando però furono eletti i nuovi consoli (Lucio Domizio Enobarbo e Appio Claudio Pulcro - 54 a.C.) il caso Gabinio tornò di attualità anche perché Gabinio non accettò di farsi sostituire nel governo della Siria.
Proprio in quei giorni si verificò a Roma una disastrosa alluvione che uccise molte persone e distrusse molte case. I Romani, attribuendo l'evento alla collera degli dei per la violazione della profezia, pretesero dal senato la condanna a morte in contumacia di Gabinio.
Con il denaro Gabinio riuscì a non subire danni e nonostante l'odio popolare fu assolto dalle accuse inerenti la vicenda egiziana, fu tuttavia condannato per le molte accuse riguardanti il governo della provincia e rimandato in esilio, rientrò a Roma più tardi richiamato da Cesare.
Morì la moglie di Pompeo dopo aver partorito una bambina, fu sepolta nel Campo Marzio senza che il senato emettesse il necessario decreto.
Gaio Pomptino celebrò il trionfo per la vittoria sui Galli.



LIBRO XL

Ancora nel 54 a.C. Cesare fece i suoi preparativi, costruì delle navi e con la stagione favorevole passò per la seconda volta in Britannia.
Vedendo arrivare numerose navi romane cariche di soldati, i Britanni si ritirarono nel campo trincerato che avevano preparato in un bosco vicino e da qui presero a compiere azioni di guerriglia
Dopo qualche tempo si unirono sotto gli ordini di Casuellano, il capo più potente dell'isola, ed attaccarono i Romani ma furono sconfitti, Cesare assediò il loro campo e li costrinse alla resa, quindi dovettero consegnare ostaggi ed assoggettarsi al pagamento di un tributo.
Cesare non lasciò soldati a presidiare l'isola e preferì tornare rapidamente in Gallia per controllare la situazione, ma quando partì per l'Italia con l'intenzione di trascorrervi l'inverno diverse tribù galliche si ribellarono.
I primi furono di Eburoni che attaccarono il presidio comandato dai luogotenenti Sabino e Lucio Cotta. Furono respinti ma il loro capo Ambiorige, fingendosi pentito, attirò i Romani in un'imboscata in cui perirono molti uomini, compresi i due comandanti.
Anche i Nervii si unirono ad Ambiorige ed insieme assediarono il presidio comandato da Quinto Cicerone, fratello dell'oratore.
Gli assediati si trovarono in gravi difficoltà poichè erano in numero ridotto, avevano scarse provviste e il nemico impediva loro di contattare altri accampamenti romani per chiedere aiuto. Un Nervio amico dei Romani fornì a Cicerone un suo schiavo che facesse da messaggero passando inosservato fra gli assedianti, così Cesare ricevette la richiesta di aiuto. I Nervii lo intercettarono mentre correva in aiuto di Cicerone ma si lasciarono attirare in posizione sfavorevole e furono duramente sconfitti.
Insorsero quindi i Treveri comandati da Induziomaro che furono presto battuti da Tito Labieno.
In oriente Crasso, desideroso di procurarsi gloria e guadagni, decise di attaccare i Parti benché non ne avesse alcuna ragione. Passò l'Eufrate ed assediò la Mesopotamia. Dopo un vano tentativo di fermarlo il satrapo Silace corse ad avvertire il re Orode. Crasso conquistò rapidamente gran parte della Mesopotamia ma non vi si trattenne abbastanza a lungo per consolidare il controllo della regione.
I Parti vivevano oltre il Tigri ed avevano capitale in Ctesifonte. La loro importanza era cresciuta dalla caduta dell'impero persiano ad opera dei Macedoni, sotto il regno di Arsace capostipite degli Arsacidi. Conquistarono grandi territori e divennero molto potenti scontrandosi più volte anche con i Romani dei quali furono degni avversari.
Dione Cassio si sofferma sul modo di combattere dei Parti le cui armate erano costituite per lo più da arcieri a cavallo e da soldati corazzati, armati di picche ma privi di scudi.
Erano particolarmente abituati a combattere nelle condizioni ambientali del loro paese (sole rovente e grande siccità) ma evitavano sempre di affrontare lunghe guerre oltre l'Eufrate dove il clima differente avrebbe creato loro difficoltà.
Orode mandò messaggeri a Crasso per chiedere ragione dell'attacco ed armò un esercito per punire le regioni che avevano approfittato della situazione per insorgere e per controllare quelle che avrebbero potuto farlo.
Si verificarono presagi nefasti, come il crollo di un ponte, che spaventarono ed avvilirono i soldati di Crasso che pure continuarono a seguire passivamente il loro comandante come storditi dalla paura.
L'armeno Augaro, fingendo di onorare un accordo stretto in precedenza con Pompeo, si professava amico dei Romani e dovendo della fiducia di Crasso che gli confidava i suoi piani, puntualmente ne informava Orode.
Augaro convinse Crasso ad attaccare l'esercito parto di sorpresa ma avvisò il comandante Surena perché si preparasse adeguatamente per affrontare i Romani. Fingendo di fuggire, i Parti si lasciarono inseguire per un tratto da Crasso il Giovane ma poi lo accerchiarono e facilmente lo uccisero. I Romani tentarono di vendicarlo ma il metodo di combattimento con le frecce dei Parti creava loro grandi difficoltà.
La battaglia si protrasse a lungo e probabilmente i Romani sarebbero stati massacrati se i Parti, come era loro abitudine, non si fossero allontanati al calare della sera.
Crasso ed altri fuggirono verso Carre ma non sentendosi sicuri attesero la prima notte senza luna per prendere la via delle montagne verso l'Armenia. Surena propose un incontro per trattare, ma era una trappola e Crasso fu catturato ed ucciso con i soldati che lo avevano accompagnato. Il resto dei Romani fuggì oltre confine o fu fatto prigioniero.
In Siria assunse il comando Cassio Longino che respinse un attacco dei Parti comandati da Osace per conto del giovane Pacoro figlio di Orode. Cassio riuscì anche ad uccidere il comandante nemico e Pacoro rinunciò ai suoi progetti sulla Siria.
Giunse da Roma Bibulo che assunse il governo della Siria e con la diplomazia riuscì a mettere il satrapo Ornadapte contro Orode.
Intanto in Gallia Ambiorige riorganizzava le forze di Eburoni e Treveri e chiedeva mercenari ai Celti per combattere i Romani.
Labieno riportò una vittoria sui Treveri e Cesare, per inseguire Ambiorige, passò di nuovo il Reno ma, non ottenendo risultati, portò le truppe ai quartieri d'inverno e tornò in Italia.
Gli Arverni insorsero sotto la guida di Vercingetorige, invasero il paese dei Biturigi ed impegnarono a lungo i Romani che dovettero assediarli nella città di Avarico e poi in quella di Gergovia.
Si ribellarono anche gli Edui e mentre Cesare si occupava di loro Vercingetorige colpì il paese degli Allobrogi costringendolo a una nuova battaglia. Con l'aiuto di contingenti di Celti alleati Cesare sconfisse gli Edui che fuggirono ad Alesia dove furono definitivamente debellati in una nuova battaglia.
Vercingetorige, che aveva avuto in passato rapporti di amicizia con Cesare, implorò la grazia ma fu condannato proprio per aver tradito l'amicizia, fu imprigionato e più tardi costretto a sfilare nel trionfo di Cesare prima di essere giustiziato.
La tribù belga degli Atrebi comandata da Commio resistette a lungo alla conquista romana finché non fu debellata da Cesare con una rapida azione di cavalleria. Commio riuscì a fuggire e in seguito tentò altre azioni contro i Romani finché, definitivamente sconfitto, non si arrese ed uscì dalla scena.
La Guerra Gallica ebbe fine (50 a.C.) ma Cesare non congedò l'esercito per timore di cadere nelle mani di Pompeo che aveva riacquistato potere e non era più in buoni rapporti con lui.
A Roma si verificavano frequenti tumulti che Pompeo ebbe l'incarico di sedare. I tribuni della plebe ritardavano con vari pretesti le elezioni consolari e proponevano di nominare Pompeo dittatore. Pompeo rifiutò la carica ma i disordini continuarono, le magistrature non venivano assegnate anche i più semplici presagi contribuivano ad alimentare la tensione.
Milone incontrò Clodio sulla Via Appia e lo uccise. Quinto Pompeo Rufo e Tito Munazio Planco mostrarono nel foro la salma al popolo accrescendo l'ira della folla che allestì per Clodio una pira nel senato incendiando la curia e violando tutti i riti funebri allora in uso.
La cittadinanza si divise fra quanti sostenevano Milone e quanti erano stati sostenitori di Clodio e si verificarono molti disordini che indignarono i senatori i quali decretarono che Milone, Pompeo ed i tribuni ponessero sotto controllo la situazione. Fausto Silla fu incaricato di ricostruire la Curia Ostilia, la sede del senato che era stata incendiata.
Il popolo insisteva per eleggere Cesare console e Pompeo dittatore ma i senatori, considerando Cesare era troppo favorevole alla plebe, decisero di nominare Pompeo console unico con un provvedimento straordinario. Pompeo fu molto orgoglioso delle nomina ma per evitare eccessive invidie chiese di avere un collega e scelse il suocero Quinto Scipione, già indagato per corruzione e prosciolto quando la figlia aveva sposato Pompeo. Dione Cassio sottolinea che in quel periodo le pene contro il reato di corruzione si erano inasprite proprio per effetto delle leggi di Pompeo.
Milone fu processato per l'uccisione di Clodio e condannato all'esilio nonostante fosse difeso da Cicerone. Sembra che la difesa di Cicerone non fu efficace perché l'oratore fu spaventato dalla presenza in tribunale di Pompeo con un presidio di armati.
Rufo e Planco furono condannati, insieme ad altre persone, per l'incendio del senato. Cicerone in questo caso aveva il ruolo di accusatore ma di nuovo le sue parole non furono efficaci per timore di Pompeo.
Pompeo ripristinò una norma caduta in disuso che imponeva un intervallo di cinque anni fra una carica e l'altra ma subito la violò per se stesso, chiedendo il rinnovo del comando in Spagna, e per Cesare (per placarne gli amici) chiedendo che gli fosse concesso di candidarsi al consolato
Per contrastare Pompeo e Cesare, Catone si candidò al consolato ma non fu eletto. Vinsero Marco Claudio Marcello e Servio Sulpicio Rufo (51 a.C..). Marcello era un convinto pompeiano e tentò di diminuire il potere di Cesare e assicurarsi che deponesse al più presto il comando, ma Cesare non intendeva tornare alla condizione di privato cittadino quindi si dedicò ad arruolare altre truppe e a procurarsi nuovi sostenitori fra cui Curione.
Pur agendo non apertamente e con molta cautela, Curione favorì politicamente Cesare e Pompeo fu costretto a cambiare comportamento scoprendo la propria ostilità verso Cesare.
I sostenitori di Cesare erano numerosi, fra loro erano Lucio Paolo e il censore Lucio Pisone, suocero di Cesare, mentre era suo avversario un altro censore, Appio Claudio.
Fra questi personaggi scoppiò una grossa lite in senato. Il console Marcello si oppose a Curione ma quando vide che molti senatori erano contro di lui andò da Pompeo e gli affidò la difesa della città.
Marcello affidò a Pompeo due legioni che erano state preparate per combattere contro i Parti togliendole a Cesare con vari pretesti. La mossa si rivelò sbagliata perché Pompeo non ebbe di fatto modo di utilizzare le due legioni a suo vantaggio mentre Cesare ne ricavò ampia giustificazione per tenere presso di se il resto dell'esercito ed arruolare altri soldati.




LIBRO XLI

Il 1 gennaio del 49 a.C. Curione recò al senato una lettera di Giulio Cesare. I nuovi consoli Cornelio Lentulo e Gaio Claudio tentarono di mantenere segreto il contenuto di quella lettera ma furono costretti a divulgarlo.
Cesare si dichiarava disposto a congedare il suo esercito a condizione che Pompeo facesse altrettanto ma il senato espresse voto contrario.
I tribuni Quinto Cassio Longino e Marco Antonio impedirono per due giorni che la decisione venisse ratificata, poi vedendosi isolati partirono per raggiungere Giulio Cesare insieme a Curione e a Celio.
I Senatori affidarono a Pompeo il comando delle truppe e decretarono che Cesare sciogliesse il suo esercito se non voleva essere considerato nemico della patria. Cesare reagì superando il confine ed iniziando la sua marcia verso Roma che non trovava ostacoli di rilievo. Labieno, caduto in disgrazia presso Cesare, disertò e comunicò a Pompeo i piani segreti del suo avversario.
Pompeo, non riuscendo a reclutare forze pari a quelle di Cesare e comprendendo che il popolo non voleva una nuova guerra civile, propose una trattativa e Cesare rispose che voleva incontrarlo personalmente.
Preoccupato per il prestigio di cui Cesare godeva presso il popolo, Pompeo decise che si sarebbe sentito più al sicuro lontano da Roma e si spostò in Campania seguito da molti ragguardevoli senatori.
Presto tutti coloro che avevano cariche o ricchezze lasciarono la città temendo gli umori di Cesare e dei suoi soldati e quanti restavano erano terrorizzati perché convinti di andare incontro agli orrori di una nuova dittatura.
Intanto Cesare non attaccava Roma ma inviava ovunque messaggeri per sfidare Pompeo e sottoporsi insieme ad un giudizio. Assediò Corfinio, in Abruzzo, difesa dal pompeiano Lucio Domizio. Valutata la situazione, Pompeo decise di partire per la Grecia dove contava di avere molti amici e ordinò a Domizio di seguirlo abbandonando Corfinio. Domizio ubbidì ma i suoi soldati considerando quel comportamento come una fuga non lo seguirono e passarono a Cesare.
Pompeo, non avendo navi sufficienti per l'intero esercito, aveva fatto partire da Brindisi una parte dei soldati e i senatori che lo avevano seguito. Quando Cesare assediò Brindisi, Pompeo la difese soltanto fino al ritorno delle navi, poi salpò di notte lasciando la città e il porto nelle mani di Cesare.
Con questa partenza, secondo Dione, Pompeo perse tutto il suo prestigio e scambiò la propria salvezza personale con la gloria e i meriti conquistati in precedenza.
Si verificarono vari presagi ed anche la morte di Perperna, quasi centenario, fu interpretata come un segno di imminente cambiamento.
Cesare, che non disponeva di navi e inoltre intendeva mantenere l'Italia sotto il suo controllo, non tentò di seguire Pompeo in Macedonia ma tornò a Roma dove parlò al Senato in tono rassicurante ed inviò messaggeri ai consoli e a PompeoPompeo per trattare la pace. Tuttavia i Romani, memori di Mario e Silla, non si fidavano e infatti Cesare non esitò ad impadronirsi del tesoro pubblico per pagare i suoi soldati.
Mentre molti senatori, compreso Cicerone, sposavano la causa di Pompeo, Cesare regolava vari affari e, affidata l'Italia a Antonio, partiva per la Spagna. In Gallia tutte le popolazioni si unirono a Cesare ad eccezione dei Marsigliesi che si dichiararono neutrali. Cesare attaccò Marsiglia e fu respinto, quindi Trebonio e Decimo Bruto assediarono la città mentre Cesare proseguiva per la Spagna.
I pompeiani Afranio e Petreio avevano occupato la regione del fiume Ebro lasciando un presidio sui Pirenei. Gaio Fabio, legato di Cesare che lo aveva preceduto in Spagna, sbaragliò il presidio ma fu ostacolato dal crollo di un ponte sull'Ebro e perse molti uomini.
Al suo arrivo Cesare tentò di occupare una posizione favorevole ma fu preceduto dagli avversari e a sua volta sconfitto. Isolato dagli alleati e a corto di rifornimenti, Cesare era in grande difficoltà e queste notizie giungendo a Roma demoralizzavano i suoi sostenitori spingendone molti a cambiare partito.
A salvare la situazione fu una vittoria di Decimo Bruto sui Marsigliesi e sul pompeiano Domizio che, opportunamente riferita agli Spagnoli, risollevò il prestigio di Cesare.
Alcuni Spagnoli si unirono ai cesariani portando loro vettovaglie e aiutandoli a riparare i ponti. Cesare ne approfittò per portare a segno qualche colpo contro Afranio luogotenente di Pompeo il quale decise di lasciare la città di Ilerda per trovare un luogo più sicuro. Cesare raggiunse i nemici mentre si spostavano e li accerchiò rapidamente; vedendosi isolato Afranio si arrese e Cesare trattò i vinti con lealtà e clemenza.
Il generale avanzò quindi fino a Cadice, città alla quale concesse la cittadinanza romana, vi lasciò Cassio Longino e proseguì per Tarracona, quindi superò di nuovo i Pirenei. Giunto a Marsiglia ricevette la resa della città che aveva fino ad allora resistito e si fece consegnare le armi e molto denaro.
A Piacenza dovette affrontare la ribellione di una parte dei soldati che si opponeva al combattere in Italia e si dichiarava esausta per le lunghe campagne in Gallia e in Britannia.
Dione Cassio in questa occasione fa pronunciare a Cesare un lungo discorso volto a legittimare la sua posizione nella guerra civile come azione di difesa della patria. Il comandante fece quindi giustiziare i più facinorosi e tanto bastò perché gli altri ribelli rientrassero nei ranghi.
Marco Emilio Lepido, il futuro triumviro, in qualità di pretore proclamò la dittatura di Cesare e questi assunse la carica appena entrato a Roma ma si guardò dall'emanare provvedimenti impopolari e dopo aver richiamato gli esuli ed eletto i nuovi magistrati rinunciò al titolo di dittatore.
Varò quindi una riforma delle norme riguardanti il credito per facilitare la circolazione del denaro e combattere l'usura. Incoraggiato da alcuni presagi favorevoli ripartì quindi per Brindisi.
Intanto Marco Ottavio e Lucio Scribonio Curione cacciavano dalla Dalmazia il cesariano Publio Cornelio Dolabella e catturavano Gaio Antonio con i suoi soldati.
Curione conquistò la Sicilia senza combattere perché Catone, consapevole di non poter difendere l'isola, era partito. Passato in Africa, Curione si lasciò ingannare da Giuba che gli fece credere di disporre di forze modeste ma quando prese coraggio e si spinse più avanti fu sopraffatto ed ucciso con tutti i suoi uomini.
L'anno seguente a Roma furono eletti consoli Cesare e Publio Servilio ma i senatori che si trovavano a Tessalonica con Pompeo continuarono a considerare in carica i magistrati dell'anno precedente in qualità di proconsoli e propretori creando così una situazione del tutto irregolare.
Pompeo svernava a Tessalonica sicuro di non correre pericoli fino alla buona stagione ma Cesare salpò da Brindisi in pieno inverno e sbarcò in Epiro sulla punta Acroceraunia. Aveva trasportato solo parte dell'esercito per carenza di mezzi e durante il secondo viaggio alcune navi, attaccate da Bibulo, andarono perdute.
Cesare conquistò Orico, Apollonia ed altre località, quindi si trovò a fronteggiare l'esercito di Pompeo presso il fiume Apso. I soldati di Pompeo erano molto più numerosi di quelli di Cesare anche perché questi era ancora in attesa dei rinforzi comandati da Antonio, comunque i due comandanti temporeggiarono a lungo senza scontri significativi.
Antonio era stato bloccato a Brindisi dalle navi nemiche al comando di Bibulo ma quando questi era morto Antonio aveva respinto il successore Libone ed era riuscito a riprendere il mare.
Ricevuti i rinforzi Cesare era ora in superiorità numerica e quando Pompeo si mosse lo inseguì. Assediò il campo nemico presso Durazzo e lo cinse con una fortificazione, ma Pompeo con un'improvvisa azione notturna sconfisse l'esercito cesariano.
Consapevole di dover cambiare tattica, Cesare tolse l'assedio e si portò in Tessaglia dove conquistò la città di Gonfi e ricevette senza combattere la resa di Metropoli.
Pompeo, ormai convinto di essere in forte vantaggio, seguì senza fretta Cesare in Tessaglia ma non tentò di riaffermare il suo nome in Italia per non far credere di aver combattuto per prendere il potere.
Quando infine si giunse allo scontro fu un evento memorabile a causa della forza dei due eserciti e dell'esperienza dei comandanti. La battaglia fu molto lunga e alla fine Pompeo fu sconfitto.
Cesare aggregò i soldati nemici sopravvissuti al proprio esercito mentre mandò a morte senatori e cavalieri che avevano combattuto per Pompeo ad eccezione di quelli che godettero dell'intercessione dei suoi amici e di quelli non recidivi.
Non arrecò alcuna offesa ai popoli stranieri che si erano alleati con Pompeo riconoscendo che avevano agito correttamente per gratitudine.




LIBRO XLII

Essere sconfitto quando era certo di vincere gettò Pompeo nella disperazione e lo rese incapace di ragionare lucidamente. Nonostante avesse ancora molti soldati e molte risorse, fu preso dalla paura e fuggì con pochi uomini a Larissa.
Di qui partì subito dopo essersi rifornito di vettovaglie e passò dall'isola di Lesbo dove aveva lasciato la moglie Cornelia e il figlio Sesto, li prese con se e puntò sull'Egitto.
Giunto a Pelusio, sul delta del Nilo, vi trovò il re Tolomeo che era in guerra contro la sorella Cleopatra. Pompeo sperava di essere aiutato da Tolomeo il cui padre era stato ricollocato sul trono dallo stesso Pompeo tramite l'intervento di Gabinio, mandò quindi messaggeri a chiedere udienza al sovrano. Questi inviò il suo funzionario Achilla a prendere Pompeo insieme a Lucio Settimio, un romano rimasto in precedenza in Egitto. Pompeo li seguì fiduciosamente ma mentre attraversavano il fiume su una piccola imbarcazione fu ucciso a tradimento dai suoi accompagnatori.
Così Pompeo, che era stato l'uomo più potente di Roma, morì miseramente all'età di cinquantotto anni. La moglie e il figlio che erano con lui riuscirono a fuggire: Cornelia tornò a Roma dove ottenne l'impunità, Sesto raggiunse in Africa il fratello Gneo.
Cesare inseguì Pompeo in Egitto e quando Tolomeo mandò ad accoglierlo suoi incaricati con la testa e l'anello del rivale mostrò di esserne dispiaciuto e deprecò gli assassini ma secondo Dione si trattò soltanto di un atto di grande ipocrisia.
Dopo Farsalo Catone aveva raccolto a Corcira i pompeiani superstiti fra i quali Labieno e Afranio. In seguito si era unito a loro anche Ottavio, reduce dell'assedio di Salona i cui abitanti si erano difesi eroicamente.
Gneo Pompeo combattè presso Orico contro Marco Acilio, riuscì a distruggere molte navi nemiche ma fu ferito e rinunciò a conquistare la città; tentò quindi senza successo di prendere Brindisi ed infine si unì a Catone.
Il gruppo di Catone continuò a crescere, passò a Cirene in seguito ad uno scontro con Fufio Caleno ma quando giunse la notizia della morte di Pompeo si disperse. Molti passarono a Cesare ottenendo il perdono, altri si allontanarono facendo perdere le proprie tracce; Catone, con quanti non potevano sperare nel perdono di Cesare, si portò in Africa dove prese ad organizzare la resistenza.
Prima di Farsalo il cesariano Fufio Caleno aveva conquistato varie località della Grecia ma non era riuscito a prendere Atene. Solo dopo la sconfitta di Pompeo gli Ateniesi si arresero e furono perdonati da Cesare.
Non si arrese Megara che fu espugnata dopo molto tempo e molti cittadini persero la vita. I superstiti furono venduti ai parenti come schiavi da Caleno.
In Spagna i cittadini di Cordova si erano ribellati ai soprusi del governatore Quinto Longino e molti soldati romani aderirono alla rivolta eleggendo loro capo Marco Marcello Asernino il quale mantenne un atteggiamento di ambigua neutralità sperando di trarre vantaggio dagli eventi sia che vincesse Cesare, sia che vincesse Pompeo.
Dopo la vittoria di Cesare, Asernino cadde momentaneamente in disgrazia ma in seguito fu riabilitatoi mentre Longino fu destituito e perì mentre lasciava la Spagna.
A Roma la notizia di Farsalo e successivamente quella della morte di Pompeo furono accolte con sospetto ma quando vennero confermate scatenarono una gara di adulazione nei confronti di Cesare al quale vennero conferiti onori di ogni genere e cariche tali da porre nelle sue mani il potere supremo sullo stato.
Cesare assunse la dittatura e scelse Antonio come capo della cavalleria.
Il pretore Marco Celio Rufo in contrasto con il collega Trebonio lo ostacolava in ogni modo nelle iniziative politiche quindi passò alle vie di fatto con un'aggressione alla quale Trebonio sfuggì a stento.
Celio Rufo, che era stato sostenitore di Cesare, aveva assunto questo atteggiamento perr rgelosia nei confronti del collega che era stato più favorito di lui dal dittatore. La situazione degenerò provocando tumulti e il console Servilio, su incarico del senato, sollevò Celio Rufo dalla carica. Rufo si ritirò in Campania presso Milone il quale, unico esule non richiamato da Cesare, aveva raccolto una banda e stava saccheggiando Capua.
Rufo arrivò quando Milone era già stato sconfitto e un tribuno che lo aveva accompagnato per ordine di Servilio lo ricondusse a Roma. Rufo fuggì per tornare da Milone ma nel frattempo questi era morto, si recò quindi in Calabria dove fu ucciso dai partigiani di Cesare.
Cesare non si trovava a Roma ma i comportamenti di Antonio destavano molte preoccupazioni e non pochi Romani ritenevano di vivere gli inizi di una nuova monarchia.
Il tribuno Publio Cornelio Dolabella, oberato dai debiti, era passato dalla condizione di patrizio a quella di plebeo per poter ottenere il tribunato ed operare a favore dei debitori, i suoi contrasti con il tribuno Trebellio provocavano spesso disordini e scontri armati.
Ne approfittò Antonio per farsi autorizzare a tenere soldati entro le mura con il pretesto di mantenere l'ordine, quindi affidò la città a Lucio Cesare e partì per incontrare i soldati di Cesare che tornavano da Farsalo.
I due tribuni sospesero le ostilità soltanto per un breve periodo quando credettero che Cesare stesse rientrando a Roma. Tornato in città, Antonio cercò di risolvere la situazione prima schierandosi con Dolabella (che godeva del favore popolare) poi assumendo un comportamento neutrale ma favorendo segretamente Trebellio.
Gli scontri si fecero più duri e i sostenitori di Dolabella arrivarono ad erigere barricate contro Antonio ed i suoi soldati, ma tutti si placarono quando Cesare rientrò inaspettatamente a Roma.
Cesare non castigò i facinorosi, anzi perdonò Dolabella verso il quale si considerava debitore per favori ricevuti. Cesare si trattenne in Egitto per un certo periodo dopo la morte di Pompeo a causa dei disordini provocati dal giovane Tolomeo. Il dittatore, infatti, affascinato dall'avvenenza di Cleopatra, ne aveva preso le difese nella contesa familiare provocando l'ira del fratello di lei Tolomeo che aveva a sua volta suscitato una ribellione.
Per placare gli animi, Cesare fece valere il testamento del defunto monarca che stabiliva che Tolomeo e Cleopatra regnassero insieme , inoltre donò l'isola di Cipro a Arsinoe e Tolomeo Minore, fratelli dei primi due.
La pace durò poco perché l'eunuco Potino, amministratore dei beni reali, per muovere guerra a Cesare e Cleopatra si accordò con Achilla il quale si trovava a Pelusio e raccolse forze militari maggiori di quelle dei Romani. Quando marciò verso Alessandria Cesare chiamò truppe dalla sira e fortificò la reggia.
Achilla lo assediò provocando gravi danni in Alessandria fra cui l'incendio della biblioteca. Cesare fece uccidere Potino, intanto l'eunuco Ganimede riportava in Egitto Arsinoe e la proclamava regina convincendola a far sopprimere Achilla.
Assunto il comando Ganimede si scontrò con i Romani nel porto di Alessandria e stava per avere il sopravvento ma con un'azione improvvisa Cesare riprese il controllo della situazione.
Gli Egiziani inviarono a Cesare proposte di pace non sincere e quando ottennero la consegna del giovane Tolomeo attaccarono improvvisamente i Romani e il loro alleato Mitridate Pergameno, ma intanto erano giunti i rinforzi dalla Siria e Cesare combattè vittoriosamente conquistando l'Egitto.
Il vincitore consegnò l'Egitto a Cleopatra ma per evitare nuove ribellioni da parte degli Egiziani e condanne del suo comportamento da parte del senato romano fece sposare la regina con il fratello Tolomeo Mionore fingendo che la coppia avrebbe governato il paese mentre in realtà era la sola Cleopatra a regnare con l'appoggio del suo amante.
Cesare rimase in Egitto finché non fu costretto ad intervenire contro Farnace re del Bosforo Cimmerio e figlio di Mitridate che approfittando della guerra civile romana aveva conquistato la Colchide, l'Armenia e alcune città della Bitinia.
La prima azione di Cesare consistette nel mandare contro Farnace il suo luogotenente Gneo Domizio Calvino, ma quesi fu sconfitto e costretto a ritirarsi in Asia. Farnace proseguì la sua avanzata in Bitinia finché non seppe che Asandro, che aveva lasciato a governare il Bosforo, si era ribellato. Tornò quindi indietro per affrontarlo ma durante il tragitto si scontrò con Cesare che aveva deciso di intervenire personalmente. Sconfitto, fuggì verso il Bosforo ma fu bloccato ed ucciso da Asandro.
Cesare fu molto orgoglioso per la velocità con cui aveva sconfitto Farnace nello stesso giorno in cui era venuto in contatto con lui. Pacificò la regione e restituì i territori occupati da Farnace ai rispettivi sovrani.
Durante il viaggio di ritorno in Italia ed una volta giunto a Roma, Cesare raccolse enormi somme di denaro grazie a doni spontanei ma anche tramite esazioni, confische e prestiti forzati.
Guadagnò il favore popolare con opportuni provvedimenti sui prestiti e sugli interessi, premiò i suoi amici ed alleati con cariche, sodalizi e ricompense.
I soldati di Cesare stanziati in Campania, insoddisfatti dei premi ricevuti, minacciarono una ribellione e marciarono verso Roma. Sperando di intimorire il generale i soldati chiesero di essere congedati, certi che Cesare avrebbe accettato le loro richieste pur di non perdere le sue legioni, ma Cesare ricambiò astutamente dichiarando di concedere loro il congedo e promettendo di versare i compensi ancora dovuti.
Di fronte alla decisione di Cesare i soldati cambiarono atteggiamento e si dichiararono pronti a continuare a servire ai suoi ordini. Cesare allontanò i più facinorosi mandandoli in Africa, ad altri assegnò lotti di terreno ma tenne insieme il grosso delle sue truppe.
Sotto il consolato di Caleno e Vatinio (47 a.C.) Cesare passò in Africa sfruttando l'inverno per cogliere i nemici di sorpresa. In Africa Catone e Scipione guidavano i preparativi dei pompeiani. Con incursioni in Sicilia e Sardegna si procuravano rifornimenti di ogni genere.
Scipione ebbe il supremo comando militare con l'appoggio di Catone.
Catone garantì per la città di Utica, sospettata di simpatizzare per Cesare, salvanddola dall'ostilità degli altri comandanti e mantenne il controllo della città e del mare antistante.
Cesare sbarcò nei pressi di Adrumeto e marciò sulla città ma fu respinto, mise quindi il campo presso un'altra località non distante di nome Ruspina.



LIBRO XLIII

L'anno seguente (46 a.C.) Cesare fu contemporaneamente dittatore e console mentre Emilio Lepido fu suo collega nel consolato e capo della cavalleria.
In Africa Petreio e Labieno, pompeiani, attaccarono di sorpresa la cavalleria di Cesare riportando una vittoria. La situazione dei cesariani era difficile e probabilmente sarebbero stati sconfitti da Scipione se questi avesse ricevuto rinforzi da Giuba. Un evento inaspettato, tuttavia, giocò a favore di Cesare: un certo Publio Sizio, esule dall'Itallia che era diventato un generale di Bocco di Mauritania, approfittò dell'assenza di Giuba per saccheggiare il suo regno.
Giuba fu così costretto a tornare indietro per difendere la Numidia mandando a Scipione solo modesti aiuti. Cesare comunque non attaccò subito Scipione ma prese tempo attendendo rinforzi dall'Italia mentre i Getuli ed altre popolazioni locali passavano dalla sua parte. Ricevuti i rinforzi attaccò infliggendo gravi perdite a Scipione.
I pompeiani si barricarono nella città di Uzzitta invocando il soccorso di Giuba al quale promisero tutti i possedimenti romani in Africa.
L'arrivo di Giuba capovolse la situazione e fu di nuovo Cesare a trincerarsi chiamando ulteriori rinforzi. Ricevutili marciò verso Tapso per conquistarla.
I nemici sostarono sull'istmo che collega la città di Tapso alla terraferma per scavare trincee ma Cesare attaccò improvvisamente i soldati intenti al lavoro e rapidamente conquistò l'accampamento di Giuba. Il re numida fuggì ma quando seppe che le sue truppe erano state sconfitte anche da Sizio si fece uccidere insieme a Petreio.
Conquistata la Numidia, Cesare ne affidò il governo a Sallustio che commise saccheggi e rapine in modo vergognosamente contrario alle tesi affermate nei suoi trattati storici.
Anche Scipione fuggì e tentò di recarsi in Spagna, non riuscendovi si uccise.
Catone si rese conto che gli Uticensi non avrebbero combattuto contro Cesare, rifornì come poteva i suoi compagni che partivano ed esortò il figlio a consegnarsi a Cesare.
Cesare lo avrebbe certamente risparmiato ma Catone disprezzò il suo perdono e durante la notte si uccise pugnalandosi al ventre. Gli Uticensi gli tributarono pubbliche esequie e Cesare mandò liberi il figlio di Catone e quanti gli si consegnarono spontaneamente.
Fra i suoi nemici che si arresero era anche Lucio Cesare, su parente. Per evitare di condannarlo personalmente Cesare rinviò il processo, poi lo fece uccidere in segreto come spesso faceva in questi casi.
Inviate truppe in Spagna per combattere contro il figlio di Pompeo, Cesare tornò a Roma dove il senato gli aveva decretato il trionfo, la dittatura per dieci anni ed altri onori che egli accettò solo in parte.
Dione riporta, o immagina, un discorso pronunciato da Cesare in senato con cui il dittatore si sforzò di tranquillizzare tutti circa le sue intenzioni e dimostrò grande mitezza e tolleranza. Celebrò il trionfo per le sue vittorie ed offrì magnifici spettacoli, suscitando ammirazione per i suoi successi e timore per il potere raggiunto.
Cesare celebrò il trionfo, quindi elargì ricchi donativi ed inaugurò il suo Foro, un tempio di Venere (che voleva indicare come progenitrice della sua famiglia tramite Enea ed Ascanio detto Iulo) ed altri edifici pubblici, offrì quindi un lauto banchetto e molte giornate di giochi e spettacoli fra cui una battaglia navale che si svolse in un'area del Circo Massimo appositamente allagata. Tuttavia tanta magnificenza suscitò malcontento fra la popolazione e fra i soldati che disapprovavano lo sperpero di tanto denaro per futili motivi.
Emanò leggi in campo giudiziario, regolò le spese e limitò il potere dei governatori provinciali, ma la sua iniziativa legale più famosa fu la riforma del calendario con cui furono aggiunti 67 giorni intercalari per adeguare la durata dell'anno precedentemente basato sui cicli lunari.
In Spagna i figli e i seguaci di Pompeo facevano progressi mentre alcune città erano insore e i soldati romani agli ordini di Longino e Marcello si erano ribellati scegliendo come capi i cavalieri Tito Quinzio Scapula e Quinto Aperio.
Al suo arrivo in Spagna Gneo Pompeo fu accolto con entusiasmo in molte città, molti soldati cesariani passarono dalla sua parte e fu raggiunto dal fratello Sesto, da Varo e Labieno con la flotta.
Cesare inviò prima altri comandanti ma quando fu informato dei successi di Gneo Pompeo decise di intervenire personalmente. Gneo Pompeo non lo attese e fuggì verso la Betica mentre la sua flotta comandata da Varo veniva sconfitta dal cesariano Didio a Carteia presso lo stretto di Gibilterra. Cesare arrivò improvvisamente con pochi soldati ma Pompeo non abbandonò l'assedio della città di Ulia che aveva intrapreso.
Cesare puntò su Cordova per costringere Pompeo a lasciare Ulia, quindi assediò la città di Attegua dove si custodivano grandi riserve di grano e la espugnò rapidamente.
Questo successo di Cesare alienò a Pompeo molte alleanze e il giovane comandante, rendendosi conto che avrebbe dovuto affrontare il proprio destino, nonostante i presagi funesti marciò verso Munda per combattere in campo aperto.
Ricevette aiuti dal re di Mauretania Bocco ma il figlio di questi Bogua militava per Cesare.
La battagllia fu durissima e per molto tempo l'esito fu incerto; quando Bogua attaccò l'accampamento di Pompeo, Labieno corse contro di lui e la sua azione fu scambiata per una fuga, ciò scoraggiò i pompeioani che persero la concentrazione permettendo a Cesare di vincere la battaglia. Entrambi gli schieramenti subirono ingenti perdite.
Dopo la vittoria Cesare conquistò Cordova, Munda e altre città premiandole e punendole a seconda della posizione assunta durante la guerra. Gneo Pompeo tentò la fuga verso il mare ma fu ferito e si diresse verso l'interno ma imbattendosi in altri cesariani fu di nuovo sconfitto e finì di vivere mentre cercava rifugio in una foresta.
Finì così l'ultima guerra di Cesare e quella di Munda fu la sua ultima vittoria. Il dittatore celebrò di nuovo il trionfo e furono di nuovo indetti giochi, spettacoli e giorni di ringraziamento agli dei.
Per la prima volta il senato conferì il titolo di imperator non nell'antico significato di comandante supremo ma come titolo personale riconosciuto a vita e tramandabile agli eredi.
Da allora tutti i sovrani romani hanno avuto il titolo di imperator e quello di Cesare.
Ma se tutti questi onori furono soltanto atti di adulazione altri provvedimenti conferirono a Cesare la monarchia di fatto come il diritto di assegnare magistrature, l'amministrazione del denaro pubblico, il consolato per dieci anni.
Cesare accettò il consolato ma appena rientrato a Roma lo depose in favore di Quinto Fabio e Gaio Trebonio: era la prima volta che un console deponeva la carica di sua volontà. Rinunciò formalmente anche al diritto di nominare i magistrati ma in realtà fu lui a sceglierli e ad assegnare cariche e province.
Per mantenere le molte promesse fatte aumentò il numero dei pretori e dei questori e portò a novecento i membri del senato.
Ovviamente quanti furono beneficiati da Cesare ne furono soddisfatti ma la maggioranza provava indignazione e preoccupazione.
L'anno seguente Cesare fu dittatore per la quinta volta con Lepido come capo della cavalleria e console per la quinta volta con Antonio come collega. Fece ricollocare nel foro le statue di Silla e di Pompeo e iniziò la costruzione del teatro che in seguito fu completato da Augusto e dedicato a Marco Marcello.
Si mostrò molto generoso con i nemici vinti e con le loro famiglie mettendo in evidenza, per confronto, la crudeltà di Silla. Ricostruì Cartagine, Corinto e varie città italiane.
Si intrapresero grandi preparativi per una guerra contro i Parti e furono eletti magistrati per tre anni per evitare che in assenza di Cesare la città ne rimanesse prima.
Fra gli altri Cesare nominò pretore Publio Ventidio, già nemico di Roma, che era stato sconfitto da Pompeo Strabone ed aveva seguito il suo trionfo.



LIBRO XLIV

Nell'introdurre il libro in cui narrerà la morte di Cesare, Dione depreca l'azione di Bruto e Cassio e, da buon aristocratico, mostra posizioni fortemente antidemocratiche.
Cesare fu disprezzato da molti per gli eccessivi onori che accettò ma secondo l'autore la responsabilità fu anche dei senatori che glieli tributarono. Si trattava per lo più di onori formali come il diritto di vestire sempre l'abito trionfale e quello di presentare le spoglie opime al tempio di Giove Feretrio come se avesse ucciso un capo nemico con la sue mani.
Tutta l'adulazione tributatagli rese Cesare sempre più superbo e sempre più inviso a molti favorendo gli intenti dei congiurati.
Quando veniva chiamato "re" era costretto a respingere il titolo ma lo faceva con evidente rammarico. I tribuni della plebe Flavio Cesezio e Epidio Marullo provocarono la sua collera facendo togliere un diadema che qualcuno aveva posto sulla sua statua e, anche se in un primo momento dissimulò l'offesa, qualche tempo dopo privò i due della carica tribunizia e li fece espellere dal senato. Quando ad offrirgli la corona fu Antonio, Cesare la inviò al tempio di Giove, "unico re dei Romani", facendo verbalizzare il gesto e destando forti sospetti che la scena fosse stata preparata per dimostrare la sua modestia.
Gli avversari di Cesare presero a raccogliersi intorno a Marco Bruto e a spronarlo all'azione. Da parte sua Bruto, che pure aveva ricevuto benefici da Cesare, era nemico del dittatore ed era nipote e genero di Catone Uticense.
Sua moglie Porcia, si diceva, si era volontariamente ferita per dimostrare a Bruto la sua capacità di resistere alla tortura ed essere quindi ammessa fra i congiurati. A Bruto si unì Cassio e poi molti altri fra i quali Trebonio e Decimo Bruto.
Quando Cesare stava per partire verso la terra dei Parti si diffuse la voce che un oracolo ne suggeriva l'incoronazione e ciò spinse i congiurati a rompere ogni indugio.
Il giorno concordato Bruto e i suoi invitarono Cesare in senato ma il dittatore, preoccupato per alcuni presagi nefasti, esitava. Così Decimo Bruto che era in ottimi rapporti con Cesare, si recò da lui e lo convinse a seguirlo. Un indovino tentò di avvertire Cesare del pericolo ma non venne ascoltato.
Trebonio si occupò di tenere Antonio fuori dal senato mentre gli altri congiurati circondavano Cesare fingendo di voler conversare o presentare suppliche. A un segnale convenuto tutti piombarono su Cesare pugnalandolo da ogni lato. Il dittatore cadde coprendosi con il mantello, secondo alcuni disse a Bruto le parole "Anche tu, figlio mio?".
All'uccisione seguì immediatamente grande confusione e solo più tardi, vedendo che nessuno veniva ferito o arrestato, il popolo si calmò. In ogni caso i congiurati passarono la notte sul Campidoglio dove avrebbero potuto difendersi meglio in caso di pericolo.
Dolabella assunse il consolato di sua iniziativa, Lepido occupò il Foro e parlò contro i congiurati, Antonio (dopo aver passato la notte in un nascondiglio) convocò i senatori in un tempio e Cicerone pronunciò un importante discorso in senato sollecitando gli ascoltatori a cercare la concordia civile per garantire la pace e la sicurezza dello stato.
Dal Campidoglio i congiurati fecero discorsi rassicuranti impegnandosi a non revocare i decreti di Cesare per evitare agitazioni da parte di chi aveva ricevuto benefici dal dittatore.
Inizialmente anche Antonio si mostrò fautore della concordia per convincere Lepido (che disponeva di grandi risorse militari) ad adeguarsi ad un'evoluzione pacifica della situazione. A poco a poco la memoria di Cesare venne condannata mentre i suoi uccisori conquistavano il favore popolare, ma quando l'apertura del testamento dimostrò la generosità di Cesare verso la città e i suoi abitanti gli umori mutarono e si rischiò una rivolta.
Antonio ne approfittò e, presentando nel foro la salma di Cesare ancora insanguinata, pronunciò un famoso discorso.
Il lungo encomio di Antonio sortì l'effetto desiderato dal suo autore: quello di sollevare il popolo che rabbiosamente corse in cerca degli uccisori del dittatore dando luogo ad una strage. Fra gli altri fu ucciso il tribuno Elvio Cinna per errore in quanto fu confuso con Cornelio Cinna che aveva in effetti preso parte alla congiura.
I consoli presero varie disposizioni per impedire o contenere i disordini, come il divieto di portare armi per chi non era un militare, e vietarono che in futuro si elegesse di nuovo un dittatore comminando pene a chi lo avesse proposto.
Antonio ebbe l'incarico di prendere visione dei documenti di Cesare ed emise molte disposizioni a suo dire basate sulle volontà del defunto, si appropriò di grandi somme di denaro pubblico e dei privati facendo commercio anche di cittadinanza, libertà e favori.
Non si diede alcun pensiero di Ottaviano, che considerava troppo giovane ed inesperto per porsi come suo rivale e prese a comportarsi come se fosse stato l'erede materiale e spirituale di Cesare. Si preoccupò invece di Lepido che era ancora molto potente e volle far sposare la propria figlia Antonia con il figlio di Lepido al quale procurò anche il sommo sacerdozio. (In realtà si trattò solo di un fidanzamento, la notizia di Dione Cassio non è corretta).



LIBRO XLV

Gaio Ottaviano era figlio di Ottavio e di Azia, nipote di Cesare. Nacque a Velletri e rimasto orfano di padre crebbe con la madre che si risposò con Lucio Filippo.
La sua nascita fu preceduta da fausti presagi e il senatore Publio Nigidio Figulo, noto erudito, vaticinò che avrebbe assunto il potere assoluto. Lo zio Cesare, che non aveva figli, lo amava molto e quando divenne adolescente lo prese con se. Altri uomini famosi come Lutazio Catulo e Cicerone fecero sogni premonitori sul destino di Ottaviano e Giulio Cesare nutriva su di lui speranze sempre più grandi, perciò curò la sua educazione facendogli studiare le discipline politiche e militari.
Il giorno della morte di Cesare, Ottaviano era a Apollonia per i preparativi della spedizione contro i Parti. Attese di conoscere l'evolversi della situazione ma quando seppe di essere stato nominato erede e figlio del defunto dittatore sbarcò a Brindisi con molti soldati e prese il nome di Cesare.
Giunto a Roma vi entrò con pochi uomini e inizialmente mostrò di voler solamente riscuotere l'eredità evitando di entrare in contrasto con chiunque, anche con Antonio che pure aveva atteggiamento ostile nei suoi confronti.
Deciso ad ottenere il favore e l'appoggio popolare, Ottaviano richiese la carica di tribuno della plebe rimasta vacante dalla morte di Elvio Cinna.
I sostenitori di Antonio si opposero ma Ottaviano convinse il tribuno Tiberio Cannunzio a lasciarlo parlare al popolo del testamento di Cesare e dei donativi che intendeva distribuire. Offrì feste e spettacoli e mentre nel popolo si diffondeva l'idea della divinizzazione di Cesare, anche la popolarità di Ottaviano cresceva di conseguenza.
Antonio respinse un possibile accordo con Ottaviano, poi mutò pensiero e lo accolse ma in breve tempo i due, sempre reciprocamente sospettosi, litigarono ancora.
Antonio e i suoi fratelli Lucio (tribuno) e Gaio (pretore) riuscirono a distribuire le province a loro piacere. Gaio ottenne la Macedonia mentre Marco pretese la Gallia Cisalpina che era già stata assegnata a Decimo Bruto.
Intanto Sesto Pompeo, rimasto in Spagna dopo la battaglia di Munda, aveva raccolto i soldati scampati alla battaglia e volontari locali e di era impadronito della Betica. Trattò con Lepido ed accettò un accordo a patto di rientrare in possesso delle ricchezze del padre e Antonio autorizzò la transazione così che Sesto lasciò finalmente la Spagna.
Ottaviano si impegnò con tutti i suoi mezzi per reclutare un esercito assoldando a proprie spese molti veterani di Cesare ed altri soldati. Quando Antonio si schierò con Decimo Bruto che non voleva cedergli il governo della Gallia Cisalpina, Ottaviano si alleò con Decimo Bruto nonostante questi avesse partecipato alla congiura cesaricida.
A Roma erano in molti a parteggiare per Ottaviano, fra questi Cicerone che lo elogiò ripetutamente in senato per odio nei confronti di Antonio.
Gran parte del XLV libro di Dione è occupata da un lungo discorso con cui Cicerone denuncia al senato le numerose malefatte di Antonio e la sua evidente bramosia di prendere il potere per esercitarlo in modo tirannico. L'oratore respinge ogni proposta moderata ed insiste perché il senato dichiari subito Antonio nemico pubblico e muova guerra contro di lui.
Comparando questo discorso con le Orazioni Filippiche che Cicerone pronunciò fra il 2 settembre del 44 a.C. e il 21 marzo del 43 a.C., si nota che Dione Cassio ha raccolto in questo capitolo l'essenza di tali orazioni che costituiscono i momenti più drammatici dell'attività politica ciceroniana.


LIBRO XLVI

Il discorso di Caleno in risposta a Cicerone e in difesa di Antonio occupa esattamente la metà di questo libro (cap. 1 - 28). Si tratta di una lunga invettiva contro Cicerone con la quale Caleno, oltre a sfogare un evidente astio personale, tenta di togliere autorità e credibilità all'Oratore presentandolo come un riottoso sobillatore di disordini ed accusandolo di agire per interessi personali e non a vantaggio della cosa pubblica.
Stando a Dione, Cicerone non accettò le critiche e gli insulti di Caleno e rispose con altrettanta veemenza. Dopo due giorni di discussioni prevalsero i sostenitori di Ottaviano al quale vennero concessi onori e privilegi mentre ad Antonio fu ordinato di congedare le legioni e, rinunciando alla Gallia, partire per la provincia di Macedonia che gli era toccata per sorteggio.
Poco dopo il senato, dichiarato lo stato di pericolo, affidò ai consoli Aulo Irzio e Vibio Pansa, insieme ad Ottaviano che venne appositamente nominato pretore, il comando della guerra contro Antonio.
Per congedare le legioni Antonio chiese benefici per i suoi soldati e propose che Bruto e Cassio fossero nominati consoli. Il senato ovviamente respinse la proposta e dichiarò guerra ad Antonio.
Con il pretesto di punire un congiurato, Antonio assediava Decimo Bruto a Modena. In realtà voleva impadronirsi della Gallia e non si preoccupava della contraddizione di assediare Decimo Bruto mentre proponeva Bruto e Cassio per il consolato.
Ottaviano era impaziente di combattere ma i senatori e i consoli temporeggiavano e così fu costretto a svernare a Imola (Forum Cornelii), fece comunque in modo fi informare Decimo Bruto della sua presenza per evitare che si accordasse con Antonio.
Si verificarono diversi scontri e Antonio si trovò in vantaggio ma un attacco inaspettato da parte di Irzio lo sopraffece. Nello stesso periodo Ponzio Aquila, luogotenente di Decimo Bruto, sconfisse Lucio Munazio Planco generale di Antonio e diversi antoniani cominciarono a cambiare bandiera.
Incoraggiato da questi eventi, Ottaviano cercò lo scontro frontale con Antonio e quando l'ottenne la strage fu grande. Anche il console Irzio cadde in battaglia mentre Vibio morì poco dopo per le ferite, Antonio fu sconfitto e la guerra di Modena ebbe termine, tuttavia il senato non conferì a Ottaviano la desiderata carica di console nè altra ricompensa mentre fu premiato Decimo Bruto a dui venne, fra l'altro, affidato il comando generale degli eserciti (compreso quello di Vibio) e decretato il trionfo.
In questo modo ed anche distribuendo compensi non uguali ai suoi soldati, i senatori provocarono l'ira di Ottaviano che strinse alleanza con Antonio e Lepido. Dopo un ultimo tentativo di trattative senza risultato, i tre marciarono verso Roma con le loro legioni e i senatori, pur affrettandosi ad inviare il denaro richiesta dai soldati e a decretare il consolato per Ottaviano, non riuscirono a fermare la loro avanzata.
Quando l'esercito arrivò alle porte di Roma le modeste difese che senatori e pretori avevano preparato si arresero e Ottaviano entrò in città senza combattere. Poco dopo venne nominato console con un rito semplificato ed ebbe come collega Quinto Pedio.
I senatori assunsero un comportamento adulatorio nei confronti di Ottaviano e gli conferirono vari onori e privilegi, ratificarono la sua adozione da parte di Giulio Cesare ed egli da quel momento si chiamò ufficialmente Gaio Giulio Cesare Ottavinao.
Pagò i soldati e distribuì al popolo i lasciti di Cesare, quindi decise di punire i congiurati e varando una legge apposita diede inizio ad una serie di processi facendo condannare molte persone, in parte del tutto estranee all'uccisione del dittatore.
Fra i candidati furono anche Sesto Pompeo e il tribuno Punlio Servilio Casca che aveva violato la legge lasciando Roma mentre era ancora in carica e con questa accusa fu deposto ed esiliato. Furono numerose le delazioni ed i giudici emisero molte condanne per compiacere Ottaviano. Il senatore Silicio Corona votò apertamente per l'assoluzione di Bruto e non subì alcun danno ma in seguito fu proscritto e giustiziato.
Per qualche tempo Lepido aveva mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti di Antonio per evitare di prendere apertamente posizione ma si accordò con lui quando seppe che Antonio si era a sua volta riconciliato con Ottaviano. Per questa decisione fu dichiarato nemico pubblico e i senatori affidarono a Ottaviano il compito di combatterlo ignorando i loro accordi. Ottaviano finse di accettare l'incarico ma evitò di marciare contro Lepido ed Antonio (che erano più forti di lui) ed anzi cercò di farsi mediatore presso il senato.
Intanto Decimo Bruto lasciava la Gallia per raggiungere Bruto in Macedonia ma, abbandonato dai suoi soldati, fu catturato e si uccise.
In base ad una proposta presentata da Quinto Pedio (ma in realtà formulata da Ottaviano) il senato concesse ad Antonio e Lepido la possibilità di rientrare a Roma. I due incontrarono Ottaviano presso Bologna e, accantonando gli odi personali per essere più potenti, costituirono l'intesa che fu detta secondo triumvirato.
I triumviri si accordarono in modo da non evidenziare le loro mire al potere assoluto, si definirono curatori e correttori degli affari dello stato, si autonominarono per cinque anni e ripartirono fra loro le province: a Ottaviano la Libia, la Sardegna e la Sicilia, a Lepido la Spagna e la Gallia Cisalpina, a Antonio il resto delle Gallie.
A Lepido fu assegnata la difesa di Roma e dell'Italia, a Ottaviano e Antonio la guerra contro Bruto e Cassio. Per suggellare l'accordo Ottaviano sposò Claudia (Clodia Pulcra), figliastra di Antonio.


LIBRO XLVII

I triumviri entrarono in Roma e vi portarono terrore e proscrizioni, senato e popolo mostravano per paura di approvare ed apprezzare le loro decisioni. Riapparvero quelle stragi - scrive Dione - che si erano viste per le proscrizioni di Silla, e tutta la città si riempì di cadaveri.
Fra i tre esisteva un particolare accordo per cui non potevano vendicarsi di un nemico che fosse amico di uno dei colleghi senza dare in cambio un altro uomo, perciò furono condannate a morte anche molte persone che avevano legami personale con uno dei triumviri perché questi agivano sempre senza alcun riguard per parentele o amicizie. Quando il proscritto era una persona importante o era parente di uno dei triumviri, il suo "prezzo" aumentava e per ottenere la sua morte l'accusatore doveva permettere l'uccisione di più persone. Fra le vittime delle proscrizioni furono anche tutti gli uomini più ricchi che i triumviri condannavano per poter sequestrare le loro sostanze.
Sembra che Ottaviano partecipò a queste violenze solo quando vi fu costretto dai colleghi e non infierì sulle vittime, essendo molto giovane non aveva avuto modo di procurarsi molti nemici e del resto era di indole mite.
Anche Lepido non si comportò in modo eccessivamente malvagio ma il vero responsabile della strage fu Antonio che non si accanì solo contro gli iscritti alle liste di proscrizione ma anche contro chi tentava di aiutarli.
Aveva come compagna nelle sue azioni crudeli la moglie Fulvia e quando videro la testa mozzata di Cicerone i due coniugi sfogarono il loro odio scagliando ingiurie e Fulvia volle bucare la lingua dell'oratore con uno spillone.
Dione racconta una serie di episodi relativi ai caduti di quel periodo o a coloro che si salvarono, a delazioni o a generosi gesti di coraggio come quello del figlio di Quinto Cicerone che aveva nascosto il padre e subì la tortura senza tradirlo finché il padre stesso non si consegnò spontaneamente ai suoi assassini.
Molti erano fuggiti presso Bruto e Cassio ma ancora più numerosi erano quelli che si erano rifugiati presso Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, che aveva raccolto una flotta ed occupato la Sicilia e dava ogni possibile aiuto ai proscritti.
Oltre alle uccisioni i triumviri commisero ogni sorta di abuso impadronendosi delle ricchezze dei proscritti ma anche di molte persone non presenti nelle liste di proscrizione, eseguendo sequestri immotivati e distribuendo le cariche come preferivano.
Quinto Pedio morì e Ottaviano rinunciò al consolato, al loro posto vennero nominati Publio Ventidio e Gaio Carrina. Quando entrarono in carica Marco Lepido e Lucio Planco furono esposte altre liste di proscrizione che non contenevano più condanne a morte ma molte confische per sostenere le spese militari. In sintesi la popolazione civile fu estremamente impoverita da questo periodo mentre i soldati si arricchirono con mezzi leciti ed illeciti-
Furono tributati onori inusitati alla memoria di Cesare promuovendone la divinizzazione, idea che ben si accordava con il regime monarchico che i triumviri (e Ottaviano in particolare) intendevano instaurare.
Bruto e Cassio, con il pretesto di prendere possesso delle province loro assegnate (Creta e Bitinia) partirono per l'oriente ma giunti in Grecia Cassio si diresse in Siria e Bruto in Macedonia dopo essersi assicurato senza difficoltà il controllo della Grecia.
Quinto Ortensio, governatore uscente della Macedonia, si unì a Bruto il quale affrontò e catturò Gaio Antonio che si trovava in Apollonia. Gaio Antonio non subì alcuna offesa ma fu allontanato in incognito dalla regione.
Il senato confermò a Bruto il governo della regione ma Bruto seppe che Ottaviano era sempre più potente ed intendeva attaccarlo, quindi si dedicò ad organizzare le difese. Passato in Asia Bruto si procurò vari alleati fra cui Deiotaro re della Galazia.
Antonio tentò di liberare il fratello Gaio che in questo frangente venne ucciso, forse per ordine di Bruto.
Gellio Poplicola preparò insidie contro Bruto e Cassio e fu scoperto ma non fu punito perché fratello di Messalla Corvino che era molto amico di Cassio.
Tornato in Europa Bruto combattè contro i Bessi in Tracia e li sconfisse con l'aiuto di un principe locale di nome Rasciporide. Intanto anche Cassio in Siria e Cilicia raccoglieva alleanze e risorse.
La Siria era governata da Sesto Giulio, parente di Cesare. Il pompeiano Cecilio Basso che dopo Farsalo era fuggito a Tiro riuscì ad organizzare un esercito con molti suoi compagni di partito ed attaccò Sesto ma fu sconfitto, tuttavia in seguito Basso riuscì ad uccidere Sesto tramite sicari, si impadronì della provincia e si mise a capo dell'esercito. Basso fu a sua volta attaccato da Gaio Antistio che poteva contare su aiuti mandati da Ottaviano, dal principe Alcandonio l'Arabo e dai Parti.
Cassio unì alle sue forze l'esercito di Basso e scrisse al senato che gli confermò il governo della Siria e gli affidò il comando della guerra contro Dolabella che, governatore della provincia d'Asia, aveva attirato Trebonio a Smirne e lo aveva ucciso a tradimento.
Dolabella invase la Siria ma fu bloccato da Cassio e assediato a Laodicea, vistosi perduto si uccise insieme al suo luogotenente Marco Ottavio.
Bruto dovette combattere contro la Licia, vinse e alcune città si unirono a lui più o meno spontaneamente. Intanto Gaio Norbano e Decidio Saxa, legati del triumvirato, avevano attraversato lo Ionio e stabilito il campo dell'esercito presso Filippi in Tracia.
I due legati occuparono un passo montano molto stretto ma Bruto e Cassio evitarono l'ostacolo scegliendo un altro percorso ed arrivarono ad occupare il Monte Simbolo togliendolo a Norbano e Saxa. Questi, disponendo di forze minori di quelle avversarie, non osarono attaccare battaglia ma si limitarono ad azioni difensive mentre sollecitavano l'intervento di Ottaviano e di Antonio che erano trattenuti in Italia dalla guerra contro Sesto Pompeo.
Ottaviano si ammalò e sostò a Durazzo, ma poco dopo, per timore di perdere il controllo della situazione, si affrettò a raggiungere Antonio riunendo tutte le forze del triumvirato in un unico campo posto di fronte a quello di Bruto e Cassio.
Ottaviano e Antonio erano ansiosi di combattere perché preoccupati da ciò che avrebbe potuto fare Sesto Pompeo in loro assenza mentre Bruto e Cassio che volevano evitare una strage fra connazionali cercavano di rimandare nella speranza di evitare uno scontro o di ridurne la violenza ma i loro soldati e i loro alleati insitevano per concludere rapidamente la guerra e li costrinsero a scendere in campo.
Secondo Dione quella di Filippi fu la battaglia più importante combattuta dai Romani nelle guerre civili perché in questa occasione i Romani non furono vincitori o vinti ma persero la libertà e la democrazia mentre l'unico vincitore era Ottaviano, del resto l'evento era inevitabile secondo l'autore perché una vera democrazia non può mantenere il suo corso sereno e tranquillo quando è pervenuta ad un così alto grado di potenza.
Senza aver preso accordi preliminari i due eserciti si schierarono all'alba e dopo i discorsi dei comandanti fu dato il segnale e la battaglia ebbe inizio.
Dione non descrive le fasi della battaglia, le manove, le decisioni dei comandanti, ma insiste sull'impeto dei combattenti, sulla violenza dello scontro e sugli aspetti più tragici della guerra civile.
Il risultato della battaglia non fu chiaro e in linea di massima si può affermare che Bruto sconfisse Ottaviano e Antonio sconfisse Cassio ma al termine dei combattimenti tutti erano confusi e nessuno aveva un quadro preciso della situazione.
L'accampamento di Ottaviano e Antonio era stato conquistato ed anche Cassio aveva perso il suo. Disorientato e convinto che Bruto fosse morto, Cassio ordinò ad un liberto di ucciderlo.
Bruto, rimasto solo al comando dei soldati superstiti decise di non cercare di nuovo il confronto con il nemico perché sapeva che anche Ottaviano e Antonio erano in difficoltà per carenza di rifornimenti ma di nuovo l'impazienza delle sue truppe lo costrinse a combattere. Questa volta Ottaviano e Antonio vinsero nettamente, Bruto cercò un rifugio ma vedendo che molti suoi soldati passavano al nemico si uccise.
Morto Bruto i vincitori concessero l'impunità ai suoi soldati e li unirono al loro esercito.
Porcia, figlia di Catone Uticense e moglie di Bruto, si uccise ingoiando un carbone ardente. I cesaricidi superstiti e gli altri avversari del triumvirato si suicidarono o furono giustiziati come Favonio.


LIBRO XLVIII

Sconfitti Bruto e Cassio, Ottaviano e Antonio presero ad emarginare Lepido, ridivisero le province (a Ottaviano la Spagna e la Numidia, a Antonio la Gallia e l'Africa) e ridistribuirono fra loro legioni e incarichi.
Il senato decretò grandi onori per i vincitori di Filippi mentre a Roma dilagava la paura che al loro ritorno riprendessero le proscrizioni nonostante le rassicurazioni che Ottaviano scrisse ai senatori.
Vennero eletti consoli Publio Servilio e Lucio Antonio, ma dietro le quinte Fulvia, moglie di Antonio, esercitava una grande autorità.
Mentre Antonio si tratteneva in Asia, Ottaviano veniva rapidamente in contrasto con Lucio e Fulvia per divergenze sulla distribuzione dei terreni ai veterani. Il console e la cognata presero allora a difendere gli interessi dei proprietari terrieri che subivano gli espropri ordinati da Ottaviano il quale divenne impopolare e si trovò in difficoltà anche per la grande carenza di cibo che affliggeva la popolazione. Sesto Pompeo, infatti, dominando il mare di Sicilia, impediva i riferimenti e altrettanto faceva nello Ionio Gneo Domizio Enobarbo, un congiurato che si era procurato una flotta e ancora combatteva.
Il problema dell'assegnazione dei terreni creò vari disordini e contrasti fra popolo e militari con scontri, feriti ed uccisi da ambo le parti mentre Ottaviano, in difficile equilibrio, cercava di non farsi odiare da nessuno.
Dopo vari tentativi di trattare con Lucio e Fulvia personalmente, tramite i soldati o i senatori, Ottaviano decise di coinvolgere i veterani che vennero a Roma in gran numero e si proclamarono arbitri della situazione nel rispetto degli accordi stipulati fra Ottaviano e Antonio. I veterani convocarono le parti a Gabii ma Lucio e Fulvia non si presentarono e i veterani decisero di sostenere la causa di Ottaviano.
Aperte le ostilità, Ottaviano penetrò in Umbria e combattè a Nursia e Sentino contro i soldati di Lucio Antonio e contro la popolazione, mentre le due città venivano conquistate Lucio Antonio partiva da Roma diretto nella Gallia Cisalpina ma Ottaviano lo bloccava e lo assediava a Perugia.
L'assedio fu lungo ma alla fine gli antoniani si arresero per fame. Lucio Antonio riuscì a fuggire con una parte dei suoi mentre molti furono giustiziati, Perugia fu devastata e data alle fiamme ad eccezione di alcuni templi. Si era sotto il consolato di Gneo Calvino e Asinio Pollione.
Dopo la caduta di Perugia il potere di Ottaviano aumentò e molti decisero di lasciare Roma per andare presso Marco Antonio o Sesto Pompeo. Fra questi esuli volontari fu Tiberio Claudio Nerone con la sua famiglia: Livia Drusilla (futura moglie di Ottaviano) e il futuro imperatore Tiberio.
Ottaviano temeva che le trattative di alleanza fra Sesto Pompeo e Marco Antonio che la madre del secondo, Giulia, stava curando andassero in port costringendolo ad affrontare insieme i due avversari, così decise di cercare l'amicizia di Sesto Pompeo mandando da lui la madre Mucia e sposando Scribonia cognata di Sesto.
Sesto Pompeo aveva lasciato la Spagna in base all'accordo raggiunto con Lepido ed aveva sperato di poter tornare pacificamente a Roma ma quando aveva saputo di essere stato inserito nelle liste di proscrizione aveva cominciato a preparare la guerra e, conquistata Messina, Siracusa ed altre città siciliane, aveva allestito una flotta molto potente. Ottaviano aveva tentato di attaccarlo in Sicilia ma il suo comandante Salvidieno Rufo era stato sconfitto durante il passaggio dello stretto.
Dopo Filippi molti seguaci di Bruto e Cassio passarono a Pompeo, fra cui l'ufficiale Lucio Stazio che comandava quanto rimaneva della flotta; Sesto lo accolse con entusiasmo, ma più tardi lo fece uccidere con l'accusa di tradimento.
Ottaviano non riuscì a trattare con Sesto Pompeo ed affidò il comando della guerra contro di lui a Marco Vipsanio Agrippa.
La Numidia era governata da Tito Sestio sostenitore di Antonio mentre la provincia d'Africa (Tunisia + Libia) da Cornificio e da Decimo Lelio che erano dalla parte di Ottaviano. Tito Sestio, dopo varie azioni militari, riuscì ad occupare la provincia d'Africa ma quando con la nuova ripartizione questa provincia fu assegnata a Ottaviano, Sestio dovette cederla al nuovo governatore Gaio Fofio Fangone. Più tardi, tuttavia, per ordine di Fulvia attaccò Fangone che dopo una lunga guerra prevedendo la propria sconfitta si uccise. Così Sestio ebbe il controllo delle due province fino all'arrivo di Lepido che ne assunse il governo.
Intanto in Asia Minore Antonio conobbe Cleopatra e se ne innamorò, affidò la provincia d'Asia a Planco, quella di Siria a Decimo Saxa e partì per l'Egitto.
Quinto Labieno, sostenitore di Bruto e Cassio, dopo Filippi era rimasto presso i Parti dove si era reccato per chiedere aiuto. Venuto a conoscenza del comportamento di Antonio persuase il re dei Parti Orode a far guerra ai Romnani che in quel momento si presentavano più deboli ed ottenne, insieme a Pacoro figlio del re, il comando di un forte esercito con il quale invase la Fenicia, uccise Saxa e conquistò Apamea.
Pacoro conquistò tutta la Siria, quindi invase la Palestina dove depose Irvano ed affidò il potere a Aristobulo, fratello di Ircano, che era notoriamente antiromano. Labieno ottenne rapidamente un vasto dominio e molte ricchezze frutto dei saccheggi e si proclamò Imperator e Parthicus.
Antonio, pur consapevole di questi eventi e di quanto accadeva in Italia, continuava a dedicarsi ai piaceri dell'Egitto senza intervenire. Quando infine fu costretto ad agire si portò nei pressi di Tiro ma ne ripartì con il pretesto della guerra contro Pompeo mentre giustificava la sua passività verso quest'ultimo con la guerra contro i PartiParti e di fatto non agiva in alcun modo. Giunse infine in Grecia dove si riunì con la madre e la moglie e dichiarò guerra a Ottaviano.
Gli scontri si svolsero a Sicione dove Antonio sconfisse Publio Servilio Rullo inviato da Ottaviano e a Brindisi dove fu sconfitto da Agrippa.
In quel periodo morì Fulvia e i due contendenti giunsero ad um accordo per allearsi contro Sesto Pompeo. Questi era tornato in Italia per portare avanti le trattative di alleanza con Antonio ma quando seppe dei nuovi accordi si affrettò a tornare in Sicilia affidando al liberto Mena una parte della flotta ed il compito di saccheggiare varie località della penisola.
Durante le sue imprese Mena catturò Marcio Tizio che aveva raccolto una flotta per procurarsi potere personale, ma non gli fece del male perché il padre era nell'esercito di Sesto Pompeo, tuttavia più tardi Tizio immemore del beneficio ricevuto uccise Mena.
Mena passò quindi in Sardegna dove sconfisse il governatore Marco Lurio e conquistò l'intera isola.
Pressati dall'impazienza popolare di concludere la pace, Ottaviano ed Antonio furono costretti ad avviare trattative con Sesto Pompeo. Sesto, accompagnato dall'intera flotta giunse a Capo Miseno per trattare con i triumviri che avevano schierato un'esercito lungo la costa. Chiaramente le parti si temevano a vicenda e trattavano solo per necessità.
Si giunse ad un accordo che prevedeva l'amnistia per tutti i disertori ed oppositori dei triumviri, Sesto Pompeo avrebbe tolto i presidi militari ed ottenuto le cariche di console e di augure oltre al governo di Sicilia, Sardegna e Grecia per cinque anni.
Antonio tornò in Grecia e inviò Ventidio a combattere contro i Parti e contro Labieno. Ventidio ottenne una vittoria e Labieno fuggì in Cilicia dove più tardi fu catturato da un agente di Antonio. Il vincitore prese il governo della Cilicia, quindi si impadronì della Siria e della Palestina.
In Spagna i Cerretani si ribellarono e furono vinti da Calvino il quale in seguito punì un momento di insubordinazione dei suoi soldati con la decimazione e, tornato a Roma, celebrò il trionfo benché non fosse il governatore della Spagna (che era Ottaviano) ma il suo luogotenente.
Ottaviano sposò Livia Drusilla, figlia di Livio Druso Claudiano, che si era ucciso dopo Filippi, già sposa di Tiberio Claudio Nerone. La donna era incinta e dopo qualche mese partorì il Claudio Nerone Druso che Ottaviano mandò al padre.
In quel periodo il re della Mauretania Bogua rentò di invadere la Spagna e fu sconfitto ma non potè tornare in patria a causa di una ribellione e si rifugiò presso Antonio. Bocco occupò il suo regno con l'assenso di Ottaviano.
Mena tradì Sesto Pompeo e passò a Ottaviano che lo accolse molto volentieri e rifiutò di riconsegnarlo a Sesto. Questi eventi furono il pretesto per riaprire le ostilità e annullare l'accordo che le parti si accusavano reciprocamente di non aver rispettato.
In una prima battaglia presso Cuma Ottaviano fu sconfitto ma Sesto Pompeo perse il liberto Menecrate al quale aveva affidato il comando dopo la defezione di Mena. Mentre Ottaviano si preparava a sbarcare in Sicilia fu ripetutamente aggredito dalle navi nemiche, questa volta comandate da Apollofane, e costretto a tornare a terra. Il giorno seguente entrambe le flotte subirono molte perdite a causa di un vento eccezionale e Ottaviano rinunciò a sbarcare in Sicilia.
Da allora per quasi due anni Ottaviano si dedicò a raccogliere fondi e a reclutare marinai per combattere Sesto Pompeo. Affidò ad Agrippa l'incarico di allestire una nuova flotta e Agrippa oltre alla costruzione delle navi curò un'opera straordinaria: la realizzazione del porto di Miseno che fu ricavato da un'insenatura naturale in Campania. Completato il porto Agrippa vi raccolse la navi, che provenivano da cantieri di tutta la penisola, e i rematori dei quali curò l'addestramento.
Dione Cassio descrive anche le sorgenti calde di Baia ed il relativo complesso termale che si trovavano nei pressi del porto. Antonio tornò per qualche tempo in Italia ma non collaborò con Ottaviano nella guerra contro Sesto Pompeo. Anzi una lite fra i due fu evitata solo grazie all'intervento di Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio.
Per migliorare i rapporti la figlia di Ottaviano fu fidanzata ad Antillo figlio di Antonio e Antonio promise la figlia avuta da Ottavia a Domizio Enobarbo benché fosse uno degli uccisori di Cesare.
Prima che Antonio ripartisse rinnovarono il governo per altri cinque anni.



LIBRO XLIX

Ottaviano salpò da Baia alla volta della Sicilia per combattere contro Sesto Pompeo, con la collaborazione di Agrippa, Marco Antonio e Lepido.
Doppiando Capo Palinuro rischiò il naufragio a causa di una tempesta e subì un attacco da parte di Mena, aiutante di Sesto Pompeo che, tuttavia, si lasciò comprare con la promessa di impunità e di altri guadagni.
Giunto a Lipari, Ottaviano sostò in attesa dell'occasione migliore per trasferire la fanteria dal continente alla Sicilia.
Anche Sesto Pompeo temporeggiò. Entrambi i rivali sottovalutavano la forza del nemico e solo al momento dello scontro si resero conto di quanto fosse impegnativa la lotta che stavano affrontando. Combatterono tutto il giorno, controbilanciando la tecnica guerresca e la disciplina dei soldati di Ottaviano il coraggio ribelle e la maggior esperienza marinara degli uomini di Sesto. Solo dopo il tramonto la flotta di Ottaviano prevalse.
Subito dopo Sesto si riorganizzò ed attaccò di nuovo a Messina e questa volta mise in difficoltà Ottaviano costringendolo a riparare sul continente e a separarsi dalla sua fanteria che, nel frattempo, era passata in Sicilia.
Il comandante della fanteria di Ottaviano, tale Cornificio, per non rimanere isolato decise di marciare verso Milazzo, che raggiunse non senza gravi difficoltà, scontri e perdite di uomini per ricongiungersi alla flotta di Agrippa.
Dopo qualche tempo le due flotte vennero allo scontro decisivo (Nauloco 36 a.C.) e le forze di Pompeo furono definitivamente distrutte. Abbandonato dai pochi superstiti, Sesto Pompeo decise di fuggire e vi riuscì anche perché Ottaviano era alle prese con Lepido che, ribellatosi agli accordi del triumvirato, pretendeva il governo della Sicilia, ma assediato dalle superiori forze di Ottaviano fu costretto ad arrendersi e a presentarsi al rivale in veste di supplice.
A questo punto serpeggiò la ribellione fra i soldati di Ottaviano i quali, intuendo la prossima guerra contro Antonio, cercavano di sfruttare la situazione per ottenere maggiori compensi. Ottaviano resistette a lungo, infine calmò le truppe congedando i più anziani, elargendo gratifiche e promettendo terreni.
Tornato a Roma, Ottaviano festeggiò la vittoria e gli vennero offerti molti onori fra i quali la carica di pontefice massimo che era detenuta da Lepido. Ottaviano rifiutò quella carica in quanto non sussistevano motivi formalmente validi per toglierla a Lepido.
Nel frattempo Sesto Pompeo fuggiva verso l'Asia cercando di raggiungere Antonio. A Lesbo apprese che Antonio era partito per una spedizione militare contro i Medi e decise di trascorrere l'inverno sull'isola. Quando seppe che Antonio era stato sconfitto dai Medi progettò di assumere il comando di qualche provincia asiatica ed intavolò una trattativa con i Parti. Poco dopo, però, dal momento che Antonio si preparava a muovere contro di lui fuggì a Nicomedia, poi in Frigia dove venne catturato vivo da Marco Tizio, un ufficiale di Antonio. Sembra che Antonio inviò prima l'ordine di ucciderlo poi, pentitosi, scrisse un altro messaggio in cui revocava l'ordine precedente ma il secondo dispaccio giunse troppo tardi e Sesto venne eliminato.
Il generale Publio Ventidio, uno degli ufficiali di Antonio, venne a sapere che il principe dei Parti Pacoro intendeva attaccare la Siria. Con uno stratagemma Ventidio venne a conoscere i dettagli del piano di Pacoro, riuscì ad attirarlo sul terreno a lui favorevole e lo sconfisse. Pacoro cadde nella battaglia, dopo di che Ventidio riuscì rapidamente a sottomettere tutta la Siria, quindi mosse contro il re Antioco di Commagene che aveva aiutato i Parti in ritirata. Antonio, geloso del successo di Ventidio, gli tolse il comando delle operazioni assumendolo personalmente ed assediò il re Antigono a Samosata. Poichè l'assedio si protraeva senza risultati, Antonio venne ad un accordo con Antioco e tornò in Italia lasciando in Siria Gaio Sossio. Questi sottomise gli Aradii e sconfisse a Gerusalemme il re Antigono. Antonio ordinò l'uccisione di Antigono e consegnò ad Erode il governo della Giudea (38 a.C.).
Intanto il re dei Parti Orode, padre di Pacoro, era morto lasciando il regno al figlio Fraate. Questi con la sua crudeltà spinse molti sudditi a lasciare il paese, alcuni di loro si unirono ad Antonio. Le armate di Antonio, al comando di Publio Canidio Crasso, raccolsero alcune vittorie contro piccolo popolazioni asiatiche che si erano ribellate. Antonio, incoraggiato da questi successi e confidando nella collaborazione di un certo Monese, un parto che si era unito a lui abbandonando Fraate, decise di portare di nuovo la guerra contro i Parti. Monese però, ricevute consistenti offerte da Fraate, decise di lasciare Antonio e di ripassare dalla parte del suo paese.
Antonio decise allora di attaccare prima il re dei Medi Artavasde, alleato dei Parti, e lo assediò nella sua residenza di Praaspe. L'assedio si presentò lungo e difficile ed intanto Medi e Parti attaccarono un contingente di Romani rimasto indietro e lo annientarono. La situazione per i Romani si fece intollerabile: le truppe erano a corto di cibo e soffrivano frequenti perdite per gli attacchi del nemico. Alla fine Antonio decise di togliere l'assedio e di attraversare direttamente l'Armenia, ma anche la marcia in quelle regioni sconosciute fu durissima ed irta di pericoli. Un'imboscata subita dai Romani e la loro strategia di difesa e di attacco forniscono a Dione l'occasione per descrivere la "testuggine", il compattissimo schieramento che i legionari formavano inginocchiandosi e coprendosi sopra la testa ed ai quattro lati con gli scudi.
L'inverno rese la situazione ancora più grave ed Antonio, benché adirato con il re di Armenia che non lo aveva aiutato, fu costretto a trattare con lui per ottenere il permesso di far svernare i suoi uomini in territorio armeno. (nota: il re di Armenia si chiamava Artavasde come quello dei Medi, del quale era nemico). Dopo aver elargito una gratifica ai soldati con i fondi inviati in prestito da Cleopatra, Antonio partì per l'Egitto.
Intanto a Roma giungevano per vie non ufficiali notizie degli insuccessi di Antonio il quale veniva molto biasimato anche per i suoi rapporti con Cleopatra e per i territori che le aveva donato.
L'anno seguente l'intesa fra Medi e Parti fu infranta ed il re dei Medi propose ad Antonio amicizia ed alleanza. Antonio fu lieto di accettare e cercò, senza successo, di attirare in trappola il re di Armenia invitandolo in Egitto.
In quel periodo Ottaviano si portò in Sicilia con l'intenzione di imbarcarsi per la Libia, ma la notizia di insurrezioni da parte delle popolazioni dell'Istria lo convinse a cambiare programma. Dovette inoltre vincere una rivolta scoppiata in alcuni reparti di soldati.
Ottaviano combattè gli Iapidi assediando le città fortificate di Metulo i cui abitanti, dopo una strenua difesa, si suicidarono in massa. Quindi Ottaviano marciò contro i Pannoni. A questo punto Dione, che ricorda di aver personalmente retto il governo della Pannonia per un certo periodo, compie un'interessante digressione per descrivere quella regione.
Il nome che i Romani avevano dato ai Pannoni derivava dalle loro lunghe tuniche di stoffa, loro abito tradizionale. Dione rivela una cera simpatia per questo popolo povero e fiero, costretto dai rigori del clima a vivere con risorse molto esigue.
Ottaviano, che sperava di invadere la zona senza difficoltà, si trovò di fronte ad un'inattesa resistenza e fu costretto ad assediare la città di Sischia. L'assedio non era facile a causa delle mura robuste e dei due fiumi (Colope, forse l'odierno Kulpa, e Sava) che circondavano la città.
Ottaviano fece costruire delle imbarcazioni e si misurò con il nemico in alcune battaglie navali svoltesi nel corso del fiume Sava. Alla fine i Pannoni si arresero e furono conclusi dei trattati di pace.
Tornato a Roma, Ottaviano rinviò il trionfo. Poco dopo si ribellarono i Dalmati, che furono sconfitti da Ottaviano e da Agrippa, non senza difficoltà. Durante questi scontri Ottaviano fu ferito.
Nominato console, Antonio rinunciò alla carica e fu sostituito da Lucio Sempronio Atratino. Volendo vendicarsi del re di Armenia, Antonio fece di tutto per attirarlo in una trappola, gli promise doni e gli chiese la figlia per farla sposare a suo figlio Alessandro. Quando riuscì a catturarlo cominciò l'opera di conquista dell'intera Armenia. Quindi Antonio tornò in Egitto portando con se il re di Armenia ed i suoi familiari come schiavi e ne fece dono a Cleopatra. Antonio celebrò sfarzosamente la propria vittoria in Egitto e promise a Cleopatra ed ai suoi figli territori sottomessi dai Romani. A Roma l'opinione pubblica era turbata da questi comportamenti ed Ottaviano cercava di sfruttare la situazione.
In quel periodo Agrippa, che deteneva la carica di edile, conquistava grande popolarità finanziando a proprie spese importanti lavori pubblici, come la riparazione e l'ampliamento dell'Acqua Marcia e la sistemazione delle cloache.
Ottaviano, dal canto suo, con il ricavato del bottino preso ai Dalmati fece costruire il nuovo portico che dedicò alla sorella Ottavia. Antonio strinse un'allenza con il re dei Medi, la cui figlia Iotape sposò Alessandro, figlio di Antonio. Quindi Antonio si trasferì in Grecia per prepararsi a combattere contro Ottaviano.

LIBRO L

Ben presto Ottaviano ed Antonio arrivarono alla lite. Antonio accusava Ottaviano di aver eliminato Lepido e di essersi arbitrariamente impossessato dei suoi domini. Ottaviano accusava Antonio di aver compiuto diversi abusi ma, soprattutto, basava la sua propaganda sulla "scandalosa" relazione del rivale con la regina Cleopatra. Quando due uomini molto vicini ad Antonio, Tizio e Planco, passarono ad Ottaviano gli svelarono il contenuto del testamento di Antonio. Il documento conteneva l'evidenza della passione di Antonio per Cleopatra: Antonio riconosceva che Cesarione, nato da Cleopatra, era figlio di Cesare; faceva ricchi lasciti ai figli avuti da Cleopatra e disponeva di essere sepolto ad Alessandria. Ottaviano non esitò a leggere il documento in Senato, facendo scoppiare un vero e proprio scandalo che distrusse l'immagine pubblica di Antonio. Il Senato esonerò Antonio da tutte le sue cariche e dichiarò guerra a Cleopatra.
Ottaviano continuò a screditare pesantemente il rivale accusandolo di essere caduto completamente sotto la volontà di Cleopatra e di aver adottato costumi stranieri. Accusava inoltre Cleopatra di aver ammaliato Antonio usando anche arti magiche e di mirare a sottomettere Roma.
Dalla parte di Ottaviano stavano l'Italia, la Sicilia, la Sardegna e le province di Gallia, Spagna, Illirico e Libia. Antonio aveva dalla sua le province asiatiche, la Tracia, la Grecia, Cirene e, ovviamente, l'Egitto.
In quell'anno il consolato sarebbe dovuto toccare ad Ottaviano e Antonio secondo un trattato firmato nel 39 che pianificava le cariche per otto anni. Tuttavia Antonio era stato, come si è detto, bandito dalle cariche pubbliche, così furono nominati consoli Ottaviano e Valerio Messalla. Dopo un inverno di preparativi, Ottaviano salpò per Brindisi per attaccare Antonio che aveva sistemato la flotta davanti alla città di Azio, ma il maltempo lo costrinse a tornare indietro. Ripartì più tardi, in piena primavera e conquistò l'isola di Corcira dove stabilì la base della sua flotta. Da Corcira Ottaviano si spinse a conquistare altre posizioni sulla terraferma, sulle coste dell'Epiro, in modo da circondare la flotta nemica.
Antonio, intanto, non accettava proposte di trattativa da parte di Ottaviano ma non si decideva neanche a combattere.
Per un certo periodo i due schieramenti si impegnarono solo in brevi combattimenti marittimi e terrestri, lungo le coste greche, poi Agrippa sferrò un attacco a sorpresa conquistando l'isola di Leucade, in posizione strategica vicino ad Azio.
Intanto Marco Tizio e Tauro Statilio, ufficiali di Ottaviano, battevano la cavalleria di Antonio.
Le forze di Antonio cominciarono ad indebolirsi anche a causa delle numerose diserzioni, inoltre Ottaviano gli impediva di ricevere rifornimenti e rendeva la sua situazione sempre più difficile. Il consiglio di guerra di Antonio decise quindi di abbandonare la postazione e dirigere la flotta verso l'Egitto, ma questa operazione poteva richiedere degli sconti ed inoltre, per non perdere la fiducia e l'appoggio degli alleati era necessario simulare un attacco, fingendo quindi di voler combattere.
Qui Dione "drammatizza" componendo un discorso di Antonio ai propri uomini in cui il comandante compie un clamoroso "bluff" dicendosi sicuro della vittoria. Egli incita i soldati a combattere ed a vincere in nome di una libertà di cui si propone come garante contro le mire e le pretese di Ottaviano.
Dal canto suo Ottaviano, nei paragrafi successivi, pronuncia un altro discorso in cui riprende i temi degli abusi di potere commessi da Antonio e, soprattutto, della minaccia costituita da Cleopatra.
Dopo le due orazioni ha inizio la battaglia, subito la flotta di Ottaviano accerchia quella di Antonio costringendola ad affrontare il combattimento. Lo scontro è caratterizzato dal fatto che le navi di Ottaviano, più piccole e veloci, si sforzano di manovrare rapidamente danneggiando il più possibile gli scafi nemici.
L'esito della battaglia restò a lungo incerto, poi Cleopatra fuggì con la sua nave, seguita da molte navi egiziane, mentre gli uomini di Ottaviano intensificavano gli attacchi contro le navi nemiche che erano rimaste più indietro. Infine Ottaviano ordinò di attaccare con i proiettili incendiari (aveva tentato di evitare questa tattica per non distruggere le ricchezze del nemico delle quali avrebbe voluto appropriarsi) e questa decisione segnò la definitiva disfatta della flotta antoniana ( 2 settembre 31 a.C. ).

LIBRO LI

Dal giorno di questa vittoria, secondo Dione, inizia il computo degli anni del regno di Ottaviano. Subito dopo iniziò l'azione giudiziaria contro coloro che avevano sostenuto Antonio. Fra questi alcuni furono perdonati, come Marco Scauro, fratellastro di Sesto Pompeo, ed altri furono puniti, come Curione, figlio del Gaio Scribonio Curione che aveva combattuto con Cesare nelle guerre civili. Ottaviano assorbì le truppe di Antonio, congedò i soldati più anziani e disperse l'esercito in varie località per evitare ribellioni. Tuttavia i soldati congedati senza un premio cominciarono ad agitarsi ed Ottaviano, come sempre faceva, incaricò Agrippa di controllare la situazione. Partì per la Grecia e per l'Asia, alla ricerca di Antonio, ma i disordini provocati dai reduci lo costrinsero a tornare in Italia.
Convocò i veterani a Brindisi e riuscì a calmarli con distribuzioni di denaro e di terre. Dopo circa un mese di permanenza in Italia, tornò in Grecia per riprendere la caccia al suo rivale fuggitivo. Antonio e Cleopatra, che erano rimasti nel Peloponneso, sapendo dell'arrivo di Ottaviano decisero di separarsi: Cleopatra tornò in Egitto dove si dedicò ad eliminare quegli avversari politici che avrebbero potuto indebolire le sue difese, Antonio andò in Libia in cerca di alleati ma, non avendo successo, si trasferì anche egli in Egitto.
Qui Dione accenna ad una trattativa segreta che si sarebbe svolta fra Cleopatra ed Ottaviano: quella avrebbe inviato ambasciatori a trattare la resa, questi le avrebbe promesso l'impunità in cambio della testa di Antonio.
Gaio Cornelio Gallo, ufficiale di Ottaviano, guidò una flotta in Egitto e sconfisse Antonio che tentava di attaccarlo presso la città di Paretonio. Intanto Ottaviano conquistava la città di Pelusio, sul delta del Nilo, secondo Dione grazie al tradimento di Cleopatra, convinta che Ottaviano si fosse innamorato di lei.
Ottaviano ed Antonio si incontrarono presso Alessandria: Ottaviano subì una prima sconfitta ma poi ebbe la meglio. Cleopatra si rinchiuse nella propria tomba personale: secondo Dione fingeva di voler morire per attirare Antonio in un tranello. Di fatto anche Antonio entrò nella tomba ed ivi si pugnalò mortalmente. Morto Antonio, Ottaviano riuscì a far arrestare la regina la quale, in un colloquio che Dione riporta in modo un po' romanzesco, cercò di sedurlo o di impietosirlo. Vedendolo impassibile ed intuendo che Ottaviano intendeva fare di lei una preda da esibire nel trionfo, Cleopatra decise infine di togliersi la vita. Ci riuscì poco dopo: eludendo la sorveglianza dei carcerieri si avvelenò, forse facendosi mordere da un aspide. Ottaviano ne fu addolorato e turbato ma i suoi tentativi di salvarla con le medicine e con gli anti-veleni degli Psilli non servirono a nulla.
Antillo, figlio di Antonio e di Fulvia, venne eliminato, così Cesarione, figlio di Cleopatra e di Cesare. A Cleopatra Minore, figlia di Antonio e della regina, fu fatto sposare Giuba II, figlio di Giuba I re di Numidia. Gli altri due figli di Cleopatra, Alessandro e Tolomeo, vennero risparmiati.
Conquistato così l'Egitto, Ottaviano non infierì sulla popolazione. Fece riesumare la salma di Alessandro Magno per renderle onore ma non volle fare altrettanto con le spoglie dei Tolomei; quindi affidò l'Egitto a Cornelio Gallo, stabilì leggi e tributi per la nuova provincia e confiscò le ricchezze di Cleopatra. Con il bottino egiziano furono elargiti compensi e premi ai veterani di Ottaviano ed ai suoi sostenitori.
Sistemati gli affari egiziani, Ottaviano passò in Siria per occuparsi della questione dei Parti: il re Fraate ed un certo Tiridate, che era insorto contro di lui, si rivolgevano entrambi a Roma in cerca di alleanze. Intanto a Roma il Senato decretava varie celebrazioni in onore di Ottaviano ed ordinava di distruggere qualsiasi monumento che ricordasse Marco Antonio.
In questo contesto fu stabilita la famosa chiusura delle porte del tempio di Giano, gesto che rappresentava la pace raggiunta su tutti i territori dominati dai Romani.
Tornato a Roma, Ottaviano ricompensò i suoi luogotenenti e molti onori furono concessi a Marco Vipsanio Agrippa. Quindi fu celebrato il trionfo di Ottaviano per tre giorni: il primo per le campagne contro i Pannoni, i Celti ed altri popoli, il secondo per la vittoria di Azio ed il terzo per la conquista dell'Egitto. In quell'occasione venne inaugurata la "Curia Giulia", costruita in onore di Giulio Cesare.
Gli ultimi paragrafi del libro LI di Dione Cassio sono dedicati alla campagna condotta da Marco Licinio Crasso nella regione detta Mesia Europea (Serbia - Bulgaria) dove i Romani assoggettarono i Bastarni ed altre popolazioni scite.

LIBRO LII

La parte iniziale di questo libro, occupata dai due discorsi fra Ottaviano ed i suoi più fidati consiglieri, Agrippa e Mecenate, sottolinea un momento fondamentale della storia romana: la nascita dell'impero. In questi discorsi si discute se sia giusto ed opportuno instaurare una monarchia: Agrippa si dichiara contrario e propone che vengano rinnovate e consolidate le istituzioni repubblicane, mentre Mecenate propende per la formazione di uno stato monarchico.
In pratica Agrippa consiglia ad Ottaviano di resituire il potere al popolo ed al Senato, come Ottaviano effettivamente farà con la "resituitio rei publicae" del 27 a.C.
Secondo Agrippa, prima di uscire di carica, Ottaviano dovrebbe "formalizzare con decreti e leggi le questioni più urgenti".
Mecenate invece si dimostra di tutt'altro avviso. Egli sostiene che la monarchia di fatto era già stata istituita da Cesare e che a Ottaviano non rimaneva che continuarla.
Il modello che Mecenate propone è quello di un principe illuminato, capace di governare con il consenso e la collaborazione delle classi elevate mantenendo, tuttavia, la giusta approvazione popolare. Mecenate passa quindi a formulare una serie di suggerimenti di ordine politico ed amministrativo che rispecchiano effettivamente alcune azioni svolte da Ottaviano nel primo periodo del suo principato, come la revisione dei ruoli del Senato e la ristrutturazione delle funzioni connesse alle pubbliche magistrature.
Nel discorso di Mecenate vengono tratteggiate le caratteristiche del "praefectus urbis" e del censore così come verranno rinnovate da Ottaviano. Si parla anche dell'uso di affidare le province agli ex-consoli ed agli ex-pretori e della grande riorganizzazione politica ed amministrativa dell'Italia e delle province. Mecenate passa quindi a discutere di altri aspetti: l'educazione dei giovani, la formazione e l'addestramento di truppe permanenti ed il controllo dei confini. Particolarmente interessanti sono i consigli di Mecenate in campo fiscale: egli suggerisce prima di tutto di vendere i terreni pubblici e di concedere, con il ricavato, prestiti e finanziamenti a tasso moderato, così da garantire allo Stato un'entrata costante, diversa dal prelievo sui contribuenti. Per il resto le spese dello Stato, al netto di altre rendite (quali per esempio la produzione mineraria) dovranno essere coperte da un sistema di tassazione equamente distribuito sull'Italia e sulle province.
Il discorso procede con il rapporto del principe con il Senato, che deve essere chiamato a condividere le responsabilità del governo, l'organizzazione giudiziaria e l'apparato burocratico che il principe dovrà realizzare per poter gestire tutte le attività e le problematiche inerenti il suo ruolo.
Concluso il discorso di Mecenate, Dione afferma che Ottaviano scelse di applicare la monarchia ma agì con grande prudenza applicando le riforma gradualmente.
In quell'anno, 29 a.C., Ottaviano - che rivestiva il suo quinto consolato - assunse il titolo di "Imperator" e mise mano ad una epurazione delle liste senatorie (la prima delle quattro che dovevano svolgersi durante il suo principato).
Nello stesso anno Antioco I di Commagene, che era stato sostenitore di Pompeo ed alleato dei Parti, fu convocato a Roma, processato e giustiziato.

LIBRO LIII

Nel 28 a.C. Ottaviano assunse il consolato per la sesta volta, insieme ad Agrippa che era al suo secondo consolato. Nello stesso anno Agrippa sposò Marcella, figlia di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia (sorella di Ottaviano) ed Ottaviano completò e consacrò il tempio di Apollo sul Palatino e le nuove biblioteche. Ancora nel 28 a.C., Ottaviano ed i suoi più stretti collaboratori, mirando a raggiungere il più alto consenso popolare per facilitare l'instaurazione ed il consolidamento del nuovo regime monarchico, realizzarono varie riforme ed abrogarono una serie di disposizioni attuate dal secondo triumvirato, per creare una salda impressione di ritorno alla legalità repubblicana.
Il 13 gennaio del 27 a.C. Ottaviano, che assumeva il suo settimo consolato, si presentò davanti al Senato e pronunciò il famoso discorso della "restitutio rei publicae", con il quale rinunciava a tutti i suoi poteri e privilegi rimettendoli al Senato. La mossa fu particolarmente astuta in quanto i senatori contrari ad Ottaviano non osarono esporsi approvando le sue dimissioni, quelli che gli erano favorevoli invece insistettero perché mantenesse il potere. Insomma, Ottaviano riuscì a farsi consegnare lo Stato dai senatori senza che apparisse apertamente che fosse lui a volerlo.
Ottavia comunque insistette perché il potere conferitogli, che era assoluto, apparisse limitato nel tempo e nello spazio. Per questo divise le province assumendo direttamente solo il controllo delle più agitate e lasciando le più tranquille ai senatori, ma questo sistema gli consentiva anche di essere il solo leggittimato a mantenere delle legioni in perenne assetto di guerra.
Le province senatorie furono l'Africa, la Numidia, l'Asia, la Grecia con l'Epiro, la Dalmazia, la Macedonia, la Sicilia, Creta e la parte cirenaica della Libia, la Bitinia e la parte annessa del Ponto, la Sardegna e la Betica.
Le province imperiali furono: la Spagna ad esclusione della Betica (cioè Tarragona e Lusitania), tutte le Gallie, la Celesiria, la Fenicia, la Cilicia, Cipro e l'Egitto. Successivamente la Gallia Narbonese e Cipro passarono al Senato mentre la Dalmazia passava all'imperatore (22 a.C.).
Ottaviano assunse il controllo delle province imperiali per un periodo di dieci anni.
Si stabilì che i governatori delle province senatorie fossero eletti annualmente dal Senato, mentre i legati che dovevano amministrare le province imperiali sarebbero stati scelti direttamente da Ottaviano, a sua discrezione sarebbe stata stabilita anche la durata della carica.
In quello stesso anno (27 a.C.) si decise di attribuire ad Ottaviano il titolo di Augusto. Secondo Dione egli avrebbe gradito essere chiamato "Romolo", ma poi scartò il nome per l'idea monarchica che essa suggeriva.
Augusto, nè i suoi successori assunsero mai il itolo di re, ma quello di "imperator", di origine militare che da allora significò il potere assoluto detenuto a vita.
L'"imperator" assunse gran parte delle magistrature tradizionali e delle facoltà ad esse connesse: la censura ed il pontificato gli conferifono la massima autorità in campo civile e religioso, inoltre la potestà tribunizia gli consentiva di opporre il veto alle decisioni di qualsiasi magistrato e gli garantiva l'inviolabilità della persona.
Augusto si dedicò al governo con grande zelo, promulgò molte leggi, generalmente concordandole con il Senato, e tenne in grande considerazione l'opinione dei suoi collaboratori. Dione utilizza quest'ultima affermazione come giudizio di carattere generale sul principato di Ottaviano e come premessa prima di passare al racconto dettagliato degli avvenimenti.
Nel primo anno dell'impero (27 a.C.), Augusto ordinò il restauro della rete viaria che era rimasta priva di manutenzione dalle guerre civili, per non gravare sulle casse dello Stato ordinò ad alcuni senatori di provvedere a proprie spese a parte dei lavori e finanziò personalmente il restauro della Via Flaminia della quale aveva particolarmente bisogno per muovere verso Nord. Poco dopo, infatti, partì alla guida di una spedizione diretta in Britannia. Preferì però fermarsi in Gallia dove erano scoppiati dei disordini. Pacificata la regione, operò un censimento e riorganizzò l'amministrazione provinciale, quindi si trasferì in Spagna, per motivi analoghi a quelli che lo avevano trattenuto in Gallia.
L'anno seguente (26 a.C.) Ottaviano assunse il suo ottavo consolato, con Statilio Tauro.
Nello stesso anno l'autore ricorda il trattato di amicizia con Polemone re del Ponto, e l'inizio della campagna militare che porterà alla definitiva sottomissione dei Salassi.
Nel 25 a.C. Augusto ricoprì il suo nono consolato ed inviò Terenzio Varrone (identificabile con Aulo Varrone Murena, console nel 23 a.C.) contro i Salassi. Costui concluse rapidamente la campagna e nel territorio dei Salassi venne dedotta la colonia di Augusta Pretoria (Aosta).
Nel frattempo Augusto guidava una difficile operazione contro gli Asturi ed i Cantabri. Durante questa campagna egli si ammalò e si ritirò a Tarragona affidando il comando al suo legato Gaio Antistio Vetere. A seguito di questa campagna i veterani congedati fondarono in Spagna la città di Augusta Emerita (oggi Lerida) .
Alla campagna contro i Cantabri parteciparono anche Marcello, nipote di Augusto, e Tiberio, suo figliastro e futuro successore.
Nello stesso anno Augusto rese la Mauritania, che il defunto re Bocco aveva lasciato in eredità al popolo romano nel 33, di nuovo indipendente, affidandola al suo alleato Giuba II re di Numidia.
In Oriente i territori della Galazia e della Licaonia (che nel 36 a.C. Antonio aveva affidato al re Aminta) vennero organizzati nella provincia di Galazia, poco dopo la morte del re.
Intanto Marco Vinicio guidava una spedizione punitiva contro alcune tribù germaniche che avevano ucciso dei cittadini romani. Dopo queste imprese fu decisa una chiusura delle porte del tempio di Giano a simboleggiare la pacificazione dell'impero.
In questo nuovo clima di pace furono intrapresi grandi lavori e costruzioni, specialmente da parte di Agrippa che edificò le Terme, il portico di Nettuno ed il Pantheon. Nel 24 Augusto assunse il suo decimo consolato avendo come collega Gaio Normano Flacco, figlio dell'omonimo console del 38 che nel 42 aveva combattuto a Filippi. Augusto, che si trovava ancora a Tarragona, fece ritorno a Roma e ricevette molti onori. Anche Marcello e Tiberio, rientrati con lui dalla Spagna, furono premiati con la concessione del diritto a ricoprire le magistrature in anticipo sui limiti minimi di età previsti dalla legge.
Ancora nel 24, Elio Gallo (nuovo governatore dell'Egitto dopo Cornelio Gallo) intraprese una spedizione contro l'Arabia Felix. Questa spedizione fu un insuccesso, soprattutto a causa del clima del deserto che fece ammalare gran parte dei soldati per la disidratazione.
Nel 23 a.C. Augusto (console per l'undicesima volta con Gneo Calpurnio Pisone) si ammalò di nuovo e questa volta tanto gravemente che si temette per la sua vita. Lo salvarono le cure del medico Antonio Musa il quale non riuscì invece a salvare Marcello, nipote di Ottaviano, che morì in quello stesso anno. Marcello fu sepolto nel "Mausoleo di Augusto" e, fra i molti onori tributati alla sua memoria, gli fu dedicato il famoso teatro che veniva completato proprio in quel periodo. Secondo Dione fu ancora in quell'anno (23 a.C.) che Augusto ricevette a vita i poteri del tribunato della plebe (altri autori datano l'evento già nel 36 a.C.)

LIBRO LIV

L'anno successivo (22 a.C.), Roma e l'Italia furono colpite da una grave pestilenza e dalla conseguente carestia. Si attribuì la causa di queste sventure al fatto che Augusto avesse rinunciato al consolato e gli si offrì la carica di dittatore a vita. Augusto non accettò, assunse invece la carica di prefetto dell'annona.
Si verificò quindi una congiura ai danni di Ottaviano, capeggiata da Fannio Cepione e Licinio Murena.
La congiura venne scoperta e i due capi furono giustiziati. In Spagna Asturi e Cantabri si ribellarono al governatore romano, l'Egitto fu attaccato dalle popolazioni etiopi confinanti; mentre i rispettivi governatori pacificavano queste province, Ottaviano si recò in Sicilia da dove avrebbe iniziato un viaggio nelle province orientali. A Roma, in assenza di Augusto, le lotte elettorali fra i candidati al consolato provocarono disordini, così Augusto conferì ad Agrippa pieni poteri per il controllo della città dopo averlo obbligato a divorziare da sua nipote Marcella ed avergli fatto sposare sua figlia Giulia.
Augusto passò quindi in Grecia dove premiò le città che lo avevano aiutato ai tempi di Azio (fra le quali Sparta) e punì quelle che avevano appoggiato Antonio (fra cui Atene), quindi trascorse l'inverno (21 a.C.) nell'isola di Samo. L'anno successivo si trasferì nelle province asiatiche. Durante questa permanenza in Asia ottenne dai Parti la restituzione delle insegne e dei prigionieri sottratti a Crasso: l'operazione fu svolta per via diplomatica, senza combattimenti.
Nacque Gaio Cesare, figlio di Agrippa e di Giulia.
Prima di rientrare in Italia, l'imperatore sistemò una serie di controversie nelle province asiatiche, a volte con rapidi interventi militari di cui affidava il comando al figliastro Tiberio. Di nuovo in Grecia ricevette molte ambascerie dall'Oriente fra cui una di indiani (si tratta probabilmente di uno dei più antichi contatti fra Roma e l'India).
Avvertito che a Roma si verificavano nuovi problemi per la scelta dei consoli, Augusto decise di rientrare.
Agrippa fu inviato a guidare una serie di campagne per risolvere insurrezioni nelle province europee: Gallia, Germania e poi Spagna (di nuovo contro i Cantabri).
Negli anni dal 19 al 17 a.C., l'imperatore si trattenne a Roma dedicandosi alla politica interna e consolidando il proprio potere, ottenendo fra l'altro che il Senato approvasse una serie di leggi che gli consentivano di esercitare più direttamente l'amministrazione statale senza per questo dover assumere palesemente un titolo monarchico.
Fra le leggi che Augusto propose al Senato (che ovviamente le approvò), Dione ne ricorda una che prevedeva la sospensione della carica per cinque anni di coloro che avessero commesso reati di corruzione. Inasprì il trattamento fiscale a carico dei celibi e nubili incentivando il matrimonio e la prolificità.
Augusto costituì inoltre alcune istituzioni militari stabilmente residenti all'interno del territorio urbano di Roma (caso che non si era mai verificato per tutta la durata della repubblica): tre delle dodici coorti di cinquecento uomini ciascuna di cui Augusto disponeva come milizia personale furono collocate entro le mura, furono inoltre istituiti un corpo di vigili del fuoco ed una polizia urbana.
Nel 17 a.C. nacque Lucio Cesare, figlio di Agrippa, ed Ottaviano lo adottò insieme al fratello Gaio (atto che implicitamente designava i due nipoti dell'imperatore come suoi possibili successori).
Nello stesso anno Augusto inaugurò la quinta edizione dei "Ludi secolari".
Nel 16 a.C. Augusto mosse contro la Gallia, dopo aver restaurato e dedicato il tempio di Quirino (29 giugno). Nel partire affidò il governo della città a Tito Statilio Tauro. Portò con se Tiberio ed essendo questi pretore le mansioni di pretore furono delegate, grazie ad un apposito decreto, a Druso, fratello di Tiberio.
Intanto nel Nord Italia ed in Istria si svolgevano ribellioni ed incursioni dei Pannoni e dei Norici, mentre Cantabri e Traci creavano difficoltà, rispettivamente, in Spagna ed in Macedonia.
Ma il problema più grande del momento era costituito dalle popolazioni germaniche stanziate alla destra del Reno: queste erano riuscite a sorprendere un contingente romano, avevano ucciso barbaramente gran parte dei prigionieri inviandone alcuni a chiedere un riscatto per gli ostaggi ed infine avevano inferto a Roma una delle peggiori sconfitte dell'epoca, quella patita dal governatore Lollio nella quale la "Legio V Alaude" perse le proprie insegne.
Nel frattempo in Gallia ferveva il malcontento fra la popolazione civile a causa degli abusi del corrotto governatore Licinio, mentre ad Est i Reti (che abitavano fra il Norico e le Alpi Tridentine) avevano cominciato a svolgere incursioni in Gallia ed in Italia.
Ottaviano fronteggiò la situazione recandosi personalmente in Gallia ed affidando a Tiberio e a Druso il compito di risolvere il problema dei Reti.
I due fratelli svolsero nella zona delle Alpi Tridentine un intervento capillare, portando contemporaneamente la guerra in più punti e smembrando le forze nemiche, non si fermarono finchè non ebbero eliminato o deportato gran parte degli uomini in grado di combattere, evitando - anche per il futuro - la possibilità di nuove insurrezioni. Tiberio e Druso furono grandemente onorati per questa vittoria, ma ben presto ai problemi creati dai Reti fecero seguito quelli, certamente più gravi, provocati dalle popolazioni della Pannonia che impegnarono grandemente Tiberio e le sue truppe negli anni successivi.
Augusto tornò a Roma nel 13 a.C. dopo aver riorganizzato le province della Gallia, della Spagna e della Germania risolvendo molti problemi di natura politica ed amministrativa.
A Roma inaugurò il teatro dedicato a Marcello, quindi procedette ad una nuova revisione della lista dei senatori.
Alla morte di Lepido, Augusto venne designato pontefice massimo.
Nel 12 a.C. Augusto inviò Agrippa in Pannonia. Questi era da poco tornato da un periodo trascorso in Siria come governatore quando Augusto gli affidò l'incarico conferendogli poteri di comandante supremo. Agrippa non combattè perché i Pannoni, spaventati dal suo arrivo, rinunciarono spontaneamente alla ribellione, tuttavia egli si ammalò gravemente - forse per i rigori del clima - e tornato in Italia si recò in una sua residenza in Campania, dove morì poco dopo il suo arrivo, tanto che Augusto, immediatamente accorso a rendergli visita, non fece in tempo a vederlo un'ultima volta da vivo.
La morte di Agrippa fu una grave perdita per Augusto e per tutto lo stato romano. Augusto avvertì il pressante bisogno di scegliere un nuovo collaboratore per la gestione degli affari pubblici e, poiché i suoi nipoti erano ancora troppo giovani, decise con molte perplessità di puntare su Tiberio. Lo fece divorziare dalla moglie e gli ordinò di sposare Giulia, vedova di Agrippa, quindi gli affidò l'incarico di portare a termine la sottomissione della Pannonia. La resa dei ribelli avvenuta poco prima non era infatti questione duratura ed appena i Pannoni seppero della morte di Agrippa riaprirono le ostilità. Come aveva già fatto con i Reti, Tiberio svolse un intervento drastico e definitivo, non si limitò ad ottenere vittorie campali sui Pannoni, ma li perseguitò nel loro paese fino a catturarli e renderli schiavi.
Nello stesso periodo Druso, fratello di Tiberio, agiva e riportava vittorie in Germania, sul Reno, combattendo contro i Cheruschi ed altre popolazioni locali.
Intanto in Tracia un certo Vologeso si era impadronito del potere con un colpo di stato ed aveva preso a devastare i territori romani della Macedonia. Contro di lui mosse Lucio Calpurnio Pisone che risolse brillantemente la situazione assoggettendo in modo definitivo l'intera regione.
In quell'anno (11 a.C.) morì Ottavia, sorella di Ottaviano, che fu tumulata nella tomba giulia.
L'anno successivo (10 a.C.) vennero chiuse le porte del tempio di Giano, ma furono presto riaperte a causa di un'invasione tentata dai Daci in Pannonia e di una nuova ribellione dei Dalmati.


LIBRO LV

Oscuri prodigi non promettevano nulla di buono, ma Druso proseguì comunque nelle sue imprese in Germania (9 a.C.) combattendo contro Catti, Suebi e Cherusci e spingendosi fino all'Elba. Arrivato alle coste del Mare del Nord, Druso decise di tornare indietro (Dione riferisce di una apparizione soprannaturale che lo avrebbe convinto) e morì di malattia durante il viaggio di ritorno (Livio parla invece di una caduta da cavallo).
Tiberio fece in tempo a raggiungerlo prima che spirasse e scortò la salma a Roma dove furono svolte esequie solenni.
Le ceneri di Druso vennero tumulate nel mausoleo di Augusto e fu attribuito a lui, con estensione ai suoi diretti discendenti, l'appellativo di Germanico.
L'anno successivo (8 a.C.), Augusto rientrò a Roma e si dedicò a varie riforme legislative e giudiziarie. Giunta la scadenza del secondo decennio di governo, Augusto accettò il rinnovo delle sue cariche, quindi organizzò una nuova campagna in Germania affidandone il comando a Tiberio perché completasse quanto intrapreso dal fratello. Nel 7 a.C. Tiberio fu console insieme a Gneo Calpurnio Pisone, durante quell'anno celebrò un trionfo per le sue campagne in Pannonia ed in Germania e fu protagonista di alcuni importanti eventi pubblici.
In quel periodo Augusto fu addolorato dalla morte dell'amico e collaboratore Mecenate. Dione dedica un paragrafo alla lode di Mecenate del quale ricorda la moderazione in politica e la lealtà verso Ottaviano. Morendo, Mecenate lasciò ad Augusto gran parte delle sue cospicue sostanze.
Tiberio inaugurò il nuovo portico di Livia offrendo un banchetto pubblico, quindi partì di nuovo per la Germania.
Augusto inaugurò nuovi monumenti dedicandoli alla memoria di Agrippa ed organizzò il territorio cittadino di Roma in quattordici rioni.
Lucio Cesare e Gaio Cesare, nipoti di Augusto e figli di Agrippa, stavano crescendo e cominciavano a prendere parte alla vita pubblica. Ottaviano non vedeva di buon occhio le adulazioni che popolo e senatori tributavano ai due ragazzi e fece in modo di contenere la rapida ascesa delle loro carriere. Si oppose ad un decreto proposto dal Senato che avrebbe consentito a Gaio Cesare di candidarsi al consolato prima di aver raggiunto l'età minima prevista. A Tiberio venne rinnovata la potestà tribunizia per cinque anni e gli venne affidata l'Armenia, che andava ribellandosi.
A quel punto (6 a.C.) Tiberio, che secondo Dione temeva la rivalità con i figli di Agrippa, decise di ritirarsi a Rodi per vivere come un privato cittadino. Dione ricorda anche che secondo alcuni la causa della partenza di Tiberio fu lo scandaloso comportamento della moglie Giulia, dalla quale non volle essere seguito in esilio.
L'anno successivo (5 a.C.) Augusto nominò Gaio Cesare "princeps iuventutis", ammettendolo in Senato.
Nel 2 a.C. venne dedicato il nuovo Foro di Augusto ed il relativo tempio di Marte, per l'occasione furono organizzati grandi giochi e spettacoli. Nello stesso anno ad Augusto venne attribuito il titolo di Padre della Patria.
In quel periodo scoppiò lo scandalo di Giulia e dei suoi costumi dissoluti. Giulia venne confinata a Pandataria (Ventotene) per volere del padre e la madre Scribonia la seguì volontariamente. Fra quanti furono coinvolti nella vicenda, Iullo Antonio ed alcuni altri vennero condannati a morte, gli altri confinati.
Poiché la ribellione in Armenia destava preoccupazione e Tiberio era ancora a Rodi, Augusto decise di affidare una missione a Gaio Cesare affiancandogli alcuni esperti ufficiali. Durante la sua campagna in Oriente, Gaio riportò alcune vittorie ma venne ferito gravemente e chiese di potersi ritirare a vita privata. Morì in Licia, mentre viaggiava per rientrare in Italia (21 febbraio 4 d.C.). Qualche tempo prima (20 agosto 2 d.C.) era morto a Marsiglia Lucio Cesare, colpito da un'improvvisa malattia mentre si recava in Spagna.
A questo punto una congiura contro Augusto ad opera di Cneo Cornelio Cinna (della quale conserva memoria anche Seneca) fornisce a Dione l'occasione per una lunga digressione sull'opportunità della clemenza da parte di chi detiene il potere. Dione drammatizza l'argomento in un lungo colloquio notturno fra Augusto, angosciato dal pericolo, e la moglie Livia Drusilla le cui parole riecheggiano spesso i concetti che Dione ha fatto esprimere ad Agrippa e Mecenate nel capitolo LII.
Augusto ascoltò i suggerimenti di Livia e perdonò i congiurati, tanto che Cornelio Cinna riuscì anche ad ottenere il consolato.
L'anno successivo (5 d.C.) furono erogati premi straordinari ai soldati e furono riorganizzate le legioni: Dione ne fornisce un elenco "aggiornato" con le aggiunte degli imperatori successivi ad Augusto.
L'altro costo dell'apparato militare spinse Augusto a varare alcune riforme fiscali e a contribuire con elargizioni personali alla costituzione di un "erario militare".
In quel periodo (6 d.C.) si verificò una grave carestia, inoltre la frequenza degli incendi provocò l'istituzione di un corpo di vigili del fuoco che nacque inizialmente in base ad un provvedimento straordinario ma fu successivamente istituzionalizzato.
Altri problemi di quell'anno furono rappresentati dai pirati che ossessionavano la Sardegna e dai Getuli, popolazione africana che si ribellò ai Romani e fu sconfitta dal governatore Gneo Cornelio Lentulo.
Intanto Tiberio, che era tornato da Rodi, combatteva ancora in Germania ed in Pannonia. La lunga durata di queste campagne non piacque ad Augusto che decise di affiancare a Tiberio il nipote Germanico (figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore).
Poco dopo (7 d.C.), Agrippa Postumo (figlio di Agrippa e di Giulia) venne esiliato a causa del suo comportamento polemico e della sua indole ribelle.
Ottaviano, benché ormai anziano e non in buona salute, seguì con attenzione le imprese di Tiberio e Germanico in Dalmazia e Pannonia, fino a spingersi a Rimini per incontrare i suoi generali.


LIBRO LVI

Le leggi romane in epoca augustea riconoscevano privilegi a chi si sposava ed aveva figli mentre penalizzavano fiscalmente il celibato. Dione riferisce due discorsi tenuti da Augusto (ma la narrazione è qui retorica), l'uno ai capifamiglia che vengono elogiati, l'altro ai celibi che ricevono dall'imperatore una severa rampogna.
Intanto Germanico e Tiberio continuavano ad operare in Germania e in Dalmazia. Tiberio intraprese in Dalmazia il difficile assedio della città di Andetrium nella quale le truppe nemiche, al comando di Batone, si erano asserragliate. Infine Tiberio riuscì ad ottenere la resa di Batone. Tuttavia quando a Roma si stavano celebrando le vittorie di Tiberio e Germanico, giunse una terribile notizia: la disfatta di Varo.
Publio Quintilio Varo, governatore della provincia di Germania, aveva tentato di introdurre il diritto romano, non considerando che in questo modo si andava inimicando l'aristocrazia locale che, in forza di una legislazione molto evoluta, aveva sempre esercitato sulla popolazione grande controllo ed autorità. In secondo luogo aveva dimostrato di avere la mano pesante nel campo fiscale ed anche questo aspetto non era certamente gradito ai Germani. Nonostante tutto ciò, Varo era riuscito a tenere la situazione sotto controllo per un paio d'anni, anche grazie al timore che i contingenti militari ai suoi ordini incutevano nella popolazione locale, ma quando questi contingenti vennero diminuiti per portare rinforzi a Tiberio e a Germanico, la nobiltà locale comprese che era arrivata la sua grande occasione.
Fingendosi disponibili e rispettosi del governatore romano, i notabili germanici, coordinati da Arminio, lo convinsero che poteva muoversi liberamente per la provincia senza l'ingente scorta militare che sarebbe stato naturale adottare in un paese nemico e riuscirono lentamente a far si che parte dei suoi uomini si disperdesse nel territorio, quindi attrassero con un pretesto Varo nella Selva di Teutoburgo e qui lo attaccarono facendo strage dei legionari che lo accompagnavano. Varo e gli altri ufficiali sopravvissuti si suicidarono presso il campo di battaglia prima di essere catturati.
Quando Augusto apprese la tragica notizia fu colto da un momento di disperazione: egli temeva di perdere le sue province settentrionali e sospettava che i Germani volessero addirittura attaccare l'Italia e colpire Roma. Inoltre, a causa del forte impegno in Illiria, Dalmazia e Pannonia, le risorse militari disponibili erano piuttosto esigue ed Ottaviano dovette ricorrere ad arruolamento forzoso richiamando soldati già in congedo ed imponendo la leva a liberti e cittadini estratti a sorte.
Le truppe così raccolte furono affidate a Tiberio che raggiunse rapidamente il Reno e, senza attraversarlo, si dispose a fronteggiare il nemico accampato sulla riva opposta. A Roma, per timore di sommosse, furono allontanati tutti i Galli ed i Germani che per qualsiasi ragione si trovassero in città e venne proclamato uno stato d'emergenza che durò finché Augusto non ebbe notizia sicura che i Germani erano arroccati nelle loro posizioni e non stavano progettando spedizioni contro l'Italia.
Il racconto di Dione continua descrivendo Augusto che, ormai molto anziano, evitava sempre più spesso le apparizioni pubbliche e gli impegni sociali ma continuava a seguire da vicino la vita politica e legislativa dello stato.
Nel 13 d.C., Augusto ottenne il quinto rinnovo delle sue cariche e rinnovò a sua volta la potestà tribunizia di Tiberio.
L'anno successivo Augusto intraprese un viaggio in Campania durante il quale si ammalò e morì. Dice Dione: "Livia fu oggetto di qualche sospetto riguardo la sua morte, per via del fatto che egli si era recato segretamente presso l'isola in cui si trovava relegato Agrippa e sembrava che si fosse del tutto riconciliato con lui". Dunque Livia avrebbe temuto che il riavvicinamento con il povero Agrippa Postumo fosse pericoloso per le aspirazioni di Tiberio.
Augusto, moribondo, convocò gli amici e dopo aver dichiarato "Ho ricevuto Roma di terra, ve la lascio di marmo", chiese un applauso per il modo in cui aveva recitato la commedia della vita. Secondo Dione Tiberio, al momento della morte di Augusto, si trovava in Dalmazia e Livia evitò di informarlo fino al suo rientro a Roma. Tuttavia lo storico non tralascia di citare alcune autorevoli fonti (fra cui Svetonio) che sostenevano che "Tiberio fosse presente durante la malattia del principe e che avesse ricevuto da lui alcune raccomandazioni".
Quando fu aperto il testamento di Augusto si seppe che l'imperatore aveva lasciato gran parte delle sue sostanze a Tiberio e a Livia, tuttavia rimaneva abbastanza per distribuire ricchi lasciti agli amici, ai senatori, ai cavalieri, al popolo e ai soldati.
Oltre al testamento, per volontà del defunto, furono aperti e letti in Senato altri quattro documenti olografi, fra cui il resoconto delle imprese dell'imperatore che fu riprodotto in varie iscrizioni in tutto l'impero e che è giunto fino a noi come "Res Gestae". I documenti comprendevano anche esortazioni per Tiberio, fra cui quella di evitare di estendere l'impero oltre i confini del momento per non incorrere nell'impossibilità di gestire i domini di Roma.
Il libro si chiude con due lunghi discorsi elogiativi: il primo è pronunciato da Tiberio che parla alla folla durante i sontuosi funerali di Augusto, il secondo è redatto in prima persona dall'autore. A far comprendere a fondo i meriti di Ottaviano ed i vantaggi della sua politica, dice Dione, negli anni successivi fu soprattutto il confronto con il nuovo regime instaurato da Tiberio.


LIBRO LVII

Dione apre il suo resoconto sul principato di Tiberio parlando della famosa ipocrisia del secondo imperatore, la "dissimulatio" con la quale egli rendeva sempre difficile comprendere il proprio pensiero. Seguendo lo stesso filo di narrazione adottato da Tacito, ma più brevemente di questi, Dione racconta l'ostentata titubanza di Tiberio nell'assumere il potere.
Poco dopo l'ascesa al potere di Tiberio, Agrippa Postumo venne ucciso: Dione mostra di ritenerne responsabile Tiberio (come Tacito) ma riporta le altre opinioni secondo le quali l'ordine partì da Livia o era stato emanato in precedenza da Augusto.
La vera preoccupazione di Tiberio era però costituita da Germanico. Le legioni in Pannonia si erano infatti ribellate alla morte di Augusto e, dato il grande prestigio di Germanico nell'esercito, Tiberio temeva che i soldati intendessero proclamarlo imperatore. Il comandante Giunio Bleso riuscì a convincere i soldati ad inviare ambasciatori presso Tiberio per sostenere le loro richieste (aumento della paga e diminuizione del periodo di ferma). Tiberio inviò sul posto il figlio Druso che, dopo qualche tempo e con metodi drastici, riuscì a risolvere la sedizione eliminandone i principali animatori.
Più grave era la situazione in Germania dove le legioni arrivarono ad acclamare Germanico imperatore. Germanico rifiutò, arrivando a minacciare il suicidio, ma le truppe, lungi dal desistere, catturarono sua moglie Agrippina e suo figlio Caligola.
Infine le truppe si calmarono, liberarono gli ostaggi, e i più facinorosi furono eliminati. Tiberio lodò e ringraziò Germanico per la sua lealtà e per la sua fedeltà ma, secondo Dione, prese a temerlo ancora di più, "come se egli fosse l'effettivo padrone degli eserciti".
Comunque, una volta sicuro della conclusione dei disordini nelle legioni, Tiberio assunse pienamente l'impero accantonando le proprie esitazioni.
Nei primi tempi, dice Dione, si comportò con molta moderazione, condividendo tutte le decisioni con il Senato ed evitando che gli fossero tributati onori e riguardi particolari. Lo storico approfondisce per alcune pagine questo aspetto del primo periodo del principato di Tiberio insistendo su come il nuovo imperatore cercasse di rafforzare l'idea della leggittimità "repubblicana" del proprio potere: servono a chiarire il concetto anche particolari apparentemente di modesta importanza come il fatto che Tiberio accettase l'appellativo di "Imperator" solo se pronunciato dai militari mentre dai civili gradiva quello di "princeps senatus".
Altro aspetto caratteristico del periodo fu l'atteggiamento di rispetto, quasi di venerazione, che Tiberio mostrò di tributare alla memoria di Augusto.
Anche nell'amministrazione finanziaria si dimostrò corretto ed oculato, attento ad evitare ogni abuso da parte di funzionari e governatori.
Stando a Dione, Tiberio si sforzò anche di contenere l'influenza ed il potere della madre Livia Drusilla, la vedova di Augusto, che cercava di esercitare continue ingerenze nella politica del figlio.
Anche al figlio Druso Tiberio mosse duri rimproveri, biasimandolo per la sua ostentazione e per la sua violenza. Insomma in tutto e per tutto egli si sforzò di collegare alla figura dell'imperatore un'immagine di grande giustizia e moderazione, almeno finché fu in vita Germanico. Dione, infatti, non evita di insinuare che la condotta di Tiberio nel primo periodo del suo principato, fu dettata essenzialmente dall'esigenza - che egli sentiva impellente, di non risultare perdente in un confronto con il rivale sul piano politico e su quello morale.
Per esprimere questi concetti, l'autore ha dovuto necessariamente anticipare qualche evento, come la morte di Germanico, conclude quindi con questo capitolo quella che si può considerare una sorta di introduzione all'età di Tiberio e riprende una narrazione più strettamente cronologica degli eventi.
Nel 15 d.C. Druso, figlio di Tiberio, fu console con Gaio Norbano e svolse correttamente i compiti inerenti la magistratura, tuttavia si dimostrava sempre molto violento, al punto di meritare il soprannome di "Castore" (il nome di un terribile gladiatore famoso in quegli anni) e cominciava a manifestare evidenti sintomi di alcolismo.
Anche Dione, come Tacito e Svetonio, ricorda un episodio del 16 d.C., una congiura ordita da un certo Clemente che si spacciava per Agrippa Postumo (del quale era stato schiavo) il quale, raccolto un certo numero di sostenitori, aveva tentato di marciare su Roma per rovesciare Tiberio e prendere il potere; chiaramente la congiura fu sventata e Clemente venne eliminato.
Poco dopo Tiberio convocò a Roma il re Archelao di Cappadocia, lo accusò di sovversione e lo fece processare. Secondo Dione il movente di Tiberio era il rancore nei confronti di Archelao che egli aveva difeso in un processo molti anni prima (22 a.C.) e che durante il periodo di Rodi lo aveva ignorato dedicando tutti gli onori a Gaio Cesare. Archelao si salvò grazie alla sua età molto avanzata ed alle precarie condizioni di salute ma morì poco tempo dopo, a Roma, ove era stato trattenuto per ordine di Tiberio. Alla sua morte la Cappadocia divenne provincia imperiale romana.
Intanto Germanico portava avanti con successo la sua campagna e riusciva a recuperare le insegne delle legioni di Varo e a dare degna sepoltura ai resti dei caduti di quella ormai lontana battaglia.
Si arriva così al 19 d.C., anno in cui Tiberio faceva espellere da Roma gli Ebrei ed i seguaci di altri culti orientali. In quell'anno Germanico morì (il 10 ottobre del 19 d.C. ad Antiochia). Si ritenne, anche in base ad un sospetto espresso dallo stesso Germanico poco prima di morire, che fosse stato avvelenato dal legato di Siria Gneo Pisone e dalla moglie di questi Munazia Plancina.
Arrestato e processato nel 20 d.C., Gneo Pisone si suicidò prima che il tribunale riuscisse a comprovare definitivamente la sua colpevolezza.
Subito dopo la morte di Germanico, il comportamento di Tiberio mutò radicalmente, egli inasprì duramente le pene nei processi politici o per lesa maestà e si diede a perseguitare quanti - a torto o a ragione - riteneva suoi potenziali avversari.
A questo punto della narrazione fa la sua comparsa Lucio Elio Seiano, devoto collaboratore di Tiberio e prefetto del Pretorio. Figlio di Lucio Seio Strabone, prefetto del Pretorio alla morte di Augusto e poi legato in Egitto, Seiano seppe fare una rapida carriera sotto Tiberio il quale (per affinità di carattere, secondo Dione) aveva deciso di farne il suo braccio destro.
I cambiamenti della politica di Tiberio e la sinistra figura di Seiano cominciarono in quel periodo ad alienare all'imperatore il consenso della cittadinanza, girava inoltre la singolare diceria che Tiberio portasse disgrazia ai suoi colleghi di consolato: lo erano stati Varo, Pisone e Germanico e tutti e tre erano morti di morte violenta; così quando Tiberio assunse il consolato con il figlio Druso (21 d.C.), molti ritennero che la sorte del giovane fosse segnata.
Dione mostra di accogliere questa credenza: "In ogni caso Druso allora e Seiano poi, i quali furono entrambi suoi colleghi, vennero condotti a rovina".
In effetti due anni dopo (23 d.C.), Druso morì avvelenato ad opera di Seiano con la complicità di Claudia Livilla, moglie di Druso ed amante di Seiano.
Tiberio pronunciò personalmente l'elogio funebre del figlio ma evitò di interrompere la propria attività, fatto che suscitò qualche scandalo. Seguì una serie di processi e persecuzioni: Agrippina (moglie di Germanico) venne esiliata con i suoi figli, tranne il giovane Caligola. Ad ispirare questi provvedimenti era sempre Seiano che mirava ad eliminare i successori di Tiberio per poter aspirare all'impero.
Si moltiplicarono i processi per lesa maestà e Tiberio, con un comportamento che dalla descrizione di Dione si direbbe paranoico, colpì con questa accusa, spesso infondata, numerosissime persone.
L'anziano Cremuzio Cordo, persona di ottima reputazione, venne ad esempio condannato a morte perché una sua opera storica venne giudicata scarsamente rispettosa nei confronti di Cesare e di Augusto.


LIBRO LVIII

In quel periodo (26 d.C.), Tiberio decise di trasferirsi a Capri, ma a Roma continuarono le delazioni, i processi per lesa maestà e le esecuzioni sommarie: Dione ricorda il caso di Tizio Sabino che fu accusato di maldicenza contro Tiberio e giusitizato, sembra, senza regolare processo. (L'episodio è presente anche in Tacito che attribuisce la disgrazia di Sabino all'amicizia che questi aveva avuto per Germanico). Nel 29 d.C. morì Livia Drusilla, all'età di ottantasei anni. Tiberio, che si era tenuto lontano da lei negli ultimi anni, non permise che il Senato decretasse la sua divinizzazione e fece in modo che le venissero tributati onori funebri relativamente modesti. Livia venne sepolta nel mausoleo di Augusto.
Intanto Seiano continuava ad accrescere il proprio potere personale, ampliando continuamente la propria cerchia di amici e sostenitori. Quando di questa cerchia entrò a far parte Asinio Gallo, detestato da Tiberio perché aveva sposato l'ex moglie dell'imperatore Vipsania Agrippina e per motivi di rivalità politica, Tiberio reagì inviando una nota contro di lui al Senato. Subdolamente Tiberio - stando a Dione - convocò Asinio Gallo a Capri offrendogli un soggiorno in modo che non potesse difendersi mentre il Senato lo condannava.
Il povero Gallo non fu giustiziato né gli venne concesso di suicidarsi, ma venne condannato ad una lunga ed umiliante prigionia, secondo uno spirito di crudeltà attribuito a Tiberio da Dione come dalla maggioranze degli altri storici romani.
Dal canto su Seiano, che usava intrecciare relazioni con le mogli di tutti i cittadini importanti per essere aiutato nelle sue trame politiche, era divenuto amante di Livilla, moglie di Druso Cesare (figlio di Germanico e di Agrippina) ed andava muovendo contro questi una campagna diffamatoria.
Le manovre di Seiano portarono a molte delazioni e condanne, finché Tiberio non si rese conto di quale pericolo rappresentasse il suo prefetto e non decise di eliminarlo.
Con la solita ipocrisia (ma forse qui la narrazione risente di un luogo comune della tradizione), Tiberio fece in modo che Seiano ottenesse il consolato e grandissimi onori, quindi lo convocò a Capri dove lo trattò da suo pari. Nel contempo, però, Tiberio faceva in modo che circolassero voci contrastanti sulla propria salute e sui suoi rapporti con Seiano in modo da far vivere quest'ultimo in costante preoccupazione. Dopo aver operato per qualche tempo in modo che Seiano perdesse gran parte del suo prestigio e del favore popolare, Tiberio si decise, finalmente, ad attaccarlo direttamente.
Egli inviò da Capri il capo della sua guardia del corpo, Quinto Nevio Sutorio Macrone, latore degli ordini imperiali per il console Memmio Regolo e per i senatori più fidati. Macrone, che Tiberio aveva segretamente nominato nuovo prefetto, prese il comando della guardia pretoriana mentre Seiano si trovava in Senato.
Dione racconta vivacemente la seduta del Senato in cui venne letta la lettera di Tiberio che conteneva accuse contro il prefetto e contro alcuni senatori a lui vicini. La sostanza di queste accuse non è tramandata chiaramente ma si capisce che Tiberio ne limitò la portata per consentire ai suoi uomini di agire senza provocare tumulti. In effetti, al termine della seduta, il console Memmio Regolo procedette all'arresto di Seiano.
Nello stesso giorno il Senato si riunì nuovamante e considerando l'agitazione popolare che andava nascendo contro Seiano ed i suoi soprusi, pronunciò la condanna a morte.
Seiano, secondo Dione, fu precipitato dalle Gemonie, la scala che conduceva dal Campidoglio al Foro (ma dai Fasti risulta che venne strangolato) il 18 ottobre del 31. Pochi giorni dopo anche i suoi figli vennero giustiziati.
Apicata, moglie di Seiano, non venne condannata, ma dopo la morte dei figli denunciò in una lettera a Tiberio la complicità di Livilla con Seiano, quindi si suicidò.
Così anche Livilla e tutti gli altri complici di Seiano vennero individuati ed eliminati a loro volta. Alla morte di Seiano seguì un periodo di disordini in città, provocati soprattutto da quanti erano stati offesi o danneggiati dal comportamento tirannico di lui. Dione descrive anche l'ansia di molti senatori che lo avevano adulato ed onorato ed in generale il sollievo della popolazione per la fine del prefetto. Anche Tiberio fu sollevato, per essersi liberato del pericoloso personaggio, da una grande angoscia ma, come era suo costume, non lo dette troppo a vedere. Promosse comunque una serie di iniziative contro quanti avevano sostenuto Seiano e molti processi già conclusi furono ritenuti inquinati dall'influenza che il prefetto aveva esercitato sui tribunali e furono riaperti. Molti imputati scelsero di suicidarsi prima della sentenza per evitare le torture ed il disonore ed anche per salvare i beni destinati agli eredi dalla confisca che generalmente colpiva i lasciti dei condannati.
Tiberio continuò a vivere a Capri gestendo il potere da lontano ed ormai non dimostrava più alcun riguardo nei confronti della prassi istituzionale: assegnava e revocava, stando a Dione, le magistrature a suo piacimento ed intratteneva con il Senato rapporti formali ma densi di reciproci sospetti.
Nel 33 d.C. Tiberio si avvicinò a Roma ma sostò nei dintorni senza entrare in città.
In quell'anno si verificò una crisi finanziaria che fu mitigata dall'intervento di Tiberio che elargì mezzi propri alle casse dello Stato per rendere possibili aiuti a quanti si trovavano in difficoltà. Questo intervento permise a Tiberio di riconquistare qualche popolarità, tuttavia la sua immagine continuava ad essere oscurata dalle voci che correvano sui costumi dissoluti e licenziosi dell'imperatore in privato. Su di lui gravava anche la tragica morte di Agrippina e di Druso Cesare, moglie e figlio di Germanico, morti di inedia in esilio.
Dione esprime l'opinione, in contrasto con altre fonti, che Tiberio non amasse il nipote Tiberio Gemello, figlio di suo figlio Druso Cesare, e che preferisse come suo successore Gaio Caligola, figlio di Germanico, che in effetti nel 33 ottenne la questura per volontà di Tiberio. Dione avanza anche l'ipotesi che Tiberio avesse intuito la crudeltà di Caligola e previsto che il confronto con il successore favorisse la memoria del suo principato.
Gli ultimi anni di Tiberio vengono descritti come un periodo di vero terrore: utilizzando le confessioni estorte da Macrone con la tortura Tiberio deferiva i suoi avversari al Senato perché fossero condannati e messi a morte. Morirono moltissimi senatori e cavalieri tanto che la carenza di candidati rendeva problematica l'assegnazione delle cariche dei governi provinciali. Fra i vari casi menzionati è notevole quello di Mamerco Emilio Scauro che fu condannato per aver composto una tragedia (Atreo) dai cui versi Tiberio ritenne di essere stato offeso.
Nel 37 d.C. Tiberio si ammalò gravemente e morì dopo pochi mesi. Dione Cassio segue una fonte che coinvolge Caligola e Macrone nella responsabilità della morte di Tiberio: Caligola, complice il prefetto, avrebbe fatto morire di fame o per soffocamento l'infermo (Tacito non parla di Caligola ed attribuisce a Macrone l'ordine di soffocare Tiberio). Tiberio morì il 26 marzo del 37 d.C., a settantasette anni, dopo ventidue anni di principato.


LIBRO LIX

A Tiberio succedette Gaio detto Caligola, figlio di Germanico e di Agrippina. Il suo primo atto fu far invalidare il testamento di Tiberio che aveva nominato coerede suo nipote Tiberio Gemello, onorò invece i lasciti minori del defunto imperatore. In questo modo eliminò il rivale con il pretesto che era ancora un bambino senza rendersi odioso alla cittadinanza. Distribuì denaro a tutti i cittadini, spesso aggiungendo propri donativi, e distribuì anche i lasciti di Livia Drusilla che Tiberio aveva omesso di consegnare.
Nonostante i comportamenti iniziali che avevano permesso di sperara in bene, Caligola si dimostrò subito immaturo e dispotico. Dilapidò rapidamente le ricchezze dell'erario, accettò in un solo giorno tutti gli onori imperiali che il predecessore aveva rifiutato e si dedicò a sedurre donne sposate o promesse.
Concesse tutti i privilegi delle vestali alla nonna Antonia e alle sorelle Agrippina Minore, Drusilla e Livilla, si recò personalmente a recuperare le spoglie della madre e dei fratelli Nerone e Druso per deporle nella tomba di Augusto. Dopo aver fatto ciò, tuttavia, costrinse la nonna al suicidio per motivi banali e violentò le sorelle.
La personalità di Gaio era gravemente instabile e contraddittoria e le persone che erano in rapporti con lui avevano sempre grosse difficoltà nella scelta di comportamenti che non lo irritassero, tranne gli attori, i gladiatori e in genere gli uomini di spettacolo dei quali era completamente succube.
All'inizio del suo governo, Gaio era stato deferente presso i senatori e mostrò grande moderazione annullando tutti i processi di lesa maestà che erano iniziati sotto Tiberio e liberando quanti erano detenuti per questo reato.
Non accettò che il senato destituisse i consoli in carica per dargli il consolato, ma assunse la carica solo alla scadenza del mandato dei predecessori, avendo come collega lo zio Claudio. Si occupò quindi di dedicare la tomba di Augusto con una solenne cerimonia cui seguirono due giorni di festeggiamenti.
Dopo un primo periodo di relativa tranquillità, Gaio si ammalò gravemente ed accusò Tiberio Gemello di aver pregato per la sua morte, imputazione per la quale lo fece morire insieme a molte altre persone.
Alcuni adulatori che avevano votato la propria vita alla guarigione dell'imperatore furono costretti ad uccidersi per non commettere spergiuro mentre Marco Silano, suocero di Gaio, si suicidò perché sapeva di non essere gradito al genero.
Ripudiata Giunia Claudilla, figlia di Silano, Gaio rapì Cornelia Orestilla mentre stava per sposare Gaio Calpurnio Pisone e la costrinse a sposarlo ma presto la ripudiò e la mandò in esilio insieme a Pisone.
Sotto il consolato di Marco Giuliano e Publio Nonio (38 d.C.) Gaio varò alcuni apprezzati provvedimenti in materia fiscale e prestò soccorso alle vittime di un grave incendio, modificò le norme elettorali emanate da Tiberio. Inoltre prese decisioni deprecate da tutti dando libero sfogo alla sua sete di sangue, costrinse persone a combattere come gladiatori, emise arbitrarie sentenze di morte.
Fra i vari delitti di Gaio viene ricordato il caso di Macrone e di sua moglie Ennia che furono costretti al suicidio nonostante l'appoggio che Macrone aveva prestato a Gaio e la tresca dell'imperatore con Ennia.
Quando morì Drusilla (38 d.C.), sorella e concubina di Caligola, il marito Marco Emilio Lepido (anche lui amante dell'imperatore) pronunciò l'elogio funebre e la donna ebbe un funerale pubblico ed onori divini.
Pochi giorni dopo Gaio sposò Lollia Paolina togliendola al marito Memmio Regolo, quindi la ripudiò immediatamente.
L'anno successivo (39 d.C.), Gaio tenne il consolato per un mese cedendolo poi a Sanquinio Massimo. Continuarono le uccisioni e le condanne per i motivi più futili e si continuava a costringere persone di ogni rango a scendere nell'arena per combattere con i gladiatori o per affrontare le belve.
Fra i metodi escogitati da Gaio per rastrellare fondi era il commercio di gladiatori e di cavalli da corsa; i compratori venivano a volte costretti ad acquistare oppure agivano per compiacere l'imperatore ma spesso dopo aver venduto gladiatori o cavalli li faceva avvelenare per eliminare i rivali dei suoi preferiti.
Anche Dione ricorda la stravaganza di Gaio che invitava a banchetto il cavallo Incitatus e prometteva di farlo console.
Prendendo spunto dalle istanze del senatore Gaio Domizio Corbulone che lamentava scarsa manutenzione della rete viaria, Gaio multò esosamente tutti coloro che erano stati curatores viarum pretendendo la restituzione dei fondi erogati dallo stato per lavori che a suo dire non erano stati effettuati.
Per mitigare il carattere crudele e contraddittorio dell'imperatore, il senato gli decretava continuamente nuovi onori e quando fu proposta una processione trionfale Gaio ebbe l'idea di traversare a cavallo il mare e per farlo pretese di costruire un ponte di barche fra Pozzuoli e Baia (lungo circa 4,5 km). Lo attraversò cavalcando e indossando un'armatura, seguito da un corteo militare. il giorno successivo tornò su un carro trionfale fingendo di aver vinto una battaglia e di riportare bottino e prigionieri. Al termine del lauto banchetto che seguì, Gaio fece gettare in mare molti di quelli che avevano preso parte alla messa in scena che fortunatamente si salvarono perché il mare era molto calmo.
Il costo del ponte esaurì le casse statali e Gaio moltiplicò i processi, le condanne e le confische per procurare altro denaro. Fra le vittime di questa nuova fase persecutoria furono il senatore Calvisio Sabino, un certo Tizio Rufo, il pretore Giunio Prisco: tutti processati per futili motivi si suicidarono per prevenire la condanna.
Si salvò l'oratore Domizio Afro che durante il processo di fronte al senato si finse meravigliato dall'eloquenza di Gaio che ne fu lusingato e gli risparmiò la vita.
Per contro condannò a morte Lucio Anneo Seneca per invidia della sua eloquenza, poi lo graziò perché lo convinsero che Seneca stesse per morire di malattia.
Non trovando più in Roma fonti di denaro per finanziare le sue esosissime spese, Gaio partì improvvisamente per le Gallie dove si dedicò a spogliare i residenti benestanti con ogni pretesto, a sequestrare beni e a incamerare i donativi che spesso le popolazioni locali gli offrivano nella speranza di evitare il peggio.
Fra le innumerevoli vittime di Caligola, Dione ricorda ancora Lentulo Getulico, ex governatore della Germania, e Lepido marito di Drusilla. Fra gli esiliati fu anche Ofonio Tigellino, futuro prefetto di Nerone.
Gaio ripudiò Paolina per sposare Milona Cesonia che era sua amante ed aspettava un bambino.
Intanto l'imperatore intratteneva rapporti di amicizia con Agrippa I di Giudea e Antioco IV di Commagene, monarchi orientali non ben visti dalla popolazione romana.
Convocò e mandò a morte Tolomeo di Mauretania, figlio di Giuba II, forse per invidia (più probabilmente perché connesso a Getulico recentemente giustiziato).
Partito per una nuova spedizione nelle Gallie raggiunse l'Oceano come se intendesse salpare per la Britannia ma non si allontanò dalla costa e, come ricorda anche Svetonio, ordinò ai soldati di raccogliere conchiglie. In questa situazione era inevitabile che cominciassero i complotti. Ne fu scoperto uno e vennero giustiziati Anicio Ceriale, Sesto Pomponio ed altre persone.
Gaio cominciò a girare armato anche in città e a farsi sempre più sospettoso ed il clima di terrore e tensione aumentò di giorno in giorno, così come continuamente aumentavano le stravaganze dell'imperatore che spesso si travestiva per impersonare divinità, eroi o gente comune, non necessariamente di sesso maschile.
Nell'ottica della propria apoteosi, fece innalzare due templi dedicati a se stesso e si attribuì l'appellativo di Giove Laziare, nominò i sacerdoti fra gli uomini più ricchi esigendo per questo esosi compensi e consacrò al servizio servizio sacerdotale se stesso e il suo cavallo Incitato.
Quando Cesonia, dopo soli trenta giorni di matrimonio, partorì una bambina la chiamò Drusilla e l'affidò alle cure di Giove e di Minerva.
In genere la gente tollerava la megalomania di Gaio, i suoi vizi e le sue perversioni, ma quando esagerò con il prelievo fiscale cominciarono proteste dure e poiché furono subito represse nel sangue gli avversari di Gaio cominciarono a congiurare segretamente.
A capo della congiura erano Cassio Cherea e Cornelio Sabino ma molti altri vi aderirono, anche fra i collaboratori dell'imperatore.
Quando si tennero i Ludi Palatini, Gaio volle prolungare i festeggiamenti per aver modo di esibirsi personalmente nella danza e nella recitazioine. Secondo Dione i congiurati decisero allora di non sopportare oltre e, bloccato in un vicolo l'imperatore appena uscito dal teatro, lo pugnalarono a morte ed infierirono a lungo sul cadavere. Anche la moglie e la figlia vennero trucidate.
Gaio aveva regnato per tre anni, nove mesi e ventotto giorni (era il 24 gennaio 41).
Mentre il popolo abbatteva le statue di Gaio per dare finalmente sfogo all'odio verso il tiranno, i soldati dei reparti della Germania che formavano la guardia del corpo dell'imperatore manifestarono dissenso per l'accaduto; seguirono disordini e risse con varie vittime finché il consolare Valerio Asiatico riprese il controllo della situazione arringando al popolo.


LIBRO LX

Dopo l'uccisione di Caligola i consoli riunirono il senato per deliberare sul da farsi ma l'intera notte trascorse senza che si trovasse un accordo.
Dei soldati trovarono per caso Claudio nascosto in un angolo del palatium e lo condussero nel Castro Pretorio dove venne acclamato imperatore in quanto membro della famiglia imperiale. I consoli cercarono di opporsi per evitare che la decisione fosse presa dai pretoriani invece che dai senatori, ma infine cedettero e Tiberio Claudio Nerone Germanico, figlio di Druso figlio di Livia, ottenne il potere imperiale all'età di cinquant'anni.
Claudio era estremamente colto e intelligente ma di salute cagionevole, affetto da un vistoso tremore nelle mani e nella voce. Delicato dall'infanzia era stato educato dalla nonna e dalla madre, sempre in compagnia di donne e di liberti. Era dedito al vino e alla lussuria e quando vi si abbandonava diventava facilmente influenzabile.
I suoi consiglieri sfruttavano anche le sue paure per condizionare le sue decisioni, ma quando riusciva a comportarsi autonomamente era capace anche di atti degni di approvazione.
All'inizio dell'impero era molto sospettoso, faceva perquisire chiunque si avvicinasse e aveva sempre una guardia di soldati durante i banchetti.
Mandò a morte Cherea e parte dei suoi compagni e anche in questo caso prevalsero i suoi sospetti: Cherea infatti avrebbe potuto complottare anche contro di lui. Poco dopo Sabino preferì suicidarsi.
Con altri suoi potenziali avversari, invece, si mostrò clemente e arrivò a proclamare un'amnistia e ad abrogare l'accusa di majestas.
Abolì le imposte ingiuste istituite da Gaio, richiamò in patria gli esuli fra i quali erano anche Agrippina e Giulia e liberò i detenuti che erano stati condannati per reati politici e in generale eliminò le misure inique introdotte dal predecessore.
Dimostrò moderazione anche nel rifiutare titoli altisonanti e onori eccessivi. Anche in occasione del fidanzamento della figlia Ottavia con Lucio Giunio Silano e del matrimonio della figlia Antonia con Gneo Pompeo (al quale restituì il cognomen di Magno) evitò festeggiamenti fuori dalla norma e lasciò che le attività del senato e dei tribunali proseguissero regolarmente.
Restituì la Commagene a Antioco IV e regolò varie questioni in Asia annullando iniquità nei confronti di Mitridate Ibero, accrebbe il regno di Erode Agrippa I e di suo fratello Erode di Calcide.
Intanto Valeria Messalina, terza moglie di Claudio, era risentita nei confronti di Giulia Livilla, nipote dell'imperatore, per invidia e gelosia. Organizzò quindi una serie di accuse riuscendo a farla esiliare e più tardi a farla giustiziare. Fu esiliato anche il filosofo Anneo Seneca, presunto amante di Giulia Livilla.
Ancora in quell'anno 41 d.C. Sulpicio Galba, il futuro imperatore, sottomise i Chiatti e Publio Gabinio vinse i Cauci togliendo loro un'insegna romana presa durante il disastro di Varo.
Nel 42 Svetonio Paolino e Gneo Osidio Geta sottomisero i Mauretani. A questo proposito Dione racconta un curioso episodio: inseguendo i Mauretani sconfitti nel deserto Geta si trovò in grave difficoltà per mancanza di acqua ma un uomo del luogo che simpatizzava per i romani ed era evidentemente una sorta di stregone riuscì a far piovere abbondantemente con strani rituali ed incantesimi.
Claudio ebbe il consolato insieme a Gaio Largo ma dopo due mesi depose la carica lasciando che il collega la tenesse per l'intero anno.
Per risolvere definitivamente i problemi dell'approvvigionamento marittimo (il grano che si consumava a Roma era quasi tutto d'importazione), Claudio fece costruire il grande porto di Ostia, opera considerevole che comportò un enorme investimento.
Nell'organizzare i giochi gladiatori dei quali era particolarmente appassionato, Claudio non dimostrava la solita moderazione. Ne indiceva continuamente facendo in modo che vi perissero molti schiavi che egli odiava per il comportamento tenuto sotto Tiberio e Gaio.
Le trame di Messalina e dei liberti imperiali indussero con il tempo Claudio ad uno stato di continua preoccupazione per la propria vita che spesso lo portava a pronunciare condanne delle quali più tardi si pentiva.
Fra le sue prime vittime fu Gaio Appio Silano, già governatore di Spagna, al quale Claudio fece sposare la propria suocera ma quando Silano rifiutò le profferte libidinose di Messalina, calunniato dalla donna venne fatto morire.
> Questo episodio provocò la sfiducia popolare e venne ordita una congiura da Annio Viniciano che era stato un candidato alla successione di Caligola.
Viniciano prese contatti con il governatore della Dalmazia Furio Camillo Scriboniano il quale era altrettanto interessato all'eliminazione di Claudio ma si poneva l'obiettivo di restaurare la repubblica. Quando Scriboniano manifestò la propria idea, tuttavia, i suoi soldati mostrarono di non gradirla perché prevedevano nuove lotte civili e Sccriboniano fuggì da loro poi si uccise.
Anche Viniciano si uccise mentre Claudio, scoperta la congiura, mandava a morte molte persone anche a causa delle delazioni di Messalina e dei liberti imperiali.
Fra le molte vittime di queste persecuzioni si ricordava Arria, moglie di Cecina Peto, che volle morire insieme al marito condannato, anzi si pugnalò davanti a lui dicendo "non fa male".
Durante il suo terzo consolato (43 d.C.) Claudio abolì molte festività e relativi sacrifici riducendo i costi a carico dello stato. Nello stesso anno la Licia che si era ribellata venne sottomessa ed incorporata nella provincia della Panfilia.
Messalina e i suoi liberti spesso si facevano pagare per convincere Claudio a concedere la cittadinanza romana, le cariche pubbliche e ogni possibile privilegio. Inoltre Messalina dando prova di grande dissolutezza aveva molti amanti le cui mogli venivano obbligate a prostituirsi. Chi non intendeva partecipare a questi vizi o minacciava di denunciarla all'imperatore rischiava di perdere la vita come accadde a Antonio Giusto comandante della guardia pretoriana.
In quel periodo un certo Berico re degli Atredati (una tribù della Britannia) fu cacciato dal suo paese e convinse Claudio ad intervenire in suo favore, il comando della missione fu affidato a Aulo Plauzio. La spedizione fu ritardata dalla resistenza dei soldati all'idea di oltrepassare la Manica e combattere "oltre il mondo conosciuto". Una volta sull'isola Plauzio sottomise varie tribù con grandi difficoltà per il terreno ostico e sconosciuto. A questa impresa parteciparono il futuro imperatore Vespasiano e suo fratello Sabino.
Quando inseguendo i nemici giunsero alla foce del Tamigi Plauzio ritenne troppo pericoloso combattere sul terreno paludoso e ne informò Claudio che, ricevuta la comunicazione, decise di intervenire personalmente. Giunto a sua volta in Britannia con un'altra armata che unì alle legioni di Plauzio, Claudio conquistò Camuloduno ed altri territori, quindi ripartì per Roma lasciando a Plauzio il compito di completare la conquista della Britannia.
A Roma Claudio celebrò il trionfo ed ottenne il titolo di Britannico, valido anche per il figlio.
La celebrazione del trionfo e i relativi festeggiamenti si svolsero nel 44 d.C., consoli Gaio Crispo e Tito Statilio; in quell'anno Claudio operò riforme legislative e giudiziarie.
L'anno successivo, consoli Marco Vinicio e Statilio Corvino, l'imperatore ripristinò l'uso del giuramento collettivo dei senatori pronunciato da un solo membro, uso che era stato abolito da Caligola.
Nel 46 ebbero il consolato Valerio Asiatico (per la seconda volta) e Marco Silano. Asiatico si dimise prima della fine del mandato perchè preoccupato dall'invidia che il secondo consolato poteva procurargli.
Il suo predecessore Marco Vinicio fu fatto morire da Messalina per aver respinto le proposte di lei.
Asinio Gallio fratellastro di Druso cospirò contro Claudio ma se la cavò con l'esilio perché non aveva organizzato l'azione seriamente ed era ritenuto poco credibile. Claudio in questa occasione fu lodato per la sua clemenza ed erano frequenti i casi in cui riscuoteva il favore popolare, tuttavia la gente deprecava in lui la debolezza con cui si lasciava manipolare da Messalina e dai liberti.
Nel 47 Claudio fu console per la quarta volta insieme a Vitellio che era al terzo consolato. Venne processato e condannato Valerio Asiatico (in Dione l'accusa è di complotto mentre per Tacito si trattava di adulterio). Fu condannato anche Pompeo genero di Claudio ma Dione non indica l'accusa.
Durante una spedizione comandata da Aulo Plauzio in Britannia, Vespasiano si trovò in grave pericolo e fu salvato dall'eroico intervento del figlio Tito (ma la notizia non è accettabile per motivi cronologici, Tito era ancora un bambino).
Gneo Domizio Corbulone, comandante dell'esercito in Germania, riportò molte vittorie ma fu fermato da Claudio che era invidioso del suo successo.
Quando Messalina entrò in contrasto con i potenti liberti di Claudio la sua fortuna tramontò. La donna arrivò a celebrare il matrimonio con uno dei suoi amanti, Gaio Silio, Claudio non se ne rese conto finché non ne fu informato dal liberto Narcisso. L'imperatore, che si trovava ad Ostia, tornò a Roma e subito mandò a morte molte persone, quindi fece uccidere la stessa Messalina.
Dopo qualche tempo sposò la propria nipote Agrippina, madre di Nerone.
Appena sposata Agrippina cominciò a tramare per assicurare al figlio la successione e per procurargli grandi ricchezze. Inoltre portò alla rovina alcune donne della nobiltà fra cui Lollia Paolina, ex moglie di Caligola, che aveva aspirato a sposare Claudio dopo la morte di Messalina.
Convinse Claudio a fidanzare la propria figlia Ottavia con Nerone eliminando il precedente fidanzato Silano, e a adottare lo stesso Nerone mentre Britannico, figlio di Claudio e di Messalina, veniva ridotto a una condizione di prigionia di fatto.
Dione si sofferma sull'ingenuità di Claudio rispetto ai suoi liberti e a Agrippina. In occasione di una malattia di Claudio e della sua guarigione, Nerone offrì al popolo un agone ippico e Agrippina lo fece dichiarare da Claudio già pronto per amministrare le cose dello stato. Nerone sposò Ottavia figlia di Claudio mentre Britannico veniva ignorato da tutti o ritenuto demente.
Con il tempo tuttavia Claudio si rese conto della situazione, cominciò a trascorrere più tempo con Britannico e iniziò preparativi per dichiararlo ufficialmente suo successore. Quando Agrippina lo venne a sapere decise di passare alle vie di fatto e ricorse ad una nota avvelenatrice di nome Locusta che preparò una pozione mortale con la quale fu intossicato il cibo dell'imperatore.
Claudio morì durante la notte a sessantatre anni, dopo tredici anni di regno.
Narcisso, che era stato allontanato da Roma da Agrippina con un pretesto, fece in tempo a distruggere i documenti segreti in suo possesso e poco dopo venne ucciso (secondo Tacito si suicidò).
Claudio ebbe esequie imperiali mentre Agrippina e Nerone fingevano di piangerlo fra i sospetti di molti.


LIBRO LXI

Eredi di Claudio erano Britannico, figlio legittimo del defunto imperatore, e Nerone suo figlio adottivo. Nerore fece sparire il testamento di Claudio e divenne imperatore, poi eliminò Britannico e le sue sorelle,
Alla nascita di Nerone un astrologo aveva profetizzato che sarebbe stato imperatore e matricida, in quell'occasione Agrippina avrebbe pronunciato la frase "mi uccida purché regni" (per pentirsene amaramente in seguito).
Anche il padre Domizio aveva predetto la malvagità di Nerone mentre una pelle di serpente trovata sul collo di Nerone bambino fece dire agli indovini che avrebbe ricevuto il potere da un vecchio.
Assunse il potere a diciassette anni, come primo atto lesse nel Castro Pretorio il discorso preparato da Seneca che fece ben sperare i senatori. Subito Agrippina prese ad affiancare il figlio in ogni occasione, a gestire gli affari del governo per suo conto e a ricevere gli ambasciatori. Pallante, alleato di Agrippina, diventava sempre più odioso.
Seneca, precettore di Nerone, e Burro prefetto del pretorio, riuscirono ad estromettere Agrippina e per qualche tempo amministrarono il potere come meglio poterono.