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Giuseppe Flavio

Antichità Giudaiche


Prologo


Giuseppe apre la propria opera con una dichiarazione del principale motivo che lo ha spinto a comporla: la volontà di far conoscere al mondo la storia del suo popolo, le leggi e le tradizioni degli Ebrei. Anche durante la composizione della Guerra Giudaica, dice infatti Giuseppe, egli aveva avvertito il bisogno di chiarire al lettore le origini e la cultura del popolo ebreo.
Il prologo contiene inoltre la dedica all'amico Marco Epafrodito, al quale Giuseppe dedicò anche "Vita" e "Contro Apione".
Nell'esposizione di Giuseppe Flavio campeggia la figura di Mosè e la sua funzione di legislatore, quindi l'autore si accinge a parlare del patriarca e delle sue leggi con l'intento di dimostrare l'armonia di queste con la volontà di Dio e con la Natura. Rifacendosi ai discorsi di Mosè, Giuseppe che per i primi libri seguirà sostanzialmente la Bibbia, inizia la sua storia dalla Creazione.


Libro I


Nel primo giorno Dio creò il cielo e la terra, ordinò che apparisse la luce e separò le tenebre. Nel secondo separò il cielo dalla terra e la dotò dell'umidità che produce le benefiche piogge.
Nel terzo giorno circondò la terra con il mare ed in quella stessa giornata cominciarono a nascere piante e semi.
Nel quarto giorno creò il sole e gli astri.
Nel quinto giorno creò gli animali che volano e nuotano, nel sesto creò i quadrupedi e creò l'uomo.
Nel settimo giorno riposò e questo riposo è commemorato dagli Ebrei nel giorno di sabato, il cui nome significa "quiete".
Il primo uomo si chiamò Adamo, nome che significa rosso perchè era stato plasmato nell'argilla. Estraendogli una costola durante il sonno, Dio plasmò una compagna di Adamo e la chiamò Eva.
Dio creò infine un Paradiso Terrestre, il giardino dell'Eden ad Oriente ove crescevano l'albero della vita e quello della saggezza. Vi introdusse Adamo ed Eva proibendo loro di toccare quegli alberi. Ma il serpente, geloso di loro, indusse Eva a cibarsi del frutto dell'albero della saggezza ed Eva, a sua volta, convinse Adamo a fare altrettanto. Dio punì Adamo ordinando alla terra di non concedere più i suoi frutti se non a costo di dure fatiche, punì Eva con le doglie del parto e punì infine il serpente privandolo della parola e condannandolo a strisciare. Quindi Adamo ed Eva furono espulsi dal paradiso terrestre.
Adamo ed Eva ebbero due figli maschi, Caino e Abele, ed alcune figlie femmine. Abele era pio e giusto mentre Caino era avido e cattivo. Geloso della preferenza che Dio accordava ad Abele, Caino uccise il fratello, ma Dio lo maledisse, lo cacciò dalla terra in cui viveva e lo condannò a vagare per il mondo.
Caino trovò una dimora ed ebbe dei figli, ma visse nel vizio e nella violenza. Costruì la prima città che fu chiamata Enoc dal nome del suo primogenito. La discendenza di Caino, coinvolta nella maledizione divina fino alla settima generazione, coltivò le tendenze dell'avo e cominciarono così le guerre ed i crimini.
Adamo ebbe molti figli fra cui Seth che "coltivò la virtù e divenne un uomo eccellente". I suoi discendenti si dedicarono, fra l'altro, allo studio dell'astronomia.
Con l'andar del tempo i costumi peggiorarono e "molti angeli di Dio si unirono a donne generando figli orgogliosi, disprezzanti ogni virtù, pieni di fiducia nella propria potenza". Lo stesso Giuseppe Flavio sottolinea la similitudine fra questi esseri (per i quali attinge ad antiche tradizioni ebraiche) ed i giganti della mitologia greca.
Dio decise così di sterminare l'umanità con un diluvio e concesse la salvezza solo ad un uomo giusto di nome Noè ordinandogli di costruire un'arca per porre in salvo se stesso, la sua famiglia ed una o più coppie di ogni genere di animali.
Dopo duemiladuecentosessantadue anni dalla creazione di Adamo, iniziò il diluvio universale. Alla fine del diluvio Noè offrì sacrifici a Dio pregandolo di non ripetere in futuro una simile devastazione. Dio promise di accontentarlo e la vita ricominciò.
Noè aveva tre figli: Sem, Cam, Jafeth. Un nipote di Cam di nome Nebrode (Nimrod) pieno di orgoglio, cominciò a sobillare gli uomini contro Dio, istituì una tirannide e volle costruire una torre tanto alta che, nel caso di un altro diluvio, le acque non avrebbero potuto sommergerla. Cominciarono a costruire una torre immane e Dio li punì con la "discordia delle lingue" rendendo loro impossibile la reciproca comprensione.
Il luogo ove sorgeva la torre si chiamò Babilonia, da "babel" che in ebraico significa "confusione".
Da allora gli uomini si dispersero, fondando ovunque nuove colonie.
Dai figli di Noè derivarono dunque tutte le stirpi della Terra, come riepiloga Giuseppe derivando le informazioni dal Vecchio Testamento. Ripercorrendo in particolare la discendenza di Sem si giunge a narrare la storia degli Ebrei.
Novecentonovanta anni dopo il diluvio, da Terro (Terah), discendente di Sem, nacque Abramo.
Abramo e sua moglie Sara, non riuscendo ad avere figli, adottarono il fratello di lei di nome Lot, quindi per ordine divino lasciarono la Caldea per trasferirsi in Cananea.
Anni dopo, a causa di una carestia, Abramo decise di trasferirsi ancora dalla terra di Canaan in Egitto. Sapendo che gli Egiziani erano molto lussuriosi e che sua moglie era molto avvenente, decise di far credere che fosse sua sorella, cosa che - evidentemente - poteva garantire loro una qualche forma di protezione. Nondimeno il Faraone tentò di sedurre Sara, ma Dio punì la sua libidine con una pestilenza e con altre sventure. Avvertito dagli indovini della causa di tante disgrazie, il Faraone fece ammenda con Abramo e gli conferì molti onori. Abramo divenne famoso in Egitto per la sua saggezza ed insegnò agli Egiziani l'aritmetica e l'astronomia.
Tornato in Canaan egli divise le terre con Lot e abitò presso la città di Ebron.
In quel tempo gli Assiri conquistarono tutta la regione. Dodici anni dopo gli abitanti di Sodoma si ribellarono e furono sconfitti. Fra i molti prigionieri degli Assiri era anche Lot, che era accorso in aiuto dei Sodomiti. Lot e molti altri prigionieri furono liberati da Abramo che si precipitò in loro aiuto con un modesto contingente di uomini ma che, sorprendendo i nemici nel sonno, riuscì a metterli definitivamente in fuga.
Sulla via del ritorno, Abramo - ospite di Melchisedec re di Solima che più tardi si sarebbe chiamata Hierosolyma (Gerusalemme)- parlò con Dio e si dolse di essere privo di discendenza. Dio gli promise un figlio ed Abramo offrì sacrifici.
Sara offrì ad Abramo la sua schiava Agar che, unitasi al padrone, concepì un figlio. Inorgoglita di ciò, Agar divenne arrogante e fu scacciata.
Per ordine di un angelo, Agar tornò alla casa di Abramo e partorì Ismaele. A quel tempo Abramo aveva ottantasei anni. Quando ne ebbe novantanove Dio gli annunciò che avrebbe avuto un figlio da Sara e gli ordinò di chiamarlo Isacco e di circonciderlo.
Nello stesso periodo, Dio decise di punire i Sodomiti che erano diventati arroganti a causa delle loro molte ricchezze.
Abramo ricevette la visita di tre viaggiatori e li accolse con grande ospitalità. I visitatori annunciarono che presto Sara avrebbe avuto un figlio e poiché lei, ormai novantenne, sorrideva, rivelarono di essere angeli e di andare verso Sodoma per distruggerla.
Giunti a Sodoma, i tre messaggeri furono ospitati da Lot, ma la loro avvenenza scatenò la ben nota libidine dei Sodomiti e neanche l'offerta di Lot che si disse disposto a consegnare loro le sue figlie riuscì a placarli.
Dio punì i Sodomiti prima con la cecità e poi con la devastazione di un incendio immane.
Per volontà divina Lot fuggì portando in salvo la famiglia ma sua moglie, per essersi voltata a guardare le fiamme che divoravano Sodoma, fu trasformata in una statua di sale. La tradizione popolare la identificava con una colonna salina nel deserto che Giuseppe dice di aver visto.
Lot e le figlie trascorsero il resto della vita in un'oasi nel deserto, dai loro rapporti incestuosi nacquero Moab e Amman (Ben Ammin), rispettivamente capostipiti dei Moabiti e degli Ammoniti.
Abramo si trasferì ancora, a Gerar in Palestina. Ancora una volta Sara suscitò la libidine di un potente, il re Abimelech ma questi preavvisato da un malore e da un sogno della protezione divina di cui la donna godeva, lasciò stare le sue mire lussuriose e strinse un'alleanza con Abramo.
Poco dopo Sara partorì Isacco che fu prontamente circonciso. Sara cominciò ad insistere perché Abramo scacciasse Agar ed Ismaele ed Abramo, vedendo che Dio approvava ciò, finì con l'acconsentire. Madre e figlio rischiarono la vita nel deserto ma con l'aiuto di un angelo e di alcuni pastori sopravvissero. Ismaele, sposata una donna egiziana, ebbe dodici figli che si stabilirono nella regione detta Nabatea, fra il Mar Rosso e l'Eufrate, ed originarono tutte le stirpi degli Arabi.
Dio volle poi mettere alla prova la fede di Abramo ordinandogli di sacrificare l'amatissimo Isacco. Senza esitare, Abramo si preparò ad ubbidire e quando fu il momento informò Isacco sul suo destino. Isacco - ritenendosi onorato - si apprestò di buon grado a morire, ma Dio chiamò Abramo e lo fermò, compiacendosi per la sua fede e promise ad Isacco un'esistenza lunga e felice.
All'età di centoventisette anni, Sara morì. In seguito Abramo sposò Catura dalla quale ebbe sei figli.
Verso i quarant'anni Isacco sposò Rebecca, nipote di Nahor, fratello di Abramo. Il vecchio servitore inviato da Abramo (Eliezer) a prendere Rebecca, pregò Dio di fargliela riconoscere ed infatti fu lei la sola ad offrire a lui - stanco ed assetato - un poco d'acqua attinta dal pozzo. Il vecchio fu ospitato da Labano, fratello di Rebecca e capo della casa dopo la morte del padre. Labano acconsentì alle nozze ed Isacco sposò Rebecca.
Poco dopo Abramo morì, lasciando Isacco erede di tutte le sue sostanze poiché i figli avuti da Catura erano tutti emigrati. Rebecca partorì presto due gemelli: Esau e Giacobbe. Il primo era molto peloso (Esaurion=peloso) e molto caro ad Isacco, mentre Rebecca preferiva Giacobbe.
Quando una carestia colpì la sua terra, Isacco si trasferì presso Abimelech, memore dell'alleanza che questi aveva contratto con Abramo, ma Abimelech, geloso nel vedere che Isacco era benvoluto da Dio, dopo qualche tempo lo scacciò, per poi nuovamente riconciliarsi con lui.
A quarant'anni Esau sposò una donna cananea, all'insaputa del padre che non avrebbe approvato (l'endogamia era un precetto tradizionale presso gli antichi Ebrei). Isacco, che amava la pace e l'armonia, tuttavia accettò il fatto compiuto.
Divenuto vecchio e cieco, Isacco chiese ad Esau di andare a caccia per lui ma Rebecca, che come si è detto prediligeva Giacobbe, cercò di scambiare i figli perché il suo preferito ricevesse la benedizione paterna.
Su consiglio di Rebecca, Giacobbe uccise dei capretti e li cucinò per Isacco, quindi indossò una pelle caprina dissimulando la peluria di Esau.
Ingannato, Isacco dedicò a Giacobbe tutte le sue benedizioni. Quando rientrò Esau dalla caccia l'equivoco fu svelato ma il povero Esau dovette accontentarsi della profezia di grande fama di cacciatore, avrebbe però dovuto servire il fratello.
Rebecca ritenne opportuno allontanare Giacobbe da un'eventuale vendetta di Esau e lo mandò in Mesopotamia per prendere in moglie una figlia di Labano, fratello di lei.
Durante il viaggio, mentre attraversava la Cananea, Giacobbe ebbe un sogno profetico nel quale Dio prometteva quella terra alla sua discendenza.
Giunto in Mesopotamia, Giacobbe cominciò a cercare Labano, seppe che era ancora vivo e conobbe subito una delle sue figlie, Rachele. Accolto benevolmente da Labano, che in virtù della stretta parentela decise di ospitarlo e di affidargli il suo bestiame, Giacobbe chiese di sposare Rachele. Labano acconsentì alla richiesta a condizione che il giovane rimanesse prima per sette anni al suo servizio.
Giacobbe acconsentì ma quando, trascorso il tempo, si giunse alla prima notte di nozze, Labano introdusse nella tenda di Giacobbe, invece di Rachele, l'altra figlia Lia (Lea in Genesi 29, 17), alla quale Giacobbe, ubriaco ed inconsapevole, si unì.
Svelato l'inganno, Labano si giustificò con la necessità di sistemare quella figlia poco avvenente alla quale l'età dava comunque un diritto di precedenza sulla sorella minore. Così Giacobbe dovette aspettare altri sette anni per avere, finalmente, anche Rachele.
Da Lia, Giacobbe ebbe quattro figli: Ruben (che Giuseppe Flavio chiama Rubel), Simeone, Levi e Giuda.
Dalla concubina Bilha ebbe Dan e Neftali.
Dall concubina Zelfa (Zilpa in Genesi) ebbe Gad e Ascer.
Ancora da Lia nacquero Issacar, Zabulon ed una figlia di nome Dina, quindi Rachele ebbe un figlio che fu chiamato Giuseppe.
Dopo vent'anni trascorsi al servizio di Labano, Giacobbe chiese il consenso per partire, non ottenendolo decise di andarsene comunque con le sue due mogli e con i figli.
Labano inseguì i fuggitivi per giorni, ma una notte Dio gli parlò nel sonno e lo avvertì che avrebbe protetto Giacobbe. Giacobbe e Labano si incontrarono, parlamentarono e trovarono l'accordo, Labano tornò a casa e Giacobbe proseguì il viaggio verso la sua patria. Prossimo alla destinazione, Giacobbe sostò inviando messaggeri al fratello Esau del quale temeva ancora la collera.
Esau fu lieto del suo ritorno e si mosse incontro a lui con un grande seguito ma questo spaventò Giacobbe che preparò le difese come poteva.
Durante la notte Giacobbe incontrò un fantasma e lottò con lui. Dopo essere stato battuto, il fantasma rivelò di essere un angelo ed ordinò a Giacobbe di rallegrarsi della sua vittoria e di cambiare il nome in Israele (colui che si contrappone ad un angelo).
L'indomani Giacobbe incontrò Esau che lo accolse senza alcun risentimento, quindi proseguì per far visita ai genitori. Nella città cananea di Sichem, Dina - l'unica figlia di Giacobbe - fu rapita e violentata dal principe Sichem, che la chiese poi in moglie a Giacobbe. Prima che egli prendesse una decisione, Simeone e Levi liberarono la sorella e fecero strage degli uomini della città, compreso Sichem ed il re suo padre.
Giacobbe fu indignato per questa strage, purificò le tende e riprese il viaggio. Più avanti Rachele morì di parto, mettendo al mondo Beniamino.
Giunto ad Ebron, Giacobbe seppe che sua madre Rachele era morta, poco dopo morì anche Isacco, all'età di centoottantacinque anni.


Libro II


Giacobbe ed Esau spartirono il territorio ereditato dal padre. Il primo ebbe la regione di Ebron, il secondo il territorio che chiamò Idumea dal suo soprannome "Adom". Questo soprannome, che significava "rosso", derivava dal colore delle famose lenticchie per le quali un giorno lontano Esau aveva ceduto, quasi per gioco, a Giacobbe, i suoi diritti di primogenitura.
Giacobbe aveva un evidente preferenza per Giuseppe, che era nato da Rachele e da questa aveva ereditato una grande avvenenza. La gelosia dei fratelli crebbe contro Giacobbe e presto si fece odio. Ancora più gelosi divennero quando Giacobbe cominciò a narrare i propri sogni, sempre interpretandoli come presagi di futura supremazia, ed infine decisero di eliminarlo.
Solo Ruben, il maggiore dei fratelli, si oppose al fratricidio, ma dopo lunghe discussioni ottenne solo che Giuseppe, anziché ucciso, venisse abbandonato in un pozzo, per dargli almeno una possibilità di salvezza. Così fu fatto ma, allontanatosi Ruben, gli altri fratelli decisero di vendere il diciassettenne Giuseppe ad una carovana di mercanti di schiavi che transitava in quei luoghi.
A Giacobbe fecero credere che Giuseppe fosse stato sbranato da qualche animale, mostrandogli la sua tunica che avevano appositamente lordato di sangue.
Giuseppe venne portato in Egitto e qui venduto a Pentefre (Putifar nella Bibbia), sovrintendente alla cucine del re (comandante della guardia reale nella Bibbia). Pentefre si innamorò di Giuseppe e lo fece suo maggiordomo, ma anche la moglie di Pentefre si innamorò di Giuseppe. La donna si fece presto intraprendente ma vide le sue offerte respinte decisamente da Giuseppe scandalizzato. Alla fine la donna, umiliata ed esasperata dal rifiuto di Giuseppe, decise di procurarne la rovina accusandolo di aver tentato di usarle violenza. Naturalmente Pentefre le credette ed il povero Giuseppe finì in prigione.
Anche in carcere, con la dolcezza del suo carattere, Giuseppe riuscì a conquistare la benevolenza dei guardiani e dei compagni. Fra questi era il coppiere del re che era stato rovinato da un impeto di collera del sovrano. A questi Giuseppe predisse, interpretandone un sogno, che presto sarebbe stato liberato e reintegrato nelle sue mansioni. Anche un altro compagno di prigionia, che era il capo dei panettieri, volle farsi spiegare un sogno da Giuseppe, ma per lui Giuseppe previde una fine atroce ed imminente. Infatti dopo tre giorni il coppiere venne liberato ed il panettiere fu impiccato.
Ricordandosi di Giuseppe, dopo qualche tempo, il coppiere lo raccomandò al Faraone che era turbato da alcuni sogni che i suoi consiglieri non riuscivano ad interpretare.
A Giuseppe il Faraone raccontò il famoso sogno delle sette vacche grasse che venivano divorate da altrettante vacche magre dall'aspetto impressionante. Poco dopo il Faraone aveva sognato sette spighe rigogliose che venivano distrutte da altrettante spighe prive di frutto.
Giuseppe interpretò i segni annunziando sette anni di abbondanza ai quali sarebbero seguiti sette anni di terribile carestia ed esortò il sovrano ad accantonare nel primo periodo quanto sarebbe servito per resistere nel secondo.
Il Faraone, ammirato, non solo liberò Giuseppe, ma lo incaricò di provvedere in suo nome alla raccolta dell provviste, conferendogli ampi poteri. Giuseppe sposò Asenneth (Asenath nella Bibbia) di nobile famiglia egizia, ne ebbe due figli che chiamò Manasse ed Efraim.
Come egli aveva predetto, dopo sette anni felici, scoppiò una gravissima carestia, allora la previdenza di Giuseppe si rivelò preziosa ed egli divenne estremamente popolare.
Poiché la carestia colpiva anche Canaan, Giacobbe inviò tutti i suoi figli in Egitto, ad eccezione di Beniamino, a comperare provviste. Giuseppe riconobbe i fratelli quando si presentarono a lui per chiedere il permesso di acquistare ma non fu da loro riconosciuto e decise di far finta di nulla.
Giuseppe dimostrò di sospettare della lealtà dei suoi visitatori e li fece arrestare, dopo tre giorni acconsentì a farli ripartire con il grano ma trattenne Simeone in ostaggio ordinando loro di tornare con il fratello più giovane che avevano detto di avere.
Tornati a casa, i fratelli spiegarono la situazione a Giacobbe ma questi rifiutò di lasciar partire Beniamino finché la carestia non lo costrinse a cercare ancora in Egitto nuove provviste.
I fratelli tornarono in Egitto. Giuseppe li accolse benevolmente e liberò Simeone, quindi al momento della partenza ordinò al suo amministratore di nascondere nel loro grano l'oro con cui lo avevano pagato, come aveva già fatto la prima volta. Ordinò inoltre di nascondere una coppa d'argento fra le cose di Beniamino.
Durante il viaggio di ritorno i fratelli di Giuseppe furono circondati da soldati a cavallo ed accusati di aver rubato la coppa.
Beniamino, ovviamente inconsapevole, fu trovato in possesso della coppa e tutti furono riportati in presenza di Giuseppe dove si dimostrarono disperati ed umiliati. In effetti Giuseppe aveva ordito l'inganno per saggiare l'affetto dei fratelli verso il giovane Beniamino e quando li vide pronti a pagare con la propria vita pur di salvare il fratello minore, si rivelò, dichiarò di perdonarli per quanto gli avevano fatto tanti anni prima e li invitò a trasferirsi in Egitto con le loro famiglie.
Pentiti della loro colpa nei confronti di Giuseppe e lieti di averlo ritrovato, i fratelli si affrettarono a tornare a casa per prendere Giacobbe e portarlo in Egitto. Durante il viaggio Giacobbe esitò, ma Dio gli apparve in sogno rassicurandolo. Seguendo la Bibbia, Giuseppe Flavio dice che il gruppo familiare di Giacobbe che si mise in viaggio verso l'Egitto era composto da settanta persone.
Giuseppe andò incontro alla sua famiglia fino ai confini dell'Egitto e, dopo un emozionante incontro con Giacobbe, condusse tutti al cospetto del Faraone che riservò loro una benevola accoglienza.
L'accorta politica di Giuseppe permise all'Egitto di superare i sette anni di siccità e carestia e quando il Nilo tornò ad irrigare il terreno producendo ricchi raccolti, Giuseppe ed il Faraone restituirono i campi a quanti li avevano ceduti in cambio del grano, imponendo una tassa del venti per cento sui raccolti futuri.
Trascorsi diciassette anni in Egitto, Giacobbe - che aveva allora centoquarantasette anni, si ammalò. Prima di morire benedisse i suoi numerosi figli e predisse che la loro discendenza sarebbe tornata in Canaan. Ordinò, inoltre, che i figli di Giuseppe fossero considerati alla pari dei suoi (cioè li adottò) nella spartizione delle future ricchezze. Espresse infine il desiderio di essere sepolto in Ebron, desiderio che fu esaudito da Giuseppe ed il suoi fratelli trascorsero felicemente in Egitto il resto della loro vita.
Trascorse altro tempo, gli Ebrei accumularono ricchezze e suscitarono invidia e gelosia da parte degli Egiziani che presero a trattarli come schiavi. Per quattro secoli (ma il dato è tradizionale ed inconsistente così come in genere tutta la datazione degli eventi risulta molto problematica) gli Ebrei residenti in Egitto furono costretti ai lavori più duri.
Un indovino predisse al faraone che fra gli Ebrei sarebbe nato un personaggio pericoloso ed il re ordinò la soppressione per annegamento di tutti i neonati.
Il nobile ebreo Amram pregò Dio per la salvezza della sua gente e Dio gli parlò - in sogno come di consueto - rassicurandolo e svelandogli che proprio suo figlio era il temuto liberatore della profezia. Dopo qualche tempo la moglie di Amram mise al mondo un bambino eludendo la sorveglianza delle guardie, ma dopo tre mesi Amram, non illudendosi di poter riuscire per sempre a nascondere il piccolo, decise di affidarlo alla divina provvidenza e, messolo in una cesta incatramata, lo abbandonò nelle acque del Nilo.
Il piccolo fu salvato da Termuti (Tharmuth), la figlia del re che, mentre prendeva il bagno nel fiume, vide per caso la cesta ed udì i vagiti.
Miriam (che Giuseppe Flavio chiama Mariamme), sorella del bambino, aveva seguito di nascosto la cesta lungo il fiume e quando vide che la principessa cercava una balia per il piccolo si fece avanti e propose la madre, che nessuno conosceva, così, scampato il pericolo, il neonato potè tornare fra le braccia materne. La principessa volle chiamare il bimbo Mosè, salvato dalle acque.
Mosè divenne un bambino bellissimo e precoce. Termuti lo presentò al re proponendolo come erede (lei non aveva infatti avuto figli ed il re, evidentemente, non aveva figli maschi). Crebbe così alla corte del faraone acquistando molto prestigio, ma i notabili egiziani guardavano a lui con sospetto.
Quando gli Etiopi invasero l'Egitto, il faraone affidò a Mosè, ormai adulto, il comando dell'esercito. Mosè decise di attaccare il nemico di sorpresa e per farlo attraversò il deserto. Qui si ricorda un episodio singolare: per proteggere durante il cammino le sue truppe dai terribili serpenti che infestavano il luogo, Mosè avrebbe usato una "avanguardia" di ibis, trampolieri molto comuni in Egitto, nemici naturali dei rettili. Sconfitti gli Etiopi, Mosè li inseguì fino in patria e qui assediò la loro capitale Saba. L'assedio si rivelò molto difficile perche la città era circondata da due bracci del Nilo.
La figlia del re degli Etiopi, Tharbi, si innamorò di Mosè ed egli accettò di sposarla a condizione che la città si arrendesse senza combattere. Così fu stabilito e Mosè sposò la principessa.
Il successo di Mosè, tuttavia, suscitò rancori e gelosie, in particolare nel faraone che, temendo di vedere il suo potere diminuito, decise di farlo uccidere. Mosè se ne rese conto e fuggì attraverso il deserto. Dopo aver lungamente vagato giunse nei pressi della città di Madian, sul Mar Rosso. Qui gli capitò casualmente di assistere ad una disputa fra sette giovani pastorelle ed un gruppo di pastori sul diritto di attingere acqua da un pozzo. Mosè aiutò le ragazze che erano figlie del sacerdote Raguele (altrove detto Jetro o Hobab) che per riconoscenza lo adottò, gli fece sposare una delle figlie (Safforah) e lo fece sovrintendente delle sue greggi.
Così Mosè divenne pastore ed un giorno portò il suo bestiame al pascolo sul monte Sinai. Qui ebbe la famosa visione del fuoco che avvolgeva un cespuglio senza bruciarlo ed udì la voce di Dio che gli comandava di tornare in Egitto per liberare il suo popolo. Dio gli ordinò inoltre di tornare sul Sinai, durante il viaggio con il popolo verso la Terra dei Padri, per offrire sacrifici. Con vari prodigi Dio infuse fiducia e coraggio in Mosè e gli rivelò il proprio nome (Javeh) che Giuseppe Flavio, seguendo l'usanza degli Ebrei del suo tempo, dice di non poter trascrivere.
Mosè quindi prese con se la moglie Safforah ed i figli Eleazar e Gherson e ripartì per l'Egitto dove, nel frattempo, il faraone che aveva ordinato di ucciderlo era morto.
Grazie ai prodigi che aveva avuto il potere di compiere (bastone tramutato in serpente, acqua tramutata in sangue, ecc.) Mosè, aiutato dal fratello Aronne, convinse rapidamente gli Ebrei a seguirlo, quindi si presentò al nuovo faraone. Questi però non si fece impressionare dai prodigi compiuti da Mosè, anzi inasprì il lavoro e le condizioni di vita degli Ebrei i quali, ovviamente, se la presero con Mosè. Il faraone proseguì nel vessare gli Ebrei e non prestò attenzione agli avvertimenti di Mosè, allora orribili sciagure colpirono l'Egitto. L'acqua del Nilo divenne imbevibile e venefica, ma solo per gli Egiziani e non per gli Ebrei. Seguì un'invasione di rane che appestarono i campi ed il fiume, quindi gli Egiziani soffrirono terribilmente per i pidocchi, poi per una grave epidemia che copriva i loro corpi di piaghe. A questi flagelli seguirono la grandine e le cavallette. Durante questi eventi il faraone concesse più volte agli Ebrei il permesso di partire ma ogni volta, passato il pericolo, lo ritirò e non bastarono a convincerlo neanche tre giorni e tre notti consecutivi di tenebre fittissime.
Inflessibile, il faraone scacciò ancora Mosè che gli chiedeva di autorizzare la partenza degli Ebrei.
Fu lo sterminio dei primogeniti egiziani a convincere il faraone: egli, sollecitato dalla sua gente, chiamò Mosè e gli ordinò di partire con tutto il suo popolo per liberare l'Egitto da tante piaghe.
Come nella Bibbia, le case degli Ebrei, con le porte asperse del sangue delle vittime sacrificali, furono risparmiate dal flagello in quel giorno di Pasqua e l'autore cita la probabile etimologia della parola Pasqua che, in Ebraico, significherebbe "passare oltre".
Così, dopo 215 anni dal trasferimento di Giacobbe in Egitto, il popolo ebraico riprese la via di Canaan. Traversando il deserto si sostennero razionando le scorte di farina, intanto il faraone cambiò idea e decise di lanciare il proprio esercito all'insegnuimento degli Ebrei per riportarli in cattività.
Fu allora che avvenne il famoso miracolo del Mar Rosso: le acque si ritrassero e lasciarono che gli Ebrei, ormai intrappolati dagli Egiziani fra la montagna e la costa, proseguissero indisturbati verso la salvezza. Lanciatosi all'inseguimento, l'esercito egiziano fu inghiottito dalle onde e gli Ebrei, giunti sull'altra riva festeggiarono con grande gioia l'ormai sicura libertà.


Libro III


Ben presto, tuttavia, la sete e la fame cominciarono a farsi sentire, i profughi disperarono e Mosè rischiò il linciaggio. Con un primo prodigio egli riuscì a rendere potabile l'acqua velenosa di un pozzo incontrato lungo il cammino, quindi si rivolse a Dio chiedendo sostentamento.
Arrivò una "nuvola di quaglie" (questi uccelli, migrando a primavera dall'Africa verso nord, sostano infatti nella penisola dei Sinai). Subito dopo cominciò a cadere una rugiada dal sapore simile al miele (i semi della Tamaria Mannifera).
Di questo cibo squisito che pioveva dal cielo, gli Ebrei vissero per i quaranta anni che durò il loro viaggio.
Poco dopo Dio concesse a Mosè la facoltà di far sgorgare acqua dalla roccia semplicemente colpendola con il suo bastone.
Gli Amaleciti ed altre popolazioni delle regioni che andavano attraversando, preoccupati da quello che sembrava loro un tentativo di invasione, decisero di attaccare gli Ebrei.
Mosè, confidando come sempre nell'aiuto divino, organizzò tutti gli uomini atti a combattere ed affidò il comando a Giosuè, uomo molto capace e stimato da tutte le tribu. Gli Ebrei vinsero clamorosamente senza subire vittime, sterminarono i nemici e conquistarono un ricco bottino.
Dopo qualche giorno di festeggiamenti per la vittoria e di riposo, il popolo riprese la marcia ed in tre mesi raggiunse il monte Sinai dove Mosè aveva ricevuto l'ordine di riportare gli Ebrei nella loro terra.
Qui Mosè ritrovò la moglie Safforah, i suoi figli ed il suocero Raguele e si svolsero nuovi festeggiamenti. Su consiglio di Raguele, Mosè organizzò un sistema di gerarchie al quale delegò le incombenze amministrative e giudiziarie.
Mosè si ritirò quindi sul Sinai per incontrare Dio ed ordinò agli Ebrei di accamparsi alle falde del monte ed offrire sacrifici.
Egli rimase assente alcuni giorni ed i costumi si rilassarono ma molti furono presi anche dal timore di aver perduto la loro guida. Quando tornò, Mosè recava le tavole dei Comandamenti e riunì il popolo perché li ascoltasse direttamente dalla voce di Dio, e si udì una voce soprannaturale pronunciare le "dieci parole che Mosè aveva inciso sulle due tavole". Interessante notare che Giuseppe Flavio dichiara, a proposito di tali parole: "a noi non è lecito svelare palesemente alla lettera".
Mosè tornò sul Sinai e questa volta la sua assenza durò quaranta giorni. Quando gli Ebrei disperavano di rivederlo egli, improvvisamente, tornò fra di loro.
Da questo momento inizia il dettame della Legge Mosaica (Torah) che investe ogni aspetto della vita civile e religiosa. Si inizia con la costruzione della "tenda", sorta di tempio mobile che doveva fungere da sede per i riti sacri e per la preghiera.
Seguendo la Bibbia, Giuseppe Flavio fornisce una dettagliata descrizione della tenda, del recinto circostante e del lavoro di costruzione. Si costruì quindi l'Arca, nella quale racchiudere le tavole delle leggi e gli altri oggetti votivi, le tavole delle offerte, il candelabro a sette braccia, l'altare dei profumi e l'altare di bronzo.
Si realizzarono quindi gli abiti sacerdotali e quelli del grande sacerdote, arricchiti da una tunica tessuta in un solo telo. Anche di questi indumenti l'autore fornisce una dettagliata descrizione. Completati i lavori, Mosè per ordine di Dio, conferì il supremo sacerdozio al fratello Aronne.
Dopo sette mesi di lavoro, all'inizio del secondo anno dalla partenza dall'Egitto, gli Ebrei consacrarono la tenda ed i suoi arredi. Dio manifestò la propria presenza durante i rituali di consacrazione con fenomeni atmosferici e con un fuoco che consumò istantanemante le offerte sacrificali, lo stesso fuoco bruciò ed uccise Nadab e Abihu, figli ed assistenti di Aronne i quali, durante i preparativi, avevano commesso qualche irregolarità.
Da allora in poi Mosè si dedicò alla stesura della Legge, verificando la propria ispirazione in frequenti colloqui con l'Eterno nella nuova tenda sacra.
Dichiaratamente, Giuseppe Flavio si astiene dal dettagliare i termini delle leggi compilate da Mosè in quanto, mentre scriveva, coltivava l'intenzione di comporre un'altra opera esclusivamente dedicata all'argomento.
Dedica invece alcune pagine alla descrizione dei riti e dei sacrifici così come furono stabiliti in quei giorni, seguendo qui la descrizione dell'Esodo.
Dopo il periodo trascorso presso il Sinai per la preparazione della Legge, Mosè decise di riprendere il cammino, non senza ulteriore malcontento ed agitazione da parte del popolo che nonostante gli aiuti misteriosamente ricevuti continuava a temere per il proprio destino e, talvolta, a rimpiangere i tempi dell'Egitto.
Alla fine, giunti alla frontiera dei Cananei, Mosè decise di mandare avanti gli esploratori per accertare tutti gli aspetti della situazione.
Dopo quaranta giorni gli esploratori tornarono magnificando le qualità del territorio ma nel contempo portando notizie non liete sulle difese naturali e militari di quel paese e, quindi, sulla prevedibile difficoltà della conquista.
Per l'ennesima volta il popolo si ribellò a Mosè e ad Aronne che in questa circostanza rischiarono il linciaggio.
Mosè, dopo aver nuovamente colloquiato con l'Eterno, annunciò agli Ebrei che questa volta sarebbero stati puniti: solo ai loro discendenti sarebbe stato concesso di entrare nella Terra Promessa mentre il popolo dell'Esodo era ormai condannato a vagare per quarant'anni nel deserto.


Libro IV


Insofferenti alla vita del deserto, gli Ebrei contravvennero al divieto espresso in tal senso da Mosè ed attaccarono i Cananei. L'esperienza fu infelice, rapidamente sconfitti dai Cananei, gli Ebrei si scoraggiarono e si rivolsero di nuovo a Mosè il quale, per evitare danni peggiori, decise di riportare il popolo più indietro nel deserto, lontano dalla prevedibile rivalsa del nemico. In questo contesto scoppiò una rivolta sobillata da un certo Kore, ebreo di nobili natali, particolarmente invidioso del prestigio e del potere di Mosè.
Kore lavorò a lungo con calunnie e maldicenza: il suo obiettivo immediato era il supremo sacerdozio che voleva togliere ad Aronne del quale si dichiarava più meritevole per natali, ricchezze e capacità. Alla fine Kore riuscì a sollevare il popolo che si radunò intorno alla tenda invocando la destituzione di Aronne e la lapidazione di Mosè.
Abilmente Mosè placò gli animi dichiarando che Aronne avrebbe rinunciato alla propria carica di sommo sacerdote per rimettere la nomina al giudizio di Dio. Invitò dunque tutti coloro che aspiravano al sacerdozio ad presentarsi il mattino successivo alla Tenda con un incensiere riempito di profumi votivi. Nondimeno Mosè si recò da alcuni congiurati ed invocò contro di loro la punizione divina: prontamente la terra si aprì inghiottendo i congiurati dei quali non rimase traccia.
Quando i candidati al sacerdozio si presentarono come stabilito, il giudizio divino fu ben chiaro: un immane fuoco scaturì dal nulla e li incenerì tutti, erano duecentocinquanta, lasciando illeso il solo Aronne. Neanche questo servì a calmare i disordini: il popolo attribuì infatti alle "macchinazioni di Mosè" una punizione così severa contro la migliore aristocrazia ebraica.
Ma ben presto si verificò un altro miracolo: su iniziativa di Mosè ogni tribù recò un bastone nella Tenda consacrata e l'indomani quello di Aronne era fiorito e carico di mandorle. Davanti a questo ennesimo ed indiscutibile segno della volontà divina, gli Ebrei si trovarono finalmente concordi nel lasciare ad Aronne ed alla sua tribu (i Leviti) l'onore del sommo sacerdozio.
Così i Leviti vennero esentati dagli obblighi militari per dedicarsi al servizio sacerdotale e Mosè stabilì a loro favore generose contribuzioni pubbliche affinché il lavoro non li distogliesse dai loro uffizi.
Gli Ebrei ripresero il loro cammino e ostacolati dagli Edomiti furono costretti, per evitare la guerra, a scegliere un percorso più lungo.
Quell'anno morì Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, alla quale gli Ebrei dedicarono esequie solenni. Poco dopo morì anche Aronne, all'età di centoventitre anni, dopo aver consegnato i suoi paramenti sacerdotali al figlio Eleazaro.
Dopo un mese di lutto gli Ebrei ripresero il cammino ed arrivarono alla terra degli Amorrei. Mosè inviò ambasciatori al re degli Amorrei Sichon per chiedere il permesso di transito ed acquistare provviste ma il re si dimostrò ostile. Questa volta Mosè, con il consenso divino, decise di combattere e vinse clamorosamente: gli Ebrei misero in fuga gli Amorrei e conquistarono un ricchissimo bottino.
Poco dopo gli Ebrei si scontrarono con l'esercito di Og, re di un distretto limitrofo, giunto tardivamente in soccorso di Sichon e riportarono una nuova vittoria e nuove conquiste.
Balac, re dei Moabiti, preoccupato per l'avvicinarsi degli Ebrei al suo paese, decise di consultare il famoso indovino Balaam che viveva oltre l'Eufrate. Con le sue capacità divinatorie Balaam comprese che Dio era favorevole agli Ebrei ma, cedendo alle insistenze del re, si mise in viaggio per recarsi a corte.
Durante il cammino Balaam fu avvicinato da un angelo che gli fornì gli ordini dell'Eterno sul comportamento da tenere. Infatti, giunto al cospetto del re, Balaam offrì sacrifici e predisse grande gloria e fortuna per il popolo di Israele. Chiaramente Balac, che aveva convocato l'indovino perché maledicesse gli Ebrei, ascoltò con indignazione il discorso di Balaam e lo scacciò dal suo paese.
A questo punto, pur confermando di sapere che gli Ebrei erano un popolo protetto da Dio e quindi impossibile da distruggere, l'indovino decise di spiegare ai Moabiti come procurare ai nemici almeno un danno temporaneo.
Su consiglio di Balaam, tutte le donne più giovani ed avvenenti di Moab si misero a frequentare il campo degli Ebrei e dopo aver conquistato i giovani li indussero a sposarle ed a rinnegare la loro religione. Questa situazione, chiaramente, portò presto a dissensi e ribellioni ma i trasgressori ebbero la peggio, prima ad opera della fazione ortodossa capeggiata da Fineas, figlio di Eleazaro, poi a causa di un'opportuna pestilenza "selettiva" che sterminò quattordicimila persone. Mosè decise dunque che era il caso di muovere guerra contro Balac. Anche in questa guerra gli Ebrei risultarono vittoriosi e conquistarono molte città e ricchezze.
Alla fine del conflitto Mosè, ormai molto vecchio, passò il comando supremo a Giosuè.
Da questo punto in avanti, praticamente fino alla fine del quarto libro, il racconto di Giuseppe Flavio riassume i tre lunghi discorsi che Mosè rivolge al popolo nel Deuteronomio, i quali discorsi, a loro volta, riepilogano gli eventi ed annunciano il codice mosaico dal punto di vista pratico-legislativo e da quello etico-religioso.
Di tratta di una vasta raccolta di disposizioni in maniera civile, giudiziaria e religiosa che vanno dall'organizzazione civica al diritto matrimoniale, alle leggi in materia di testamento.
Filo conduttore dei discorsi di Mosè è la raccomandazione di vivere nell'osservanza della Legge: unica garanzia per conservare la benevolenza di Dio e la felicità che ne deriva.
Si nota, leggendo queste pagine e quelle corrispondenti del Deuteronomio una concezione tutto sommato materialista dei benefici conseguiti dall'osservante: egli godrà di felicità e benessere, della fruizione di generose ricchezze che Dio vorrà concedergli e la sua memoria sarà perpetuata da un'ampia e non discontinua discendenza. Concetti dunque legati all'esistenza terrena molto più delle promesse di beatitudine e vita eterna che contraddistingueranno il pensiero cristiano.
Sul finire della sua vita, Mosè convocò in assemblea generale tutto il suo popolo e fece a tutti giurare di osservare sempre la legge, quindi benedisse tutti gli Ebrei ed esortò Giosuè a guidarli contro i Cananei alla conquista della Terra Promessa oltre il Giordano.
Mentre il popolo piangeva disperatamente, Mosè - accettando la sola compagnia di Eleazaro e di Giosuè - salì sui monti dominanti la valle del Giordano, dai quali potè vedere oltre il fiume il paese dei Cananei.
Subito dopo morì scomparendo misteriosamente in una nube.
Aveva vissuto centoventi anni, di cui quaranta nel deserto alla guida del popolo.


Libro V


Trascorso il periodo di lutto, Giosuè iniziò i suoi preparativi inviando esploratori oltre il Giordano e radunando cinquantamila uomini in armi.
Presto tornarono gli esploratori che avevano rischiato di essere catturati ed erano stati aiutati a fuggire da una donna cananea di nome Raab (albergatrice in Giuseppe Flavio, prostituta nella Bibbia).
Guidati da Giosuè e dai sacerdoti, gli Ebrei oltrepassarono il Giordano mentre l'aiuto divino mitigava la corrente del fiume che era privo di ponti. Giunti sull'altra riva posero il campo, eressero un altare e celebrarono riti e sacrifici. Raccolsero il grano dei campi ed un ricco bottino e "dopo averli nutriti per quarant'anni, la manna cessò".
Poichè i Cananei si erano asserragliati fra le mura della loro principale città, Gerico, Giosuè mise a punto uno strano piano: fece girare per sette giorni intorno alla città un manipolo di armati seguiti dai sacerdoti; la processione procedeva suonando i corni e gridando finché - al settimo giorno - le mura di Gerico crollarono. Subito dopo l'esercito degli Ebrei irruppe nella città e fece strage di tutti gli abitanti, risparmiando solo Raab che aveva aiutato gli esploratori e tutti i suoi parenti.
Per ordine di Giosuè, nessuno prese nulla di prezioso e l'enorme bottino di oro, argento e bronzo entrò nel tesoro comune custodito dai sacerdoti. Solo un tale Achar, della tribu di Giuda, si impadronì di alcuni oggetti preziosi e li nascose nella propria tenda.
Quando poco dopo gli Ebrei subirono una modesta sconfitta, Giosuè seppe da Dio che la disgrazia era dipesa dal furto di oggetti consacrati: Achar fu presto smascherato e giustiziato.
Purificato così il suo esercito, Giosuè conquistò facilmente la città di Naja che era stata teatro della precedente sconfitta.
Fra i Cananei, i Gabaoniti e altre popolazioni, cercarono l'amicizia degli Ebrei dai quali temevano di essere sterminati e, riusciti a stipulare un patto di alleanza fingendosi non Cananei, una volta scoperti furono costretti ad accettare condizioni poco onorevoli per garantirsi la salvezza.
Il re di Gerusalemme ed i suoi alleati, indignati per il comportamento dei Gabaoniti, mossero loro guerra.
Giosuè intervenne e si svolse la famosa battaglia nel corso della quale Dio, per agevolare i suoi protetti, fermò il corso del sole prolungando la durata del giorno.
Muovendo dall'accampamento di Galgala (anche detta Ghilgal), gli Ebrei portarono progressivamente la guerra in tutta la regione circostante. La "Terra Promessa" era abitata da una moltitudine di popolazioni fra cui i più importanti erano i Cananei (corrispondenti ai Fenici) stanziati nelle regioni costiere ed i Palestinesi nelle pianure interne.
Davanti alla minaccia dell'invasione, Cananei e Palestinesi si allearono organizzando un potente esercito contro il quale Giosuè riportò una grande e definitiva vittoria. I Cananei superstiti si chiusero nelle loro città fortificate impegnando gli Ebrei in lunghi e difficili assedii. Ma Giosuè decise che era arrivato il momento di prendere concretamente possesso delle regioni conquistate. Rimandò indietro le tribù alle quali, ai tempi di Mosè, erano state assegnate le terre oltre il Giordano a condizione che contribuissero comunque alla guerra contro i Cananei ed istituì una commissione incaricata di misurare e dividere i nuovi territori conquistati. Si procedette quindi all'assegnazione delle terre alle tribu. Dopo venti anni morirono Giosuè ed Eleazaro, quest'ultimo lasciò il sacerdozio al figlio Fineas.
Il compito di tener testa ai Cananei, che durante quegli anni si erano ripresi dalle molte sconfitte subite, fu affidato alla tribu di Giuda.
Continuando a combattere contro i Cananei, gli Ebrei si espansero ancora verso sud e giunsero ad assediare Gerusalemme, della quale non riuscirono tuttavia ad espugnare la parte alta.
Alla lunga, però, gli ardori bellici si sedarono e le varie tribù ebraiche cominciarono a tollerare la presenza dei Cananei nelle regioni conquistate limitandosi ad esigere un tributo. Con la pace ed il benessere anche i costumi e l'osservanza delle Leggi si rilassarono. Dalla morte di Giosuè non era più stato eletto un consiglio di anziani e, presto, questa situazione di anarchia causò discordie e lotte civili. Pretesto per lo scoppio di una guerra civile fu un episodio di stupro ai danni della moglie di un levita, subito in una città della tribu di Beniamino mentre si trovava in viaggio. La donna morì ed il marito chiese vendetta a tutte le tribu. Gli Israeliti armarono subito il loro esercito contro quella città (si chiamava Gaba) che aveva rifiutato di consegnare i colpevoli e la attaccarono. Gli abitanti di Gaba erano abili e bellicosi ed inflissero due sconfitte agli attaccanti ma alla fine furono massacrati e la città distrutta. Successivamente tutti gli Israeliti concordarono di soccorrere i pochi superstiti della tribu di Beniamino per evitare che la tribu stessa avesse ad estinguersi.
In quel periodo anche i Daniti (tribu di Dan) caddero in disgrazia a causa dei Cananei che avevano trovato modo di riorganizzarsi e di scacciarli, così i Daniti furono costretti a trasferirsi in una regione non distante dalla città di Sidone.
Ad un certo punto gli Israeliti furono sopraffatti dagli Assiri che li sconfissero, imposero loro tributi e li assoggettarono. Dopo otto anni di questa situazione, gli Ebrei guidati da un capo di nome Keniazo (Otniel figlio di Kenaz), della tribu di Giuda, riuscirono a ribellarsi e a ricacciare gli Assiri oltre l'Eufrate. Keniazo prese il potere e governò per quaranta anni, ma alla sua morte gli Ebrei furono di nuovo soggiogati, questa volta da Eglon, re dei Moabiti.
La situazione fu risolta da un giovane di nome Giuda che con un attentato eliminò Eglon e quindi guidò la rivolta che portò alla cacciata dei Moabiti. Anche Giuda assunse il comando e governò per ottant'anni. Dopo di lui il potere passò a Sanagar (Shamgar) che, tuttavia, morì nel primo anno di governo.
Le disavventure degli Ebrei continuarono (secondo l'autore a causa della loro scarsa osservanza religiosa) ed essi divennero sudditi di Jabin, re dei Cananei.
Dopo vent'anni gli Ebrei rivolsero particolari preghiere a Dio tramite la sacerdotessa Debora, quindi affidarono al giovane Barak il comando di un esercito di diecimila uomini, sotto i migliori auspici oracolari di Debora. Barak volle associare Debora al comando e gli Israeliti, aiutati anche da una tempesta che si dimostrò loro favorevole, ebbero la meglio sui Cananei, pur molto più numerosi. Riconquistata la libertà, Barak governò per quarant'anni.
Dopo la morte di Barak e di Debora, sorse un nuovo problema, costituito dai Madianiti che per sette anni tormentarono gli Ebrei con incursioni e saccheggi.
Gedeone, un giovane della tribu di Manasse, avuta una visione di Dio ed un sogno profetico, decise di combattere contro i Madianiti. Radunò un esercito di diecimila uomini ma fra questi, su consiglio di Dio, ne scelse solo trecento.
Ancora per ispirazione divina, Gedeone penetrò con un solo compagno nell'accampamento nemico e qui, origliando fuori da una tenda, sentì un comandante madianita raccontare un sogno premonitore che gli aveva svelato l'imminente rovina del suo esercito. Preso coraggio da questo episodio, Gedeone decise di rompere gli indugi ed attaccare.
L'attacco fu condotto di notte e portò grande confusione nel campo nemico, sfruttando la sorpresa Gedeone conquistò una prima vittoria e ben presto tutti gli Israeliti, incoraggiati dal suo esempio, presero le armi e sterminarono i Madianiti.
Gedeone, di carattere schivo e modesto, non avrebbe voluto il comando ma fu costretto ad assumerlo. Contro di lui erano solo gli abitanti della sua città natale, Ofra, offesi perché aveva preso l'iniziativa senza avvertirli, ma Gedeone seppe risolvere diplomaticamente la controversia e governò felicemente per quarant'anni.
Gedeone lasciò settanta figli legittimi ed un illegittimo di nome Abimelech. Questi assoldò un manipolo di loschi figuri, uccise tutti i fratelli e, assunto il potere, prese a governare da despota. L'unico fratello superstite, Jotham, costretto a darsi alla macchia, lavorò contro Abimelech finché questi non fu cacciato da Sichem, sua città di residenza. Contro i Sichemiti, che pure lo avevano aiutato a salire al potere, Abimelech combattè senza pietà, fino al loro completo sterminio. Follemente inebriato di potere e violenza, Abimelech passò ad attaccare la vicina città di Thema, ma morì durante l'assedio ed il suo esercito si smembrò rapidamente.
Seguirono ventidue anni sotto la guida onorevole del giudice Jair. Successivamente gli Ebrei furono attaccati dagli Ammoniti ed affidarono il comando al sacerdote Jefte il quale sconfisse gli Ammoniti ma pagò cara la sua vittoria: aveva infatti giurato di offrire in sacrificio, se fosse tornato a casa vincitore, "tutto ciò che avrebbe incontrato per primo" e la prima a venirgli incontro fu la sua giovanissima figlia che, suo malgrado, dovette offrire in olocausto.
Jefte ebbe il potere ma contro di lui si sollevò la tribu di Efraim: ne seguì una guerra civile che arrecò gravissime perdite agli Efraimiti.
Jefte governò per sei anni e lasciò il posto ad Aspane (Ibzan) il cui governo durò sette anni senza episodi degni di nota. Seguirono Elon ed Abdon che furono a loro volta giudici durante un periodo di tranquillità.
Dopo la morte di Abdon, gli Israeliti furono assoggettati dai Palestinesi ai quali, per quarant'anni, furono costretti a versare un tributo.
Viveva a quel tempo un uomo di nome Manoch (Manoak), della tribu di Dan, che aveva una bellissima moglie della quale era molto innamorato e molto geloso. Il cruccio di Manoch era la mancanza di figlio, ma un angelo annunciò alla moglie che ne avrebbe avuto uno grande e fortissimo che sarebbe stato in grado di liberare la sua gente a condizione di non tagliarsi mai i capelli e di non bere altro che acqua.
Quando il figlio di Manoch nacque fu chiamato Sansone.
Cresciuto, Sansone conquistò grande fama per la sua forza (una volta uccise un leone a mani nude) e si fidanzò con una ragazza palestinese.
Sansone era molto temuto nella città della sua fidanzata dove fu attorniato da una trentina di compagni che, in realtà, avevano il compito di sorvegliarlo.
Sansone, per un secondario episodio, comprese l'inganno, lasciò la ragazza e giurò vendetta contro i Palestinesi.
Così egli cominciò a devastare i campi dei Palestinesi e ad uccidere molti di loro.
I Palestinesi iniziarono delle rappresaglie sugli Ebrei che finirono per arrestare Sansone e consegnarlo ai suoi nemici, ma Sansone riuscì a liberarsi e a fuggire, uccidendo ancora altri Palestinesi.
Quindi si trasferì a Gaza ma anche in questa città gli abitanti cercarono di catturarlo ed egli dovette di nuovo fuggire riparando sulle colline.
Più avanti Sansone si innamorò di una prostituta palestinese di nome Dalila. Per ordine dei capi del suo popolo, Dalila usò tutte le sue arti di seduzione per scoprire il segreto della forza di Sansone ma egli, accortamente, più volte la ingannò riuscendo sempre a salvarsi dalle insidie dei Palestinesi. Alla fine, ubriaco, Sansone confidò a Dalila il segreto: la sua forza era legata alla folta chioma che, per ordine di Dio, aveva curato fin dall'infanzia e non aveva mai tagliato. Ovviamente Dalila tagliò i capelli di Sansone mentre questi dormiva e i Palestinesi riuscirono facilmente a catturare l'eroe, lo accecarono e lo chiusero in prigione.
Passò del tempo ed i capelli del prigioniero ricrebbero.
Quando, durante una festa dei Palestinesi, egli fu condotto in pubblico per essere deriso dalla folla, aveva ormai riacquistato forza sufficiente per svellere le colonne del tempio facendolo crollare. Morirono così tutti gli astanti, oltre tremila persone e nel crollo morì anche Sansone, che era stato giudice degli Ebrei per vent'anni.
Dopo la sua morte il governo passò al sommo sacerdote Eli. In quel periodo si verificò una grave carestia che costrinse molti ad espatriare. Una coppia di Bethlemme, Abimelech e Naamis (Naomi) si trasferì nella terra di Moab, ma dopo dieci anni Abimelech e i suoi figli morirono e Naomi, addolorata, decise di tornare in patria. Una delle sue nuore, di nome Ruth, volle seguirla. Le due donne furono accolte da Boaz, parente di Abimelech. Secondo la legge e le consuetudini semitiche del tempo, il parente più prossimo di un defunto aveva il diritto ed il dovere di sposarne la vedova e di garantirgli la discendenza. Boaz rintracciò colui che aveva diritto per parentela all'eredità di Malaon (figlio di Abimelech e marito di Ruth) e gli impose di sposarla, ma poiché quello rifiutava, Boaz stesso sposò la giovane e ne ebbe un figlio di nome Obed che fu allevato da Naomi. Figlio di Obed fu Jesse e da Jesse nacque Davide che fu re ed i cui discendenti detennero il regno per ventuno generazioni.
Il sommo sacerdote Eli aveva due figli di nome Ofnie e Finees che erano violenti, corrotti e malvisti dal popolo. Perirono entrambi in una battaglia contro i Palestinesi, che in quell'occasione riuscirono ad impadronirsi dell'Arca dell'Alleanza.
Appresa la notizia della disfatta, Eli morì, dopo quarant'anni di sacerdozio.
La sconfitta era stata predetta dal profeta Samuele che, a quel tempo, aveva solo dodici anni.


Libro VI


Tutte le città di Palestinesi che ospitarono l'Arca furono colpite da grandi tragedie, epidemie, invasioni di topi e simili.
Alla fine gli anziani proposero di caricare l'arca su un carro trainato da giovenche, ornarla di offerte votive e lasciarla andare. Le bestie trainarono l'Arca fino ad un villaggio ebreo dove fu accolta con grande festa e commozione, tuttavia quelli che, senza essere sacerdoti, la toccarono furono sterminati dall'ira dell'Eterno, come di consueto. Allora l'Arca fu affidata ad un levita che la custodì per vent'anni.
Durante quel periodo fu attivo il profeta Samuele che riuscì a sollevare il popolo contro i Palestinesi oppressori e a riconquistare i territori perduti. Sconfitti i Palestinesi, Samuele assunse il potere come giudice e si dedicò ad amministrare la giustizia.
Quando Samuele divenne vecchio delegò parte del potere ai suoi figli (Ioel e Abia) ma questi si dimostrarono iniqui e corrotti ed il popolo pretese che Samuele scegliesse un re. Samuele, contrario alla monarchia, fu profondamente angustiato dalla situazione ma Dio, non senza annunciare un nuovo periodo di sciagure, gli ordinò di eleggere il re che gli avrebbe indicato.
In quei giorni il giovane Saul, figlio di Kis della tribu di Beniamino, arrivò nella città di Samuele in cerca di certe asine perdute dal padre. Dio indicò a Samuele che quello era l'uomo destinato a diventare re ed il profeta accorse ed ospitò il giovane nella propria casa. L'indomani Samuele unse il giovane e gli ordinò di tornare a casa per prendere congedo dalla famiglia prima di assumere il potere. Saul, tuttavia, preferì non raccontare a parenti ed amici quanto gli era capitato temendo di divenire oggetto di invidia o di derisione.
Dopo qualche tempo Samuele ordinò al popolo di estrarre a sorte il re, ben sapendo che, per volontà divina, la scelta sarebbe ricaduta su Saul. Saul si mostrò schivo e modesto quando fu presentato ai suoi sudditi, del resto molti Ebrei erano scettici sulla sua elezione non ritenendolo all'altezza del compito.
Un mese dopo Naas, re degli Ammoniti, fornì a Saul l'occasione per guadagnare gloria e prestigio attaccando i Giudei e minacciando la strage. Saul reagì prontamente, radunò un poderoso esercito, sconfisse i nemici ed uccise lo stesso Naas. Fra il giubilo popolare, Samuele ripetè la cerimonia di incoronazione di Saul che questa volta venne unto pubblicamente. Ebbe così termine l'"età dei giudici" (governo aristocratico) ed iniziò l'epoca della monarchia.
Nonostante tutto, Samuele continuò a rinfacciare al popolo di aver peccato preferendo la guida di un re a quella di Dio.
Ben presto si prospettò un nuovo scontro con i Palestinesi e Saul chiamò Samuele a fargli da consigliere. Samuele comunicò che sarebbe venuto a lui dopo sei giorni ma Saul, vedendo che i suoi soldati disertavano a causa delle minacce preparate dal nemico, non seppe aspettare, anticipò i sacrifici rituali e si preparò a combattere. Quando arrivò Samuele lo rimproverò, indignato per la sua fretta e se ne tornò a casa. Così Saul affrontò il nemico privo del consiglio del profeta, con una modesta guarnigione e con suo figlio Gionata.
Fu proprio Gionata a compiere un'impresa eroica e a risolvere la situazione: egli infatti in compagnia solo del suo scudiero penetrò notte tempo nell'accampamento dei nemici e ne fece strage. Ora pare che i Palestinesi a causa della "moltitudine di etnie" quando si trovavano in pericolo non riuscivano a riconoscersi fra di loro, quindi nella confusione presero ad uccidersi l'un l'altro recando grande danno alla propria causa e grande aiuto a quella degli Ebrei.
Anche Saul accorse con la sua guarnigione e l'entusiasmo trascinò altri diecimila uomini, così i Palestinesi vennero sconfitti.
Durante la battaglia però, Saul colto dall'eccitazione maledisse "quell'ebreo che desiste dall'uccidere il nemico per prendere cibo", e fu proprio Gionata che, mentre inseguiva i nemici fuggiaschi ignaro della maledizione scagliata dal padre si riposò e si cibò del miele di un favo.
Dopo la battaglia gli oracoli dei sacerdoti svelarono l'errore inconsapevole di Gionata e Saul, per fugare lo spergiuro, condannò a morte il proprio figlio. Il popolo difese il giovane e prese a pregare per lui.
Qualche tempo dopo, per il tramite di Samuele, Saul ricevette l'ordine divino di sterminare gli Amaleciti che avevano angustiato i suoi antenati durante l'esodo. L'ordine era categorico: nessuno doveva sopravvivere nella terra degli Amaleciti, uomini, donne, bambini e animali dovevano essere distrutti.
Saul eseguì l'ordine alla lettera ma risparmiò il re Agag che lo aveva colpito per la sua bellezza ed il suo portamento. Anche alcuni soldati trasgredirono gli ordini impossessandosi di una parte del bestiame mentre l'ordine divino prevedeva lo sterminio assoluto.
A causa di questi fatti, Saul perse il favore di Dio e quando ne fu informato da Samuele non gli restò che ammettere le sue colpe e tornare alla sua reggia a Gaba. Ma sapeva che il suo regno era ormai in declino e, dopo quel giorno, non incontrò più Samuele.
Infatti, poco dopo, Dio ordinò a Samuele di recarsi a Bethlemme e di ungere un giovane pastore di nome Davide che sarebbe diventato il nuovo re degli Ebrei.
Saul era perseguitato da "demoni" che erano forse i suoi rimorsi: i medici gli prescrissero come cura il suono dell'arpa e fu proprio Davide - che aveva fama di buon suonatore - ad essere convocato per lenire con la musica i mali del re.
Poco dopo i Palestinesi ripresero le armi e dal loro campo il gigantesco Goliath, loro campione, cominciò a sfidare gli Ebrei proponendo di risolvere la guerra con un duello fra lui ed un avversario. Le dimensioni di Goliath incutevano timore e nessuno fra gli Ebrei era disposto a raccogliere la sfida che, ogni giorno, il gigante ripeteva urlando ingiurie contro il campo nemico.
Davide, troppo giovane per combattere, era stato rimandato a casa, ma quando venne a trovare i fratelli che facevano parte dell'esercito di Saul decise di accettare la sfida.
Saul esitò ma alla fine il coraggio di Davide lo indusse a concedergli il permesso di combattere contro il gigante.
Davide rinunciò all'armatura datagli da Saul e si presentò a Goliath con una fionda ed alcuni ciottoli di fiume. Il gigante prima lo derise, poi lo minacciò, quindi mosse verso di lui ma era lento e goffo nella pesantissima armatura. Davide lo colpì in piena fronte con uno dei suoi proiettili e Goliath crollò esanime. Subito Davide decapitò il gigante con la sua stessa spada e la fine imprevedibile del loro campione gettò i Palestinesi nel panico, si diedero alla fuga e gli Ebrei ne fecero strage.
Il successo così conquistato da Davide, tuttavia provocò la gelosia di Saul che decise di affidare al giovane una posizione di comando (chiliarca) con lo scopo di esporlo al pericolo e farlo morire. Quando seppe che una delle sue figlie (Melcha = Mikal) si era innamorata di Davide, Saul decise di acconsentire al matrimonio a patto che Davide gli portasse la testa di seicento Palestinesi. L'impresa sembrava impossibile ma Davide non si tirò indietro e, sempre aiutato da Dio, attaccò e distrusse un campo nemico riportando il macabro trofeo che era stato richiesto. A Saul, che aveva ovviamente tentato ancora una volta di eliminarlo, non restò che celebrare le nozze.
Ma l'odio di Saul verso Davide non si placò: progettò più volte di ucciderlo ed una volta tentò di colpirlo personalmente. Con l'aiuto della moglie e di Gionata, che era diventato suo intimo amico, Davide fuggì e si rifugiò presso il profeta Samuele. Saul lo venne a sapere e mandò più volte i soldati ad arrestare Davide ma appena giungevano al cospetto di Samuele gli uomini venivano invasi dallo "Spirito di Dio" e dimentichi della loro missione cominciavano a "profetare". Lo strano fenomeno colpì lo stesso Saul quando decise di recarsi personalmente a catturare il rivale.
Dal canto suo Gionata rinnovò la sua dichiarazione di amicizia verso Davide e pronunciò un giuramento solenne di lealtà. Quando Gionata, discutendo con Saul, ebbe prova inconfutabile dell'odio del re verso il giovane, avvertì Davide delle dimensioni del pericolo che correva e Davide si allontanò definitivamente da ogni luogo in cui Saul avrebbe potuto raggiungerlo.
Durante il suo vagare Davide ebbe occasione di riappropriarsi della spada con la quale aveva decapitato Goliath e di raccogliere un certo seguito. Quando Saul apprese queste notizie ne fu oltremodo preoccupato e prese a perseguitare quanti avevano aiutato Davide. Fra questi era il sommo sacerdote Achimelech che venne giustiziato con tutti i suoi parenti, si attuava così la maledizione che aveva colpito quella famiglia a causa dell'iniquità dei figli di Eli, di cui si è parlato nel quinto libro. La persecuzione si mutò in breve in una strage e Saul distrusse l'intera città sacerdotale di Nob. L'unico sopravvissuto, Abiathar figlio di Achimelech, fuggì presso Davide e lo informò sugli eventi.
Qualche tempo dopo Davide, con i quattrocento uomini che erano rimasti a lui fedeli, aiutò gli abitanti della città di Killa (Khirbet Qila) contro i Palestinesi che li avevano attacati. Vinse e la notizia arrivò a Saul che tentò nuovamente di catturarlo ma Davide fuggì ancora e si trasferì nel deserto dove proseguì la sua vita raminga. Infine il caso gli porse l'occasione di eliminare Saul ma Davide non ne volle approfittare. Incontrò faccia a faccia il re e fece pesare le proprie ragioni: Saul, sorpreso dello scampato pericolo, ammise di aver sbagliato e chiese a Davide di giurare che non avrebbe fatto ricadere il rancore sulla sua posterità. Davide giurò e lasciò andar via Saul illeso.
In quel periodo morì Samuele che fu compianto dagli Ebrei. Aveva governato da solo per vent'anni ed insieme a Saul per altri diciotto.
Durante la permanenza nel deserto, Davide chiese aiuto ad un ricco allevatore di nome Nabal al quale non aveva arrecato mai alcun danno, aveva anzi ordinato ai suoi uomini di rispettare i beni ed il bestiame di Nabal. Tuttavia Nabal accolse senza ospitalità gli ambasciatori di Davide e li rimandò indietro a mani vuote. Offeso, Davide preparò una spedizione punitiva contro Nabal. Lo prevenne Abigail, moglie di Nabal che gli andò incontro con ricchi doni e lo scongiurò di desistere dal distruggere la sua casa.
Davide accettò i doni ed annullò la spedizione. Dopo alcuni giorni venne a sapere che Nabal, che era alcolizzato e dissoluto, era morto e poiché era rimasto colpito dall'avvenenza di Abigail e dal suo contegno, le chiese di sposarlo e la donna accettò.
Saul si mise di nuovo in caccia di Davide ed una notte Davide penetrò nel campo del re con due soli compagni, trovò Saul addormentato nella sua tenda e gli risparmiò la vita, ma prese con se la lancia di Saul per poter dimostrare l'impresa.
Ancora una volta Saul dovette riconoscere la magnanimità dell'avversario e se ne tornò a casa promettendo di non riaprire le ostilità. Davide tuttavia non si fidò di lui e si trasferì a Gitta (Gath), in terra palestinese presso Anchus (Achis), re di quella città. Anchus lo accolse benevolmente ma dopo qualche tempo Davide si trovò coinvolto nell'ennesima guerra fra Ebrei e Palestinesi, ma questa volta non si trovava a militare con i suoi connazionali ma contro di essi. Anchus tuttavia decise di esentarlo dal combattimento, anche per volontà degli altri capi palestinesi che ritenevano la situazione troppo ambigua e pericolosa, così Davide e i suoi seguaci tornarono al villaggio che il re aveva affidato loro ma lo trovarono devastato da un'incursione degli Amaleciti, Davide si lanciò all'inseguimento dei saccheggiatori, ne fece strage e recuperò donne e bambini che erano stati rapiti.
Intanto Saul aveva saputo, tramite una medium che aveva evocato lo spirito di Samuele, che quella dell'indomani sarebbe stata la sua ultima impresa e che durante la battaglia egli sarebbe caduto con tutti i suoi figli. Così in effetti avvenne: Gionata, Aminabad e Melchis, figli di Saul, caddero combattendo valorosamente. Lo stesso Saul si battè ai limiti della sua forza ed alla fine, coperto di ferite, si tolse la vita con l'aiuto di un soldato. L'esercito ebreo subì un massacro e la popolazione superstite si ritirò nelle città fortificate. I corpi di Saul e dei figli furono presi dai Palestinesi ed esposti come trofei ma il giorno seguente un gruppo di ardimentosi riuscì a recuperare i poveri resti e a dar loro degna sepoltura.
Saul aveva regnato per quaranta anni.
Libro VII


L'uomo che aveva aiutato Saul a morire si recò da Davide portandogli la corona del re. Davide "elevò pianti e lamenti insieme ai suoi compagni" e fece uccidere l'uomo (forse ritenendolo responsabile della morte di Saul).
Terminato il lutto, Davide si stabilì ad Ebron dove venne proclamato re dalla tribu di Giuda. Nel frattempo Abenner, comandante dell'esercito di Saul, proclamava re di tutte le altre tribu Jebosthos figlio di Saul, Jebosthos ben presto si organizzò ed attaccò Davide. I due eserciti che si scontrarono erano comandati l'uno da Joab, figlio della sorella di Davide, l'altro dallo stesso Abenner.
Questi ebbe la peggio e riuscì a stento a rimanere vivo.
Ebbe così inizio una lunga guerra civile fra i seguaci di Davide e quelli della casa di Saul, mentre non cessavano le continue lotte contro i Palestinesi. Qui l'autore racconta che Davide prese sei mogli e ne ebbe altrettanti figli, si tratta probabilmente di alleanze matrimoniali in un contesto diplomatico teso a rafforzare il potere di Davide.
Infine Abenner, che era molto potente alla corte di Jebosthos, decise di cambiare bandiera ed intavolò trattative segrete con Davide. L'entusiasmo con cui Davide accolse Abenner e la benevolenza che gli dimostrò pubblicamente, suscitarono l'invidia di Joab che vedeva la propria posizione personale minacciata dal prestigio del nuovo alleato. Joab tentò di screditare Abenner presso Davide, ma vedendo inefficace questa tattica, risolse infine di tendere un'imboscata al rivale e di assassinarlo.
Poco dopo anche Jebosthos cadde vittima di una congiura. Gli assassini portarono la testa del re a Davide, sperando in una lauta ricompensa ma Davide, ritenendo l'atto iniquo e la loro speranza un'offesa al suo onore, li condannò a morte.
Dopo la morte di Jebosthos, i capi di tutte le tribu decisero unanimi di conferire il potere a Davide che divenne così monarca dell'intero popolo israelita.
Al potere di Davide si opposero solo i Gebusei, una tribu di origine cananea che abitava Gerusalemme. Davide attaccò ed espugnò la città e vi elesse la propria residenza.
Davide avrebbe anche dato alla città il nome di Gerusalemme (Hierosolyma, Hiero = Santuario - Solyma = Sicurezza) con riferimento alle possenti fortificazioni da lui fatte costruire, tuttavia il significato di questo passo di Giuseppe Flavio è incerto e si presta a varie interpretazioni.
Qualche tempo dopo un grosso esercito palestinese, con alleati siriani e fenici, attaccò Gerusalemme ma fu sconfitto in più riprese dalle truppe di Davide.
Quindi Davide decise di trasferire l'Arca a Gerusalemme, operazione che si svolse con una grande processione e solenni festeggiamenti. Davide avrebbe voluto costruire un tempio per ospitare l'Arca, tuttavia Dio, tramite il profeta Nathan al quale parlò in sogno, gli fece sapere che, pur lodando l'iniziativa, non gli permetteva di costruire il tempio in quanto egli era impuro per le troppe guerre combattute. L'onore della costruzione del tempio sarebbe toccato ad un figlio di Davide, Salomone, che sarebbe stato il suo successore.
Davide fu molto felice di veder così assicurata la continuazione del regno alla sua discendenza e, dopo aver reso grazie a Dio, accantonò il progetto.
Negli anni successivi, Davide continuò a combattere contro i Palestinesi ed i loro alleati, riportando molte vittorie ed i bottini di guerra andarono a formare un grande tesoro.
Uomo di grande lealtà, Davide ricordò il debito morale che aveva verso Gionata, il figlio di Saul che lo aveva aiutato nei tempi difficili e che era morto in battaglia con il padre. Rintracciò un figlio di Gionata, di nome Memfibostrhos (in ebraico Mefiboshet), storpio e caduto in miseria, lo accolse nella sua casa e gli consegnò tutti i beni che erano stati del padre.
In quel periodo morì Naas, re degli Ammoniti amico di Davide e gli successe il figlio Annon che, sobillato dai consiglieri, ruppe l'alleanza recando oltraggio agli ambasciatori di Davide.
Fu la guerra e gli Ammoniti, dopo aver subito una grave sconfitta, trovarono alleati in Mesopotamia ma vennero di nuovo battuti da Davide che affidò a Joab una campagna nel loro territorio e li sottomise definitivamente.
A questo punto si racconta un episodio certamente non glorioso della vita di Davide: invaghitosi di una bella donna di nome Betsaabe, Davide la mise incinta ma Betsaabe era sposata e la legge prevedeva che le adultere fossero condannate a morte. Per salvarla Davide richiamò dal fronte il marito, Uriah, che era impegnato nella guerra contro gli Ammoniti e cercò di fare in modo che passasse la notte con la moglie per evitare che la gravidanza di lei, una volta manifesta, risultasse sospetta. Tuttavia l'uomo si fece un punto d'onore nel rinunciare al piacere mentre i suoi compagni erano al fronte. Davide allora lo rimandò al fronte ed ordinò segretamente a Joab di esporlo a grandi pericoli e così avvenne. Durante l'assedio di una città degli Ammoniti, Uriah cadde valorosamente a Davide aggiunse Betsaabe alle sue numerose mogli.
Questo episodio provocò l'ira divina ed il profeta Nathan annunciò grandi sciagure a Davide. Il re si pentì sinceramente e si umiliò di fronte al profeta e fu perdonato. Tuttavia il bambino nato da Betsaabe si ammalò gravemente e, nonostante le preghiere ed il digiuno del re, dopo alcuni giorni morì. Dopo qualche tempo Betsaabe partorì di nuovo e, per ordine di Nathan, il bambino fu chiamato Salomone.
Quando Davide rientrò a Gerusalemme dopo la guerra contro gli Ammoniti, un fatto tragico colpì la sua casa: il suo primogenito Amnon, colto da insana passione, violentò la sorella Tamar.
Dopo la violenza, Amnon scacciò la sorella e Tamar riparò presso un altro fratello di nome Assalonne, con il quale aveva in comune entrambi i genitori.
Due anni dopo, in occasione di un banchetto, Assalonne riuscì a vendicare l'offesa patita da Tamar, uccidendo Amnon dopo averlo fatto ubriacare, quindi fuggì oltre i confini del regno di Davide rifugiandosi presso il nonno materno.
Dopo tre anni, Davide lo mandò a chiamare e gli permise di tornare a vivere a Gerusalemme, grazie all'intercessione di Joab, tuttavia non volle incontrarlo personalmente per altri due anni. Infine i due si riconciliarono ma quattro anni dopo Assalonne si ribellò e, raccolto un certo seguito, tentò di detronizzare il padre.
Davide decise di affidare la questione alla volontà di Dio e con la famiglia, gli amici ed i soldati a lui più fedeli si ritirò sul Monte degli Ulivi.
Giuseppe Flavio propone un lungo racconto di congiure e di tradimenti, alcuni dei consiglieri di Davide passarono ad Assalonne, altri gli rimasero fedeli. Davide organizzò un esercito e decise di attaccare per primo. L'esercito di Davide, comandato da Joab, era molto meno numeroso di quello avversario ma, grazie ad una maggiore esperienza di cose belliche, riuscì a vincere.
Dopo la battaglia, Assalonne tentò di fuggire a cavallo di un mulo ma la sua lunga chioma si impigliò in un albero e Joab lo raggiunse e lo uccise, nonostante Davide avesse ordinato di risparmiargli la vita.
Davide pianse amaramente la morte del figlio che, nonostante tutto, amava molto ma Joab lo richiamò alla "ragion di stato" e Davide, fattosi coraggio, riprese il potere. Saggiamente evitò di infierire contro quanti avevano partecipato alla congiura, perdonò anche i superstiti fra i responsabili del tentato colpo di stato ed operò in generale in modo da riportare l'ordine nella nazione.
Poco dopo un'altra insurrezione comandata da un certo Sabaio, minacciò il potere di Davide. L'insurrezione fu repressa da Joab che colse l'occasione per eliminare a sangue freddo Amasa, suo collega nel comando supremo dell'esercito del quale era molto geloso.
Davide continuò a combattere contro i Palestinesi finchè non li sconfisse assicurando al suo regno un periodo di pace, tuttavia, avendo corso un grave pericolo durante una battaglia, fu costretto dal popola a promettere che si sarebbe astenuto dal partecipare personalmente ai combattimenti.
Successivamente Davide ordinò un censimento ma non tenne conto delle prescrizioni rituali che Mosè aveva dettato per quella circostanza ed attirò sul popolo una terribile pestilenza. Consigliato da profeti e sacerdoti, il re acquistò l'area dove più tardi sarebbe sorto il Tempio per svolgervi sacrifici e placare l'ira divina. In quel tempo, Davide designò suo figlio Salomone alla successione, gli svelò la profezia che lo riguardava e gli ordinò di attendere, dopo la sua morte alla costruzione del tempio. A Davide, infatti, era stato proibito di realizzare l'opera personalmente perché macchiato dal sangue di troppe guerre, così egli si limitò, negli ultimi anni della sua vita, a raccogliere molti fondi e molti materiali per facilitare il compito di Salomone.
Durante la vecchiaia di Davide, uno dei suoi figli di nome Adonia, tentò di impadronirsi del potere. Venutolo a sapere Davide ordinò che si procedesse senz'altro all'unzione ed all'incoronazione di Salomone che prese così a regnare accanto al padre. La coreggenza non durò a lungo perchè poco tempo dopo, all'età di settant'anni, Davide morì lasciando la figlio un regno ricco, solido e ben organizzato.


Libro VIII


Morto Davide, Salomone si sbarazzò rapidamente di Adonia, di Joab e di quanti riteneva pericolosi per la stabilità del proprio regno, quindi si dedicò a governare il paese con grande saggezza e moderazione.
A questo punto Giuseppe Flavio racconta un celeberrimo episodio: due prostitute si presentarono a Salomone chiedendo giudizio. Entrambe avevano da poco partorito un bambino ma una delle due, avendo perso il proprio, aveva tentato di scambiarlo con il figlio dell'altra. Salomone ordinò che i due neonati (sia il vivo, sia il morto) fossero smembrati in due parti e le membra divise fra le due madri. L'orrore autentico della donna che, pur avendo intentato la causa si diceva disposta a rinunciare al bambino per salvargli la vita, servì al re per stabilire la verità e, punita la colpevole, a restaurare la giustizia.
Salomone, ricorda Giuseppe, dimostrò la sua sapienza anche componendo opere di scienza e di filosofia, nonché mettendo a punto pratiche esoteriche ed esorcismi ancora in uso presso gli Ebrei contemporanei dell'autore.
Accingendosi alla costruzione del Tempio, Salomone strinse un accordo commerciale con l'amico Eirom, re di Tiro, ed ottenne legname pregiato in cambio di grano, olio e vino.
Nel quarto anno di regno, Salomone iniziò ufficialmente i lavori di costruzione del Tempio. Nei capitoli successivi (in modo non molto chiaro per la verità), Giuseppe Flavio descrive il progetto, la maestosità dell'edificio e la ricchezza degli arredi.
Grazie alla perizia degli artisti e delle maestranze, nonché delle grandi ricchezze di cui Salomone poteva disporre, i lavori procedettero molto speditamente ed il grande Tempio fu completato in soli sette anni. Allora Salomone convocò tutti i capi delle tribu ed indisse una grande processione che trasportò l'arca nel Tempio.
Si fece una grande festa con sacrifici, libagioni e banchetti, poi Salomone sognò Dio che gli confermava di aver gradito l'offerta del Tempio e gli prometteva pace e prosperità ma, lo avvertiva, nel caso in cui egli e gli Ebrei avessero trasgredito alle Leggi, il Tempio sarebbe caduto nelle mani dei nemici ed il popolo avrebbe sofferto ogni disgrazia ed avversità.
Completato il Tempio, Salomone fece costruire una reggia illustre, se pur meno imponente del Tempio, ed altri edifici di pubblica utilità. Negli anni successivi fortificò Gerusalemme ed altre città e fondò nel deserto della Siria Superiore la città di Tadmor che i Greci chiamavano Palmira.
Con l'aiuto del re di Tiro, Salomone si dotò anche di una flotta che esplorò le coste dell'Arabia e si spinse fino all'India.
"La donna che regnava in Egitto e sull'Etiopia" (probabilmente la regina di Saba) fece visita a Salomone incuriosita della sua fama. Durante il soggiorno a Gerusalemme la regina rimase impressionata dalla magnificenza e dalla sapienza di Salomone. I due sovrani si scambiarono ricchissimi doni e Salomone risolse per lei i più difficili enigmi. La fama di Salomone continuò a crescere e ben presto tutti i sovrani vollero testimoniargli la propria ammirazione con doni preziosi.
Tuttavia anche Salomone finì col violare le leggi: lo fece a causa della sua smodata passione per le donne. Arrivò ad avere settecento mogli, molte delle quali straniere e, cosa ancora più grave, a praticare culti stranieri per compiacere le sue numerose consorti. L'ira di Dio, ovviamente, non tardò a manifestarsi e contro Salomone si sollevò un nemico di nome Adero (Hadad), un idumeo che era rifugiato in Egitto quando Davide aveva conquistato il suo paese.
Organizzata una banda di predoni in Siria, Adero prese a razziare i territori israeliti.
Contemporaneamente Jeroboamo, capo delle tribù di Giuseppe tentò di prendere il potere supremo ma fu scoperto e fuggì in Egitto.
Salomone morì a novantaquattro anni, dopo aver regnato per ottanta anni. Gli successe il figlio Roboamo ma il suo atteggiamento autoritario provocò presto gravi disordini ed egli fuggì da Gerusalemme. Fu acclamato re solo dalle tribu di Giuda e Beniamino mentre le altre dieci tribu eleggevano Jeroboamo, fatto rientrare dall'Egitto. Si avverava così una profezia che il sapiente Achia aveva annunciato anni prima a Jeroboamo.
Lo scisma politico fu anche scisma religioso e Jeroboamo istituì culti e riti nella città di Bethel temendo che il prestigio del Tempio di Salomone allontanasse da lui i suoi sudditi.
Anche nel regno di Roboamo venne presto meno l'ortodossia e fu questa, secondo Giuseppe, la causa prima dell'invasione da parte degli Egiziani. Gli Egiziani predarono gran parte delle ricchezze del regno, quindi si ritirarono. Roboamo morì a cinquatasette anni, dopo diciassette di un regno infelice e soggetto al timore dei nemici. Gli successe il figlio Abia.
Nonostante il profeta Achia presagisse il disastro, Jeroboamo decise di combattere contro Abia ma questi, malgrado la netta minoranza numerica del suo esercito conquistò la vittoria facendo grande strage di nemici. Abia, tuttavia, visse e regnò solo per tre anni dopo la guerra.
Gli successe il figlio Asano (ebraico Asa) sotto il cui regno la regione conobbe dieci anni di pace. Nel secondo anno del regno di Asano morì Jeroboamo al quale successe il figlio Nabado (ebraico Nadabo).
Questi fu ucciso dopo due anni da un complotto guidato da un certo Basane che si impadronì del potere eliminando l'intera famiglia di Jeroboamo.
Asano, che dopo dieci anni di regno sconfisse gloriosamente un tentativo di invasione da parte degli Etiopi, regnò con giustizia e restaurò il culto ortodosso.
Al contrario, Basane si macchiò di molte empietà e malvagità, verso la fine del suo regno che durò ventiquattro anni effettuò alcune azioni belliche contro il regno di Gerusalemme.
Alla sua morte gli successe il figlio Elano (ebraico = Elah) che fu a sua volta ucciso da un suo ufficiale di nome Zambria (ebraico = Zimri). Zambria prese il potere ma fu attaccato ed eliminato da un altro comandante aspirante al regno di nome Amarino (ebraico = Omri).
Amarino regnò dodici anni e gli successe il figlio Achab. Da canto suo Asano continuò a regnare con giustizia e quando morì, dopo aver governato per quarant'anni, gli successe il figlio Josafat.
Durante il regno di Achab si verificò una grande siccità che il profeta Elia annunciò come punizione divina per l'empietà del re e della regina Jezebel.
Inizia qui il racconto delle vicende di Elia, profeta illuminato ed assistito da Dio che con le sue miracolose dimostrazioni indusse il popolo ad eliminare i profeti dei falsi dei. Perseguitato dalla regina Jezebel, Elia dovette nascondersi nel deserto e nelle grotte ma la provvidenza divina non gli fece mancare mai il sostentamento.
Convocato dal re Achab e da questi interrogato sulla siccità, Elia si scontrò con i sacerdoti degli dei stranieri e propose loro una sfida. Si trattava di offrire un bue in sacrificio ma senza accendere il fuoco, pregando invece perché sopraggiungesse un evento ultraterreno a far divampare le fiamme. I sacerdoti degli idoli fallirono, ma Elia ottenne il fulmine propizio e quando la pira fu consumata ordinò al popolo - ormai sottomesso ed affascinato - di catturare ed uccidere i suoi rivali. Quindi salì sul monte Carmelo ed attese finché non vide la prima nuvola all'orizzonte annunciare la fine della siccità.
Minacciato dagli emissari di Jezebel, Elia fu costretto alla fuga e raggiunse il Sinai. Qui gli capitò di ascoltare una voce divina che gli ordinava di tornare in patria e di designare Jehu quale re del suo popolo ed Azaleo re di Damasco in Siria. Elia prontamente obbedì e durante il viaggio incontrò Eliseo che iniziò all'arte profetica.
Intanto il re Achab aveva deciso di acquistare il terreno di un cittadino di nome Naboth. Al rifiuto di questi Achab e Jezebel intentarono un processo ammaestrato ed ottennero che Naboth fosse giustiziato, così ottennero il terreno desiderato. Elia, rientrato in patria, venne a conoscenza del misfatto e maledisse il re il quale fu colto da grande sgomento e prostrazione.
Così Dio informò Elia di aver deciso, in forza del pentimento di Achab, di procrastinare il castigo a danno del figlio del re.
E proprio in quei giorni Adado (Ben-Hadad), re di Siria, decise di muovere guerra al padre. Achab non reagì e dichiarò agli ambasciatori dei Siri di essere disposto a cedere tutto quanto gli apparteneva personalmente ma Adado pretendeva molto di più e si venne ai ferri corti.
Nonostante la superiorità numerica dell'esercito della Siria, Achab - consigliato da Elia - riuscì a riportare una prima vittoria su Adado attaccandolo di sorpresa.
L'anno successivo Adado attaccò nuovamente e fu definitivamente sconfitto, ma Achab si mostrò clemente verso il nemico e fra i due regni fu conclusa la pace.
Tuttavia Dio, attraverso un profeta di nome Michaia, fece sapere ad Achab di essere in collera con lui per aver perdonato il bestemmiatore Adado.
Nello stesso periodo il regno di Gerusalemme godeva di grande prosperità: si viveva in pace sotto il governo di Josafat che per le sue virtù era amato dal popolo e rispettato dai vicini. Josafat strinse alleanza con Achab ed i figli dei due re si sposarono tra loro. Durante la cerimonia dell'alleanza i due re decisero di consultare i profeti sull'opportunità di muovere insieme guerra alla Siria.
I numerosi profeti di Achab si pronunciarono favorevolmente ad eccezione di Michaia che avvertì che i Siri avrebbero vinto e che Achab sarebbe caduto in battaglia.
Achab, incitato dai suoi consiglieri, non volle dare ascolto a Michaia, lo fece arrestare e mosse nuovamente guerra ad Adado. Come era stato predetto morì nel combattimento. Gli succedette il figlio Ochozia (Ahaziau).


Libro IX


Josafat tornò a Gerusalemme ed emanò alcune riforme in materia legislativa e giudiziaria, nel pieno rispetto dell'ormai antica legge mosaica.
In quel periodo Josafat fu attaccato da Ammoniti e Moabiti ma ottenne una facilissima vittoria come era stato predetto dai profeti.
Questi eventi favorirono la fama ed il prestigio di Josafat che strinse nuove alleanze e tentò di arricchire il suo regno con nuove imprese commerciali, purtroppo non fortunate.
Intanto Ochozia, figlio di Achab e discendente di Jeroboamo, si era insediato in Samaria. Infortunatosi, mandò uomini ad interrogare gli dei degli stranieri, ma i suoi messi furono intercettati da Elia che li rimandò al re con una triste profezia.
Ochozia volle catturare Elia ma questi attirò una pioggia di fuoco che fece strage di quanti volevano arrestarlo.
Infine Ochozia mandò ad Elia un ambasciatore non aggressivo ed il profeta accettò di presentarsi al re, ma solo per ribadire la propria profezia di morte.
Infatti di lì a poco Ochozia morì e gli succedette il fratello Joram, uomo empio e scellerato, che regnò per venti anni. Durante il suo regno si persero le tracce del profeta Elia.
Joram si scontrò a sua volta con i Moabiti e chiese - ed ottenne - l'aiuto e l'alleanza di Josafat e del re degli Idumei. Quando i tre re si trovarono in difficoltà a causa della siccità decisero di consultare Eliseo, profeta e successore di Elia.
Il nuovo profeta si dimostrò ostile a Joram ma accettò di collaborare per rispetto di Josafat. Eliseo annunciò una pioggia imminente e, con questa, la vittoria.
Infatti, quando si venne al combattimento, i tre ebbero re la meglio ed il re dei Moabiti tentò un'estrema reazione con un piccolo gruppo di uomini a lui fedelissimi.
Infine il re dei Moabiti immolò in sacrificio il proprio figlio: Josafat ed i suoi assistendo alla scena furono presi dalla compassione ed abbandonarono la guerra.
Josafat, tornato a casa, visse ancora per breve tempo, quindi morì nel compianto generale. Gli succedette il figlio, anche egli di nome Joram.
Quanto ad Eliseo, il successore di Elia, si raccontano episodi spettacolari. Si dice che soccorse la vedova di un uomo che stava per essere resa schiava a causa dei debiti che il marito aveva contratto per aiutare i profeti ai tempi di Jezebel. Eliseo riempì miracolosamente numerosissimi vasi d'olio in modo che la donna, vendendoli, potesse liquidare i suoi creditori.
Eliseo, inoltre, sventò con la sua chiaroveggenza un complotto del re di Siria Adado ai danni di Joram, re degli Israeleti. Adado cercò di eliminare il profeta ma davanti a chiari segni della protezione divina in favore di Eliseo, decise di abbandonare complotti e macchinazioni e passare alle vie di fatto. Così accerchiò ed assediò la Samaria, tentando di sconfiggere gli Ebrei tramite la fame.
Davanti alla sofferenza della sua gente (si racconta anche di orribili episodi di cannibalismo) Joram se la prese con Eliseo che, a suo parere, non faceva quanto necessario per suscitare le clemenza divina e decise di sopprimere il profeta. Subito pentito, però, Joram fermò il sicario che aveva mandato da Eliseo ed il profeta annunciò che l'indomani si sarebbe avuta grande abbondanza di cibo.
Infatti durante la notte un prodigio mise in fuga gli assedianti: si udì un grande frastuono di armi e di cavalli rompere il silenzio della notte. I Siri, convinti che potenti alleati stessero correndo in aiuto degli abitanti di Samaria, fuggirono terrorizzati abbandonando i loro accampamenti. Alcuni lebbrosi di Samaria che, non potendo entrare in città a causa della loro malattia, avevano deciso proprio quella notte di consegnarsi al nemico, scoprirono le tende abbandonate e si precipitarono alle porte della città a dare l'allarme. I campi dei Siri furono così saccheggiati da quelli di Samaria che vi trovarono cibo e ricchezze in grande quantità: si avverò così la profezia di Eliseo.
Poco tempo dopo il re di Siria Adado fu ucciso da un suo servitore di nome Azaleo (Khazael) che prese il potere. Anche questo evento era stato predetto da Eliseo che lo riteneva nefasto per il popolo di Israele.
Intanto a Gerusalemme il re Joram andava compiendo ogni sorta di ingiustizia e di empietà, anche per l'istigazione di sua moglie Othlia (Athaljahu). Sotto il suo regno si verificarono alcune ribellioni che furono soffocate nel sangue. Infine Joram fu attaccato dagli Arabi che saccheggiarono il paese. Solo uno dei figli di Joram, di nome Ochozia (Aachazjahn) si salvò nell'eccidio e lo stesso Joram morì di li a poco per un'orribile malattia che era stata predetta da Elia.
Anche l'altro re degli Israeliti di nome Joram rimase ferito in battaglia e si ritirò per farsi curare lasciando il comando ad un ufficiale di nome Jehu. Eliseo mandò uno dei suoi discepoli a Jehu per ungerlo re. L'esercito approvò con entusiasmo e convinse Jehu ad accettare il potere e muovere contro Joram.
Jehu uccise personalmente Joram, re degli Israeliti, e ferì a morte Ochozia, il nuovo re di Gerusalemme.
Come era stato ordinato dal discepolo di Eliseo che lo aveva unto re, Jehu fece subito eliminare Jezebel e tutti i settanta figli di Achab. Si dedicò quindi a rintracciare ed uccidere tutti i sacerdoti di Baal, la divinità che era stata venerata da Achab e dai suoi amici. L'azione di Jehu prosegue, nel racconto di Giuseppe Flavio, fino alla totale eliminazione dei seguaci di Baal dal territorio israelita.
Quando Othlia, figlia di Achab, seppe della morte di suo fratello Joram e di suo figlio Ochozia, decise di sterminare tutta la casa di Davide: si salvò solo un figlio di Ochozia di nome Joas, infante, che fu portato al sicuro e segretamente allevato dal sommo sacerdote Joda.
Sette anni dopo Joda organizzò un complotto, rovesciò ed uccise la regina Othlia ed incoronò il piccolo Joas. Anche in questo caso si svolsero reazioni contro i seguaci del culto di Baal che la regina aveva legittimato.
Joas morì dopo aver regnato sugli Israeliti per ventisette anni. Durante il suo regno subì duri attacchi da parte di Azaleo (Chaza'El), re di Siria. A Joas successe il figlio Joazo (Jeho'Achaz).
Quanto a Joas, si comportò con grande giustizia e rispetto della legge fin quando fu vivo il sommo sacerdote Joda e fece, fra l'altro, restaurare il Tempio di Gerusalemme. Ma quando Joda morì i costumi del re degradarono rapidamente ed egli arrivò a far lapidare Zaccaria, figlio di Joda, perché aveva criticato il suo operato.
Questo delitto, però, gli costò la vita perché un gruppo di congiurati, per vendicare Zaccaria, lo uccise.
Il trono passò ad Amasia, figlio di Joas.
Anche Joazo, figlio e successore di Jehu, commise molte empietà e fu sconfitto dal re di Siria che gli distrusse l'esercito. Joazo allora si pentì, si rivolse ad Eliseo chiedendo la protezione divina e visse tranquillamente per il resto dei suoi giorni. Il regno passò poi a suo figlio Joas che lo tenne per sedici anni. Era il trentasettesimo anno del regno dell'altro Joas a Gerusalemme. Durante il regno di Joas di Samaria, che era uomo buono e giusto, Eliseo morì dopo aver profetizzato che Joas avrebbe vinto i Siri tre volte in battaglia.
Anche questa profezia si avverò e quando il nuovo re di Siria Adado (Ben-Hadad III), figlio di Azaleo, attaccò Joas fu vinto per tre volte.
Alla morte di Joas il potere passò a suo figlio Jeroboamo.
Amasia, re di Gerusalemme, nel secondo anno di regno decise una campagna militare contro Amaleciti, Edomiti e Gabaliti. Su consiglio di un profeta decise di non servirsi delle truppe israelite che aveva assoldato e vinse comunque la guerra, ma gli Israeliti congedati si ritirarono ed attaccarono il suo territorio compiendo stragi e saccheggi.
Euforico per la vittoria conseguita, Amasia reagì intimando a Joas, re degli Israeliti, di sottomettersi al suo potere. Joas rifiutò ed Amasia lo attaccò ma fu sconfitto e fatto prigioniero. Joas entrò in Gerusalemme, prelevò tutte le ricchezze del palazzo reale, quindi lasciò libero Amasia e se ne tornò a Samaria.
Era il quattordicesimo anno di regno di Amasia.
Quindici anni dopo Amasia fu ucciso da un gruppo di cospiratori ed il regno passò a suo figlio Ozia.
Quando fu incoronato Jeroboamo re degli Israeliti, figlio di Joas, correva il quindicesimo anno del regno di Amasia. Jeroboamo, che era particolarmente blasfemo ed idolatra, mosse guerra alla Siria ed assoggettò tutta la regione, come gli era stato predetto dal profeta Giona.
Qui inizia la narrazione delle vicende di Giona, corrispondente - appunto - al "Libro di Giona" nella Bibbia.
Per ordine divino Giona avrebbe dovuto recarsi a predicare a Ninive, ma per paura preferì imbarcarsi alla volta della Cilicia. Durante il viaggio la nave rischiò di affondare per una terribile tempesta, tempesta che si placò solo quando Giona ammise di essere la causa dell'ira di Dio e si lasciò gettare in mare dai marinai. Secondo la leggenda (e qui Giuseppe Flavio prende debite distanze dal racconto biblico), Giona fu ingoiato da una balena, comunque dopo tre giorni e tre notti raggiunse la costa incolume, si recò a Ninive ed annunziò agli abitanti che stavano per perdere il loro potere sull'Asia, come sarebbe appunto avvenuto ad opera di Jeroboamo.
Jeroboamo morì dopo quarant'anni di regno lasciando il trono al figlio Zaccaria. A Gerusalemme regnava intanto Ozia, figlio di Amasia, che era un governante giusto ed infaticabile.
Ozia riportò diverse vittorie contro Palestinesi, Arabi e Ammoniti.
Rilanciò l'agricoltura, riorganizzò l'esercito e portò lo stato a grande livello di potenza.
Il suo successo, tuttavia lo fece inorgoglire ed egli commise sacrilegio tentando di svolgere personalmente sacrifici che erano riservati ai sacerdoti. La sua punizione fu la lebbra che lo colse immediatamente e, scacciato fuori dalla città, dovette lasciare il regno al figlio Jotham. Morì poco dopo all'età di sessantotto anni di cui cinquanta trascorsi a governare.
Zaccaria, figlio di Jeroboamo, regnò solo per sei mesi, poi fu ucciso da un usurpatore di nome Sellem il quale fu subito eliminato dal generale Menaemo che si proclamò re e fece uccidere quanti gli si opponevano. Regnò dieci anni e, poco prima di morire, evitò una guerra con gli Assiri accettando di pagare un tributo.
A Menaemo successe il figlio Fakea (Pekahjahn) che dopo soli due anni fu ucciso da un usurpatore suo omonimo che regnò per vent'anni. Intanto il re assiro Tiglat-Pileser marciò sul regno di Israele e ne sottomise una parte, deportando gli abitanti.
Jotham, figlio di Ozia, visse invece un regno prosperoso, era un governante giusto ed onesto, restaurò e fortificò Gerusalemme e consolidò la potenza ed il prestigio del suo stato. Morì dopo sedici anni di regno e gli successe il figlio Achaz.
Eretico ed idolatra, Achaz dovette subito affrontare forti nemici: prima i Siri, poi Fakea, re degli Israeliti.
Dopo aver subito una prima disfatta ad opera degli Israeliti, Achaz chiese aiuto a Tiglat-Pileser, re degli Assiri. Questi mosse contro i Siri espugnando Damasco e contro gli Israeliti. Achaz consegnò grandi ricchezze agli Assiri in cambio del loro aiuto, ma ben presto fu sconfitto nuovamente (secondo Giuseppe Flavio a causa della sua empietà) e morì all'età di trentasei anni, dopo sedici di regno, lasciando il trono a suo figlio Ezechia.
Nello stesso periodo morì Fakea, vittima di Oseo (Hoshe'a) che prese il potere e fu l'ultimo re di Israele.
Dal canto suo Ezechia ripristinò in Gerusalemme il culto tradizionale, riaprendo il Tempio che suo padre Achaz aveva chiuso e celebrando nuovamente la festa dei pani azzimi che era caduta in disuso da generazioni.
Nel nono anno del suo regno, Oseo fu definitivamente sconfitto dal re assiro Salmanasse (Salmanassar V) che lo fece prigioniero e deportò gran parte della popolazione israelita. Ebbe così fine il regno di Israele, novecentoquarantasette anni dopo l'esodo dall'Egitto.
La regione venne ripopolata dai "Chutei", provenienti dalla Persia, che alla lunga adottarono la religione locale e diedero origine al popolo detto dei Samaritani.


Libro X


Nel quattordicesimo anno del regno di Ezechia, gli Assiri, dopo aver distrutto il regno di Israele ed occupato la Fenicia, si rivolsero contro Gerusalemme. Secondo Giuseppe Flavio, Ezechia pagò spontaneamente pesanti tributi per evitare la guerra ma il re assiro Sennacherib inviò a tradimento un esercito ad assediare la città. Tuttavia il profeta Isaia predisse un tragico insuccesso della campagna di Sennacherib contro gli Ebrei e contro gli Egiziani. E in effetti la campagna assira contro l'Egitto fu un fallimento anche a causa di una pestilenza che colpì l'esercito (episodio ricordato anche da Erodoto). Sennacherib, distolto da questi gravi problemi, abbandonò anche l'assedio di Gerusalemme e tornò a Ninive dove, poco dopo, fu ucciso in una congiura. Gli successe Esarhaddon.
Ezechia morì quindici anni più tardi, dopo un periodo di pace durante il quale - secondo la tradizione - fu guarito miracolosamente da una grave malattia ed ebbe come consigliere il profeta Isaia.
Gli successe il figlio Manasse, il quale prese subito a comportarsi in modo empio verso la religione e crudele verso i suoi sudditi. Tuttavia, dopo essere stato fatto prigioniero dai Babilonesi ed essere scampato al pericolo, divenne un religioso osservante e trascorse il resto della vita in pace, dedicando grande cura alle cose della religione e a quelle del governo. Morì a sessantasette anni lasciando il regno al figlio Ammon.
Anche Ammon si comportò in modo empio e perverso e fu ucciso dalla sua servitù dopo ventiquattro anni di regno. Gli successe il figlio Giosia che aveva solo otto anni. Assistito dal consiglio degli anziani, Giosia si dette presto da fare per eliminare ogni forma di idolatria. Indisse quindi una pubblica raccolta di fondi per finanziare il restauro del Tempio, vennero rinvenuti i libri sacri di Mosè. In quell'occasione la profetessa Oolba (Khulda) spiegò che l'Eterno aveva già decretato da tempo di disperdere gli Ebrei per punirli della loro idolatria, ma che questi tristi eventi si sarebbero svolti dopo la fine del regno di Ammon.
A seguito di queste profezie Giosia intensificò la sua lotta contro l'idolatria spingendosi oltre il suo regno per riportare il culto tradizionale anche a quanti, nel regno di Israele, erano riusciti ad evitare la deportazione in Assiria.
Nel trentunesimo anno dei suo regno, Giosia si scontrò con il faraone Nechao che attraversava il suo territorio per muovere guerra a Medi e Babilonesi (battaglia di Megiddo, 609 a.C.) e morì per le ferite riportate. Gli succedette il figlio Joachazo. Joachazo fu presto destituito dal faraone Nechao II che lo fece prigioniero ed affidò il regno al fratello Joakeimo.
Nel terzo anno di regno, Joakeimo rifiutò di pagare il tributo imposto dagli Egiziani confidando nell'aiuto dei Babilonesi, ma il profeta Geremia predisse che proprio questi ultimi avrebbero sottomesso Gerusalemme, provocando l'ira del re.
Infatti poco dopo il re di Babilonia Nebukadnezzar (Nabucodonosor II) prese la città, uccise Joakeimo e designò suo figlio Joachimo (Joachin) come re della regione e della città. Tremila persone, le più ragguardevoli di Gerusalemme, furono deportate a Babilonia. Pochi mesi dopo, non fidandosi di lui, il re babilonese fece catturare e deportare anche Joachimo e tutta la sua famiglia.
Fu nominato Sacchia (Sidquijahn), fratello di Joakeimo, che dovette impegnarsi a non collaborare con l'Egitto.
Non rispettoso della tradizione, Sacchia veniva spesso ammonito dai profeti Geremia ed Ezechiele. Nel suo ottavo anno di regno si ribellò ai Babilonesi e si alleò agli Egiziani ma fu ripetutamente sconfitto. Geremia profetizzò allora la caduta di Gerusalemme e l'inizio di una nuova schiavitù che sarebbe durata settant'anni.
Geremia fu arrestato. Quando i Babilonesi assediarono Gerusalemme egli, dalla prigione, predicava l'opportunità della resa ed alcuni esponenti politici chiesero la sua condanna a morte.
Geremia fu calato in un pozzo fangoso perché vi morisse soffocato, ma Sacchia, pentito, lo fece liberare.
Nell'undicesimo anno del regno di Sacchia, Gerusalemme cadde nelle mani dei Babilonesi, dopo un lungo assedio. Il re tentò di fuggire con la famiglia nel deserto ma venne catturato ed accecato. Così, dopo ventuno generazioni, cinquecento quaranta anni, ebbe fine la stirpe davidica. I Babilonesi distrussero il Tempio, saccheggiarono e devastarono la città e ne deportatono la popolazione. Sacchia morì, più tardi in prigione a Babilonia. I Babilonesi, deportando gli Ebrei, lasciarono in Giudea i poveri e i disertori nominando governatore Gadalia (Godolia).
Il generale babilonese Nabuzardane, che aveva comandato le operazioni, liberò dal carcere Geremia e gli propose di seguirlo a Babilonia, ma il profeta scelse di restare nel suo Paese.
Partito l'esercito babilonese, gli Ebrei che erano fuggiti per evitare la deportazione cominciarono a riunirsi intorno al governatore Gadalia, che li accoglieva benevolmente promettendo loro protezione. Fra questi fuggitivi era un uomo di stirpe regale di nome Ismaelo. Nonostante i benefici ricevuti dal governatore, Ismaelo organizzò una congiura ed uccise Gadalia e tutti i suoi amici per impossessarsi del potere su quanto restava di quella nazione devastata. Contro Ismaelo reagì Giovanni, già amico e collaboratore di Gadalia, e lo costrinse a fuggire presso il re degli Ammoniti.
Giovanni ed i suoi seguaci, timorosi di un possibile ritorno dei Babilonesi, decisero di trasferirsi in Egitto. Geremia si oppose dicendo che Dio era contrario ma non fu creduto, anzi Giovanni lo costrinse a seguirlo in Egitto insieme al discepolo Baruc.
Poco dopo i Babilonesi attaccarono e sconfissero gli Egiziani e gli Ebrei che si trovavano in Egitto furono deportati in Babilonia.
In Babilonia, intanto, il re Nebukadnezzar, scelse i giovani più nobili ed avvenenti fra i Giudei e li affidò a tutori perché li educassero, fra questi era Daniele, della famiglia di Sacchia.
Daniele ed i suoi compagni scelsero di attenersi ad una dieta esclusivamente vegetariana e crebbero in ottime condizioni fisiche ed intellettuali. Daniele si dedicava all'interpretazione dei sogni. Dopo due anni dal saccheggio dell'Egitto, il re si destò un mattinno convinto di aver fatto un sogno meraviglioso che, però, aveva dimenticato.
Convocò allora indovini e divinatori perché gli svelassero di quale sogno si era trattato e, adirato per l'insuccesso, minacciò di mandare tutti a morte. Daniele chiese una notte di tempo e pregò a lungo finché Dio, impietosito, non gli fece conoscere l'arcano.
L'indomani Daniele spiegò il sogno al re: una grande statua in piedi, il capo d'oro, le spalle e le braccia d'argento, più in basso bronzo ed infine ferro. Nel sogno una grande pietra si staccava dalla montagna e travolgeva la statua distruggendola. Daniele interpretò il sogno svelando che mentre il capo d'oro rappresentava lo stesso re, gli altri metalli erano il simbolo di quanti gli sarebbero succeduti impossessandosi in modo più o meno violento del potere. Quanto al significato della pietra - interpretato anch'esso da Daniele - Giuseppe Flavio non dice nulla, trattandosi di avvenimenti ancora non accaduti mentre scriveva.
Colpito dalla chiaroveggenza di Daniele, il re gli rese molto onore e ne fece un uomo potente, più tardi i compagni di Daniele offesero il re rifiutando di venerare un idolo e furono gettati nel fuoco, dal quale si salvarono miracolosamente.
Poco dopo il re sognò che avrebbe perduto il potere e che prima di recuperarlo avrebbe vissuto sette anni nel deserto. Così avvenne e Giuseppe prende qualche distanza dalla scarsa chiarezza dell'episodio.
Nebukadnezzar morì dopo aver regnato per quarant'anni (569 a.C.). Giuseppe ne ricorda alcune gesta fra cui la costruzione dei famosi "giardini pensili" realizzati sopra il complesso dei palazzi regali.
Divenne re Abilmathadacho (Amil-Marduk), figlio di Nebukadnezzar, che regnò per diciotto anni e lasciò il trono al figlio Eglizaro (Nergal-Shar-Usur o Neriglissar).
Abilmathadacho fece liberare Joachimo che era stato imprigionato da suo padre e lo nominò sovrintendente al palazzo reale di Babilonia.
Eglizaro regnò per quattro anni, gli successe il figlio Labosordacho (Labashi-Marduk) che regnò solo per nove mesi, quindi morì lasciando il regno a Baltasare (Belshazzar).
Quest'ultimo subì l'assedio di Babilonia ad opera dei Persiani e dei Medi.
Durante l'assedio Baltasare, che era empio e blasfemo, vide una mano apparire dal nulla e tracciare sul muro una scritta misteriosa. I Magi non riuscirono ad interpretare la scrittura, così venne convocato Daniele che ne spiegò il significato: ben presto il re sarebbe morto ed il regno sarebbe caduto in mano ai nemici.
Poco dopo, infatti, Dario re dei Persiani pose fine all'impero babilonese. Daniele fu onorato dal conquistatore che lo volle al suo fianco negli affari di stato.
Ovviamente gli onori di cui godeva suscitarono contro Daniele l'invidia di molti potenti rivali. Questi, non trovando nel comportamento di Daniele nessun pretesto per calunniarlo, ordirono un piano infame. Convinsero il re ad emanare un decreto che sospendesse per trenta giorni ogni forma di culti. Daniele continuò a svolgere le sue quotidiane devozioni ed i suoi nemici riuscirono finalmente ad accusarlo e farlo condannare.
Il profeta fu così rinchiuso nel serraglio dei leoni per un'intera notte ma il mattino successivo Dario, trovandolo vivo ed illeso, lo fece liberare e consegnò alle belve gli autori del complotto.
Il libro decimo si chiude con il ricordo delle grandi profezie di Daniele e con alcune considerazioni dell'autore sulla provvidenza divina, in contrasto con il punto di vista degli epicurei.


Libro XI


Nel primo anno di regno il re persiano Ciro liberò gli Ebrei dalla cattività babilonese. Ciro aveva letto il libro profetico di Isaia, scritto due secoli prima, in cui si prevedeva che egli avrebbe riedificato il Tempio.
Così i discendenti degli Ebrei deportati tornarono in patria accompagnati da alcuni funzionari di Ciro che dovevano sovrintendere alla costruzione del tempio, tuttavia trovarono forte ostilità da parte dei Samaritani che, nel frattempo, avevano occupato la regione.
Qualche tempo dopo Ciro morì ed il potere passò a suo figlio Cambise. A Cambise si rivolsero i Samaritani e lo convinsero che gli Ebrei, una volta ricostruita Gerusalemme, si sarebbero ribellati. Cambise ordinò la sospensione dei lavori e la situazione rimase tale per nove anni fino a quando non fu mutata da Dario che prese il potere dopo la morte di Cambise.
Giuseppe Flavio racconta qui un aneddoto tradizionale per spiegare il comportamento di Dario. Si dice che una volte il re pose ai suoi consiglieri un quesito su cosa avesse più potere fra il vino, i re, le donne e la verità. Fra le risposte ottenute la più saggia fu quella di Zorobabele il quale sostenne che il maggior potere è quello della verità in quanto questa produce cose giuste e durevoli. Oltre ai molti premi promessi, Dario offrì a Zorobabele la possibilità di esprimere una richiesta ed il notabile chiese che si riprendesse la costruzione del Tempio di Gerusalemme.
Così un grande numero di Ebrei tornò in Giudea ed intraprese la ricostruzione sotto la protezione di Dario. In pochi anni il Tempio fu ricostruito ma gli anziani che ricordavano la grandezza del primo Tempio erano rattristati dalla modestia del nuovo edificio.
Ancora una volta i Samaritani si dimostrarono ostili verso i Giudei e protestarono presso Dario insinuando che i Giudei stavano fortificando Gerusalemme con nuove mura mentre preparavano una sedizione. Dario, tuttavia, rinvenne negli archivi di Ecbatana la lettera con la quale Ciro decretava la ricostruzione del Tempio e, confortato da questa autorevole fonte, ribadì la propria decisione. I Samaritani dovettero necessariamente adeguarsi, ma le ostilità ed il boicottaggio continuarono se pure in modo meno evidente.
Alla morte di Dario (486 a.C.), salì al trono il figlio Serse I che proseguì la politica paterna nei confronti dei Giudei. Sotto Serse un altro folto gruppo di Ebrei residenti in Babilonia tornò in Giudea sotto la guida del profeta Esdra.
A Gerusalemme Esdra si dedicò a ripristinare l'ortodossa osservanza della Legge riprendendo la celebrazione dei riti e delle feste secondo le modalità tradizionali e persuadendo quanti avevano sposato donne straniere ad allontanarle dalla città.
Dopo aver raccontato che Esdra morì in tarda età e fu sepolto a Gerusalemme con molti onori, Giuseppe Flavio passa a narrare le vicende del profeta Nehemia.
Questi viveva ancora a Susa ed era al servizio del re quando venne a sapere da alcuni viaggiatori che le cose non andavano bene in Giudea a causa dell'ostilità dei due popoli confinanti. Nehemia chiese a Artaserse il permesso di recarsi in Giudea per portare il proprio aiuto ed il re, fornitolo di opportune credenziali, lo lasciò andare.
Nehemia partì con un gruppo di suoi parenti e seguaci e, giunto a Gerusalemme, cominciò a predicare ai Giudei perché riprendessero le fortificazioni della città, opera che era stata trascurata a causa dei conflitti di cui si è detto. Egli stesso presiedette ai lavori con indefessa alacrità e riuscì a portare a compimento l'opera - a dispetto delle continue insidie dei nemici - nell'arco di due anni e quattro mesi.
Alla morte di Serse, il potere passò al figlio Assuero, detto dai Greci Artaserse.
Quando questi si insediò sul trono indisse favolosi festeggiamenti nel corso dei quali si ritenne offeso dalla moglie Aste che, in osservanza della legge persiana che proibiva alle donne di mostrarsi agli estranei, rifiutò di partecipare ad un banchetto.
Artaserse, pur amandola, ripudiò Aste ed incaricò i suoi consiglieri di trovargli una nuova consorte fra le vergini più belle dell'impero. Fu così che conobbe Ester, donna ebrea che, orfana di entrambi i genitori, era stata allevata dallo zio Mordecai, uno dei membri più ragguardevoli della tribu di Beniamino.
Più tardi Mordecai ebbe occasione di salvare la vita di Artaserse denunciando una congiura degli eunuchi di corte e, ovviamente, ricevette molti onori. Ciò provocò l'invidia e l'ostilità di Aman, un consigliere del re di origine amalecita il quale riuscì a convincere Artaserse a decretare lo sterminio degli Ebrei.
Disperato, Mordecai chiese ad Ester di intervenire, operazione molto rischiosa in quanto la legge prevedeva la morte per chiunque, familiari compresi, importunasse il re senza essere espressamente convocato.
Intanto Aman, fiero dei propri successi, aveva progettato di chiedere al re la crocefissione di Mordecai. Ester osò presentarsi al re che l'accolse benevolmente e lei fece in modo che venisse organizzato un banchetto, invitando Aman.
Durante la cena la regina smascherò il perfido consigliere rivelandone le macchinazioni ed Aman finì appeso alla croce che aveva preparato per Mordecai.
Immediatamente Artaserse emanò un nuovo decreto che annullava il precedente e rendeva di pubblica notorietà le malefatte di Aman ed il castigo da questi subito. Questi eventi portarono ad un forte mutamento della condizione degli Ebrei in tutto l'impero persiano, molti loro nemici vennero eliminati e fu istituita una nuova festa per commemorare lo scampato pericolo.
Negli anni successivi continuarono le difficoltà fra Ebrei e Samaritani ma la Giudea visse relativamente tranquilla come provincia dell'impero persiano.
Si arriva così agli ultimi decenni del quarto secolo a.C., nel 336 a.C. il re di Macedonia Filippo morì lasciando il potere al figlio Alessandro il quale intraprese una vasta campagna alla conquista dell'Asia.
Nel 333 si scontrò con Dario III nella battaglia di Isso ed i Persiani subirono una dura sconfitta.
Subito dopo conquistò la Siria ed attaccò la Fenicia. In quel periodo scrisse al gran sacerdote dei Giudei, Jaddo, chiedendogli aiuti materiali per le sue truppe ed offrendo amicizia, ma il gran sacerdote rispose di essere vincolato dal giuramento di fedeltà prestato a Dario.
Conquistata Tiro, Alessandro Magno marciò minacciosamente contro la Giudea ed occupò Gaza, a questo punto il governatore Sanaballete (Sanballat) abbandonò la causa persiana e passò dalla parte dei Macedoni.
Con l'approvazione di Alessandro, Sanaballete iniziò la costruzione di un tempio dei Samaritani e ne rese sommo sacerdote il genero Manasse. Sette mesi dopo Sanaballete morì, intanto Alessandro muoveva alla conquista di Gerusalemme.
Per ispirazione divina ricevuta in sogno, Jaddo decise di accogliere Alessandro gioiosamente e gli andò incontro vestito dei paramenti sacerdotali e seguito dal popolo in festa. Alessandro rese onore al Dio rappresentato da Jaddo e raccontò di averlo a sua volta sognato prima di iniziare le sue imprese.
Quando gli fu mostrato il libro di Daniele che aveva profetizzato la caduta dei Persiani ad opera di un greco, Alessandro si mostrò entusiasta e concesse volentieri agli Ebrei di continuare a vivere secondo le proprie leggi.
Anche i Samaritani cercarono di godere dei benefici ricevuti dagli Ebrei ma Alessandro rimandò ogni decisione in merito al suo ritorno, quindi proseguì la sua marcia verso l'Egitto.
Il Macedone sarebbe morto qualche anno dopo (323 a.C.) ed il suo impero diviso fra i suoi successori.


Libro XII


Fra i generali di Alessandro che si spartirono il regno, Antigono ebbe l'Asia, Seleuco i territori babilonesi, Lisimaco l'Ellesponto, Cassandro la Macedonia e Tolomeo l'Egitto. I successori del conquistatore, detti Diadochi, furono spesso in guerra fra loro.
Tolomeo detto Sotere conquistò Gerusalemme senza combattere, invadendola di sabato mentre i Giudei erano intenti al riposo rituale. Prese molti schiavi ed altri lo seguirono spontaneamente, attratti dalle ricchezze dell'Egitto.
Tolomeo I Sotere morì dopo quarantuno anni di regno, lasciando il potere a Tolomeo II detto Filadelfo. Questi, appassionato bibliofilo, ordinò una traduzione in greco delle Leggi degli Ebrei e di altri loro testi sacri.
Consigliato dal suo amico Aristea, Tolomeo Filadelfo decise di liberare tutti gli schiavi Ebrei che si trovavano in Egitto molti dei quali deportati dal padre o discendenti di quelli. Lo fece in modo pacifico, riscattandoli dai proprietari a spese del tesoro regio.
Intanto il bibliotecario Demetrio Falereo si occupava di raccogliere i testi ebraici. Trovando non ben curate le versioni delle Leggi di cui era in possesso, propose al re di richiedere al sommo sacerdote dei Giudei un gruppo di esperti che curasse una nuova e più affidabile edizione.
Tolomeo scrisse dunque al sommo sacerdote Eleazaro, inviandogli anche ricchissimi doni per il Tempio. Nella stessa lettera il re informava il sacerdote di aver liberato oltre centomila schiavi Ebrei, parti dei quali erano entrati nel suo esercito o negli uffici statali.
Gli esperti selezionati da Eleazaro, sei per ogni tribu, erano settantadue ma Giuseppe Flavio "arrotonda" a settanta e con il nome di "Bibbia dei LXX" passò infatti alla storia questa famosissima traduzione.
Tolomeo accolse gli anziani con molto onore e con grande gioia ed offrì loro un banchetto di benvenuto che durò dodici giorni durante i quali il re consultò i suoi sapienti ospiti su grandi questioni filosofiche.
Alloggiati comodamente sull'isola di Pharos i Settanta si misero al lavoro con grande impegno e nell'arco di settantadue giorni completarono la traduzione.
La versione fu accolta con entusiasmo da Tolomeo che rimandò quindi a casa i traduttori non senza aver elargito loro ricchissimi doni.

La Giudea fu più tardi invasa e conquistata da Antioco III il Grande che combattè lungamente contro Tolomeo Filopatore e contro il figlio di questi Tolomeo Epifane. Esasperati dal lungo periodo di guerre, i Giudei accolsero volentieri il vincitore ed Antioco li ricompensò in vari modi: con la libertà nel culto e nelle tradizioni, con varie facilitazioni fiscali, con la liberazione dei prigionieri di guerra e con un nuovo restauro del Tempio e dei principali edifici di Gerusalemme.
Dopo aver vinto, Antioco concluse un trattato di pace con Tolomeo Epifane e lo suggellò dandogli in sposa sua figlia Cleopatra. La Giudea, Samaria, la Celesiria e la Fenicia passarono a Tolomeo come dote della sposa.
Si racconta che a questo punto il grande sacerdote Onia rifiutò di versare i tributi per avarizia provocando risentite reazioni da parte del re. Ad accogliere gli ambasciatori di Tolomeo fu Giuseppe, figlio di Tobia e della sorella di Onia. Questi seppe conquistare la simpatia degli ambasciatori, evitando ogni rappresaglia e quando, poco più tardi, si presentò personalmente a Tolomeo, riuscì ad ottenere l'incarico di esattore, incarico che svolse con onestà e risolutezza, aumentando le entrate regali ed acquisendo grande potere e prestigio personali.
Nell'arco di ventidue anni Giuseppe ebbe sette figli da una sola moglie, quindi sposò la moglie del proprio fratello ed ebbe da questa un altro figlio di nome Ircano.
Ircano si dimostrò presto molto intelligente e capace procurandosi il favore del padre e l'invidia rabbiosa dei fratelli.
Quando a Tolomeo nacque un erede, Giuseppe, ormai anziano, inviò Ircano a rappresentarlo nei festeggiamenti munendolo di una lettera per l'amministratore dei suoi beni in Alessandria perché finanziasse l'acquisto di doni per la coppia reale e per il neonato.
Gli invidiosi fratelli tramarono perché Ircano venisse ucciso durante il viaggio, ma Ircano, giunto in Alessandria, seppe guadagnarsi a sua volta la benevolenza del re. Lo fece offrendo doni ricchissimi (200 schiavi) che costrinse l'amministratore a finanziare e con altri regali comperò quanti erano incaricati di ucciderlo.
Tornato a casa incolume fu attaccato dai fratelli, con la connivenza del padre ora adirato con lui per le grandi somme spese. Ircano si scontrò con i fratelli, ne uccise due e fuggì oltre il Giordano, ove si stabilì. Negli anni successivi morirono il sacerdote Onia e Giuseppe, morì anche Antioco lasciando il trono a Seleuco IV Filopatore. Morì infine Tolomeo Epifane che lasciava il potere al figlio omonimo. Durante quegli anni Ircano continuò a vivere oltre il Giordano, ove si costruì una fortezza, scontrandosi spesso con gli Arabi. Anche le ostilità con i suoi fratelli non si esaurirono, anzi continuarono a lungo provocando scontri e guerra civile.
Quando Seleuco morì lasciando il trono d'Asia al fratello Antioco Epifane, Ircano si sentì minacciato dal nuovo sovrano e preferì togliersi la vita. Antioco si impadronì di tutto il suo dominio.
In quel periodo altre lotte civili tormentavano Gerusalemme e parte dei Giudei cercò sostegno in Antioco rinnegando le Leggi ed adottando usanze greche.
Antioco si dedicò alla conquista dell'Egitto (169 a.C.) che occupò con grandi forze militari ma non arrivò a prendere Alessandria a causa dell'intervento romano.
Ripiegando sulla Giudea, Antioco occupò Gerusalemme con l'aiuto dei cittadini suoi simpatizzanti e dopo aver eliminato gran parte degli oppositori fece ritorno ad Antiochia.
Due anni più tardi Antioco tornò a Gerusalemme per saccheggiare, spogliò il Tempio di tutti i suoi tesori e proibì lo svolgimento dei sacrifici quotidiani. Iniziò quindi un periodo di persecuzione nel quale coloro che non accettavano di abbandonare le usanze nazionali ed i riti religiosi subirono spesso la crocifissione o altre forme di martirio.
In un villaggio della Giudea viveva in quegli anni un uomo di nome Mattatia che aveva cinque figli: Giovanni, Simone, Giuda, Eleazaro e Gionata. Quando i soldati di Antioco si recarono al villaggio per imporre riti pagani Mattatia ed i figli si ribellarono provocando un'insurrezione e facendo rapidamente molti proseliti.
Mattatia, che aveva assunto il comando della ribellione, morì di malattia dopo circa un anno affidando ai figli il compito di continuare la lotta contro gli invasori. Assunse allora il comando il figlio Giuda detto Maccabeo, che riuscì a scacciare dalla regione i soldati di Antioco.
Giuda Maccabeo affrontò quindi l'esercito di Apollonio, governatore di Samaria ottenendo una grande vittoria ed uccidendo lo stesso Apollonio. Poco dopo toccò a Serone, governatore della Celesiria, cadere sotto le armi di Giuda Maccabeo.
Antioco si rese conto della forza di Giuda Maccabeo e, deciso di agire nel modo più efficace contro di lui, affidò il comando al generale Lisia. Questo organizzò due campagne contro la Giudea ma fu ambedue le volte sconfitto nonostante la superiorità numerica del suo esercito.
Tornato a Gerusalemme, Giuda restaurò il Tempio, ripristinò il culto tradizionale e si occupò di combattere contro i popoli vicini che si mostravano ostili, come gli Idumei e gli Ammoniti.
Questi conflitti andarono complicandosi e ben presto Giuda Maccabeo ed i suoi fratelli si trovarono ad affrontare quella che, dal racconto di Giuseppe Flavio, si direbbe una vera e propria coalizione antigiudea delle popolazioni confinanti.
I Maccabei condussero una campagna gloriosa oltre il Giordano, conquistarono vari territori e città e tornarono a casa senza aver subito perdite.
In quel periodo, colpito da una malattia durante una campagna militare in Oriente, Antioco Epifane morì lasciando il regno al figlio Antioco V Eupatore con la reggenza di un consigliere di nome Filippo, data la giovane età dell'erede.
Anche Antioco Eupatore, ancora affiancato da Lisia, invase la Giudea con un esercito. Evento scatenante fu il tentativo di Giuda Maccabeo di scacciare da Gerusalemme il presidio militare di Antioco.
Dopo la battaglia nel corso della quale perse la vita Eleazaro, fratello minore di Giuda Maccabeo, Antioco arrivò a Gerusalemme e la cinse d'assedio, tuttavia fu informato che l'ex reggente Filippo, insorto, muoveva contro di lui alla testa di un esercito. Antioco venne dunque a patti con gli Ebrei e lasciò Gerusalemme ma non senza aver distrutto le fortificazioni del Tempio ed aver eliminato il sommo sacerdote Onia (III). Tornato a casa Antioco sconfisse ed uccise Filippo che aveva tentato di usurpare il trono.
Antioco fu ucciso a sua volta, dopo due anni di regno, da Demetrio, figlio di Seleuco IV Filopatore.
Demetrio, accogliendo le istanze del nuovo sommo sacerdote Alcimo (Jakeimo), tentò di catturare Giuda Maccabeo.
La controversia fra Alcimo e Maccabeo degenerò provocando episodi di guerra civile. Alcimo convinse Demetrio ad intervenire e questi inviò il generale Nicanore con un esercito, ma Giuda Maccabeo ebbe ancora una volta la meglio e Nicanore dovette abbandonare il tentativo di occupare Gerusalemme e tornò ad Antiochia.
Durante questa campagna Alcimo morì ed il popolo elesse Giuda come sommo sacerdote.
Giuda cercò l'amicizia dei Romani che in quel periodo erano in piena espansione ed avevano appena sconfitto Perseo ed Antioco il Grande, e riuscì a stipulare un trattato di amicizia ed alleanza con Roma che gli garantì aiuto e protezione contro Demetrio.
Infine Giuda Maccabeo cadde combattendo contro Bacchide, generale macedone. Quando morì (160 a.C.) aveva retto il sommo sacerdozio per tre anni.


Libro XIII


Alla morte di Giuda Maccabeo per la nazione giudaica seguì un duro periodo di dominazione macedone.
La guida del movimento antimacedone passò a Gionata e Simone, fratelli di Giuda Maccabeo che, inizialmente, dovettero ritirarsi nel deserto per sfuggire a Bacchide e furono per due anni pressoché latitanti, perseguitati dai continui tentativi di cattura operati dai Macedoni.
Infine, dopo un assedio nel quale rischiò di essere sconfitto, Bacchide accettò di firmare un trattato di pace con Gionata e si ritirò dalla Giudea.
Qualche tempo dopo Alessandro Bala, figlio di Antioco IV Epifane, attaccò la Siria occupando la città di Tolemaide (Acri); Demetrio, preparandosi allo scontro con lui, stipulò un nuovo trattato di amicizia con Gionata per essere certo che questi non sostenesse Alessandro. Dal canto suo Alessandro, consapevole dei vantaggi di un'alleanza con i Giudei, cercò di portare Gionata alla sua causa e gli conferì l'investitura di sommo sacerdote (152 a.C.).
Intenzionato a non lasciarsi sfuggire l'alleanza, Demetrio rilanciò sgravando la Giudea dei contributi fiscali e promettendo forti elargizioni per finanziare abbellimenti del Tempio e nuove fortificazioni di Gerusalemme.
Poco dopo Alessandro e Demetrio si scontrarono in una battaglia nel corso della quale Demetrio perse la vita. Sconfitto Demetrio, Alessandro ottenne il pieno potere sulla Siria e stabilì rapporti amichevoli con l'Egitto sposando Cleopatra, figlia del re Tolomeo VI Filometore.
Gionata Maccabeo era, a sua volta, in amicizia con Alessandro Bala ma qui Giuseppe Flavio, in un passo poco chiaro, racconta di uno scontro militare con un esercito di Alessandro comandato dal governatore della Celesiria Apollonio Tao. Sembra, tuttavia, che quest'ultimo combattesse per Demetrio II, figlio del defunto Demetrio, che contendeva il regno di Bala.
L'allenaza fra Alessandro Bala e Tolomeo fu rotta da quest'ultimo che aveva subito un attentato da parte di una congiura alla quale Alessandro Bala era risultato estraneo. Tolomeo Filometore riprese la figlia, si alleò con Demetrio II e lo aiutò a deporre Alessandro e a salire sul trono di Antiochia. Nella guerra che seguì persero la vita sia Tolomeo che Alessandro.
Demetrio II Nicatore finita la guerra congedò i soldati rifiutando ulteriori compensi ed esponendo così il proprio potere ad un grave rischio. Infatti quanti avevano parteggiato per Alessandro ne approfittarono e cominciarono ad organizzarsi per insediare sul trono il giovane Antioco, figlio di Alessandro Bala.
Demetrio riuscì a sedare una prima rivolta con l'aiuto di un contingente giudeo inviatogli da Gionata, ma alla fine i suoi avversari guidati dal generale Trifone, lo cacciarono da Antiochia ed incoronarono Antioco VI.
Alla causa del nuovo re passò anche Gionata verso il quale Demetrio si era comportato slealmente, immemore del soccorso ricevuto, imponendo alla Giudea aspre vessazioni fiscali.
Gionata condusse una campagna vittoriosa contro i generali di Demetrio e, nello stesso periodo, rinnovò i trattati di amicizia con i Romani e con gli Spartani.
Dal canto suo Demetrio II intraprese una campagna contro i Parti ma venne duramente sconfitto e catturato vivo.
Il generale Trifone, tramando di rovesciare Antioco, decise di eliminare Gionata che era un temibile alleato del re. Attirandolo a Tolemaide con l'inganno, Trifone riuscì a far prigioniero Gionata e cominciò a preparare azioni militari contro la Giudea.
Venuto a mancare Gionata, il comando dei Giudei passò al fratello Simone, mentre Gionata veniva ucciso da Trifone dopo aver detenuto il potere per quattro anni.
Durante il suo pontificato Simone riuscì a liberare definitivamente la Giudea dal dominio macedone, sgravandola da ogni tributo e cacciando i presidi militari.
Trifone prese il potere eliminando Antioco VI e i dissidenti del regno si raccolsero intorno a Cleopatra, vedova di Demetrio II che viveva in Seleucia. Questa propose di sposarla ad Antioco (Antioco VII Sidete), fratello di Demetrio II e di prendere il potere.
Questo Antioco infatti attaccò Trifone, lo spinse in Fenicia e qui lo assediò nella città di Dora. In questa guerra contro Trifone, Antioco trovò presto un alleato in Simone Maccabeo, ma quando Trifone fu sconfitto ed ucciso, Antioco, dimentico del sostegno ricevuto, saccheggiò la Giudea e tentò di catturare lo stesso Simone. Simone, tuttavia, affrontò il nemico con grande vigore ed abilità e riuscì a sconfiggerlo.
Dopo otto anni di sacerdozio, Simone fu ucciso in un complotto organizzato dal genero Tolomeo. Dal complotto riuscì a scampare il giovane Giovanni Ircano, figlio di Simone. Il popolo, favorevole ai Maccabei, costrinse alla fuga Tolomeo ma questi si rifugiò in una fortezza prendendo come ostaggio la madre ed i fratelli di Giovanni. L'assedio, per questo motivo, si protrasse a lungo. Infine Tolomeo uccise gli ostaggi e fuggì fuori dalla Giudea.
Poco dopo Antioco Sidete invase la Giudea ed assediò Gerusalemme, anche questo assedio fu lungo e doloroso e si concluse quando, durante una tregua, Antioco e Giovanni raggiunsero un accordo. Giovanni accettò di pagare tributi e consegnare ostaggi in cambio della liberazione della città.
Si raggiunse quindi un patto di alleanza militare ed i Giudei appoggiarono Antioco nella sua guerra contro i Parti. In questa guerra Antioco morì e gli successe il fratello Demetrio.
Approfittando della situazione, Giovanni Ircano attaccò alcune città della Siria e conquistò l'intera Idumea, imponendo agli abitanti i costumi giudaici. Il tempio dei Samaritani venne distrutto.
Giovanni rinnovò anche il trattato di amicizia con i Romani e cercò di ottenere dal Senato soddisfazione per i danni subiti dai Giudei nella guerra contro Antioco, tuttavia il Senato, pur rinnovando il trattato, prese tempo differendo ogni intervento.
Il re Demetrio fu sconfitto ed ucciso da Alessandro Zabina, inviato di Tolomeo VIII Evergete, ed Alessandro venne a sua volta sconfitto ed ucciso da Antioco VIII Grypo, figlio di Antioco Sidete.
Della guerra che Antioco Grypo combatté contro il fratello Antioco Cyziceno approfittò Giovanni Ircano che riuscì a consolidare il governo della Giudea, riorganizzare l'economia ed accumulare considerevoli ricchezze.
Venuto in conflitto con i Samaritani, Giovanni Ircano attacco la città di Samaria ed affidò l'assedio ai propri figli Antigono ed Aristobulo. Antioco Cyziceno, accorso in aiuto agli assediati, fu sconfitto da Aristobulo. Antioco tornò con nuove forze ottenute dagli Egiziani e provò a disturbare i Giudei con una tattica di saccheggi e guerriglia per distrarli dall'assedio ma, non ottenendo risultati significativi, dopo qualche tempo abbandonò l'impresa. Infine, dopo circa un anno di assedio, Giovanni Ircano conquistò e distrusse Samaria.
Ircano morì dopo aver governato per trentun'anni. Durante l'ultimo periodo aveva rotto con il partito dei Farisei ed era passato a quello dei Sadducei.
Ircano aveva disposto che il governo passasse alla moglie ed il sommo sacerdozio al figlio maggiore Aristobulo. Questi però fece imprigionare la madre, che lasciò morire di inedia, e si proclamò re. In un primo momento Aristobulo associò al regno il fratello Antigono ma dopo qualche tempo, non fidandosi di lui, lo fece eliminare.
Aristobulo trascurò le tradizioni giudaiche ed accolse sollecitazioni culturali greche, tanto che Giuseppe Flavio ricorda il suo soprannome di "Filelleno". Morì dopo un solo anno di regno, sconvolto - secondo l'autore - dal rimorso per gli assassinii dei suoi consanguinei.
Morto Aristobulo, sua moglie Salina - detta Alessandra dai Greci - affidò il regno al fratello Alessandro Janneo.
Alessandro Janneo, approfittando delle rivalità interne nel regno di Siria che ancora proseguivano, attaccò la città di Tolemaide. I cittadini chiesero aiuto a Tolomeo IX Latiro, ex re di Egitto che, scacciato dalla madre Cleopatra III, era divenuto signore dell'isola di Cipro. I rapporti politici fra Tolemaide, Tolomeo Lathyro ed Alessandro Janneo furono una complessa serie di trattati di pace ed alleanza subito infranti, fra le cause di questa situazione era l'influenza della regina Cleopatra che, ostile al figlio, cercava di evitare che trovasse altri alleati potenti. Infine Tolomeo sconfisse l'esercito di Alessandro ed invase la Giudea.
A questo punto però Cleopatra, preoccupata della crescente potenza di Tolomeo, intervenne in modo massiccio, prese Tolemaide ed accettò di concludere un patto di alleanza con Alessandro Janneo. Alessandro marciò sulla Celesiria, quindi sulle città costiere occupandone diverse, infine - dopo un assedio particolarmente sanguinoso - conquistò la città di Gaza.
Intanto continuavano le guerre fratricide dei Seleucidi: Antioco Grypo fu ucciso da una congiura, il figlio di lui Seleuco Epifane uccise lo zio Antioco Cyziceno ma dovette affrontare il figlio di questi, Antioco Eusebe, e fu cacciato dalla Siria.
Seleuco morì in esilio ed i suoi fratelli Antioco XI e Filippo continuarono a combattere e quando il loro rivale Antioco Eusebe morì in battaglia contro i Parti, rimasero padroni della Siria.
Il potere di Alessandro Janneo era instabile, l'opposizione era forte e nutrita e questa situazione portò ad una guerra civile in Giudea che durò sei anni. I rivali di Alessandro chiesero aiuto a Demetrio III Euchero. Sconfitto Demetrio, Alessandro fuggì sulle montagne con quanti gli erano rimasti fedeli, in seguito riuscì a riprendere il potere e si vendicò sui rivali con crudeltà che divenne proverbiale. Quando la grande maggioranza dei suoi nemici ebbe subito la morte o l'esilio, Alessandro Janneo riprese le redini del governo per conservarle fino alla morte.
Demetrio Euchero si scontrò con varie nazioni fra loro alleate finché non fu sconfitto e fatto prigioniero da Mitridate, re dei Parti. La Giudea, presa fra gli eventi delle guerre fra Seleucidi, subì altre invasioni, prima da parte di Antioco Dioniso, poi di Areta, re della Celesiria, per contro Alessandro Janneo svolse campagne militari, a volte con successo, conquistando porzioni delle regioni confinanti.
Nel corso di una di queste campagne, stroncato dal bere e dalla malaria, Alessandro Janneo morì affidando il regno alla moglie Salomè Alessandra.
La nuova regina seppe assicurarsi l'appoggio del potente partito dei Farisei, affidò il sommo sacerdozio al figlio Ircano e governò per qualche tempo con relativa tranquillità, nonostante le tensioni politiche tra i Farisei suoi sostenitori e l'opposizione guidata da suo figlio Aristobulo II.
Al nono anno del regno di Alessandra, Aristobulo era pronto per prendere il potere con la forza ma fu preceduto dalla scomparsa della madre che morì di malattia all'età di settantadue anni.


Libro XIV


La guerra di successione fra Ircano II e Aristobulo II si concluse con la resa di Ircano, che perse il potere ed ottenne solo di poter vivere indisturbato da privato cittadino, conservando le proprietà personali. Qualche tempo dopo Ircano, sostenuto dall'idumeo Antipatro, si recò a Petra dal re Areta, in cerca di aiuti contro Aristobulo. Questa guerra si concluse con l'intervento delle forze romane di Pompeo (si trovava nella regione per combattere in Armenia contro Tigrane) che liberarono Aristobulo e costrinsero Areta ed Ircano a ritirarsi.
Poco dopo Aristobulo, riorganizzato il proprio esercito, attaccò e sconfisse Areta.
Su richiesta degli stessi contendenti, Pompeo accettò di farsi giudice fra le parti ed ascoltò le ragioni di Aristobulo ed Ircano ma l'atteggiamento ostile e sleale di Aristobulo lo spinse ad un intervento militare in Giudea.
Pompeo espugnò Gerusalemme e depose Aristobulo nominando Ircano sommo sacerdote. Gerusalemme divenne tributaria dei Romani e la nazione giudaica fu posta sotto il controllo di un governatore. Le città ed i territori che erano stati conquistati dai Giudei furono liberati ed annessi alla provincia. In particolare la Celesiria fu affidata a Marco Emilio Scauro che ne divenne governatore (65 a.C.). Aristobulo, la sua famiglia e molti prigionieri furono tradotti a Roma per essere esposti nel trionfo di Pompeo.
Riuscì a fuggire Alessandro, figlio di Aristobulo e qualche tempo dopo tentò di rientrare in possesso della Giudea e si scontrò con Aulo Gabinio, governatore romano della Siria. Costretto a ritirarsi nella fortezza di Alessandreion, venne assediato dai Romani ed alla fine si arrese.
Gabinio suddivise la Giudea in cinque distretti, governati da altrettanti consigli, eliminando così ogni forma di monarchia. Qualche tempo dopo Aristobulo riuscì a fuggire da Roma, tornò in Giudea e cercò di riprendere il potere, ma fu battuto e catturato da Gabinio che lo rimandò a Roma ove fu definitivamente imprigionato.
Prima di tornare a Roma e lasciare il governatorato a Crasso, Gabinio affronta altre rivolte sollevate dai Nabatei ed ancora da Alessandro.
Quando Crasso divenne governatore spogliò il Tempio di Gerusalemme dai suoi tesori per finanziare la sua campagna contro i Parti, campagna nella quale, notoriamente, subì una disastrosa sconfitta e perse la vita.
Qualche tempo dopo, Giulio Cesare, che aveva intanto preso il potere a Roma, liberò Aristobulo e lo dotò di due legioni per inviarlo in Siria a combattere contro i Pompeiani.
Tuttavia Aristobulo non potè compiere l'impresa perché avvelenato dai partigiani di Pompeo. Anche Alessandro, figlio di Aristobulo, fu eliminato dai Pompeiani.
Più tardi, dopo la sconfitta di Pompeo (Farsalo, 48 a.C.), Antipatro governatore dei Giudei ed Ircano II sommo sacerdote, collaborarono con Cesare sul piano militare e su quello politico.
Cesare li ricompensò confermando Ircano II sommo sacerdote e reintegrandolo nella dignità di etnarca (che era stata abolita da Gabinio) e nominando Antipatro procuratore della Giudea.
Partito Cesare, Antipatro divise il potere che aveva ricevuto con i figli maggiori: Fasaele ed Erode. I due giovani si comportarono bene e furono amati dal popolo, in particolare Erode che, pur avendo solo quindici anni, prese subito ad occuparsi con successo dei banditi che infestavano la regione. Ma il successo di Antipatro e dei suoi figli suscitò la gelosia di molti notabili che si appellarono ad Ircano. Come pretesto addussero il fatto che Erode, avendo fatto giustiziare dei banditi senza processo, aveva violato la legge.
Erode si presentò in giudizio ma quando vide che stava per essere condannato, su consiglio dello stesso Ircano, fuggì a Damasco, presso il romano Sesto Cesare che lo nominò governatore della Celesiria.
In un primo momento Erode decise di rientrare in Gerusalemme con la forza e mosse contro Ircano con un esercito, tuttavia il padre ed il fratello lo convinsero a desistere.
A questo punto Giuseppe Flavio inserisce nel racconto una lunga digressione citando diversi decreti di Giulio Cesare che concedevano benefici ai Giudei riconoscendone la lealtà ed il comportamento amichevole verso i Romani.
Anche dopo la morte di Cesare questa politica continuò ed i consoli Marco Antonio e Dolabella rinnovarono i trattati con i Giudei. Analogamente altri consoli successivi concessero benefici ai Giudei, sgravi fiscali, esenzioni dal servizio militare ed altro.
Dopo la digressione, l'Autore fa un passo indietro e riprende il racconto dai tempi in cui Cesare combatteva in Africa contro i Pompeiani (46 a.C.-45 a.C.). In quel periodo Cecilio Basso, in Siria, eliminò Sesto Cesare e si dichiarò padrone della regione. Contro di lui Cesare, poco prima di morire, inviò Lucio Staio Murco. Antipatro collaborò attivamente con i Romani nella guerra contro Cecilio Basso.
Il cesaricida Cassio venne in Siria e sia Staio Murco, sia Cecilio Basso, passarono dalla sua parte.
Cassio impose pesanti tributi ai Giudei ma Erode, che governava la Giudea, riuscì a conquistare la sua amicizia ed ottenne il comando di un potente esercito nonché la promessa di essere nominato re della Giudea a guerra finita. Intanto Antipatro veniva avvelenato da uno dei suoi rivali, di nome Malico. Poco tempo dopo Erode, con il consenso e l'aiuto di Cassio, fece pugnalare Malico, evitando di affrontarlo direttamente per non correre il rischio di scatenare una guerra civile.
Dopo la partenza di Cassio si verificarono diversi disordini. Erode sconfisse Antigono, figlio di Aristobulo, che aveva tentato di invadere la Giudea.
Quando Cassio fu sconfitto da Antonio ed Ottaviano, Erode ed Ircano si affrettarono a dimostrarsi amici di Marco Antonio che, dopo la battaglia, si era recato in Bitinia ad incontrare gli ambasciatori delle province asiatiche. Antonio accolse benevolmente la richiesta di liberare i Giudei che essendosi dimostrati ostili verso Cassio erano stati resi schiavi ed emanò alcuni decreti favorevoli ai Giudei.
Più tardi Antonio incontrò altri ambasciatori giudei che, ostili verso Erode, chiesero ad Antonio di agire contro di lui. Tuttavia Antonio - che aveva conosciuto Antipatro quando militava con Gabinio - si dimostrò favorevole verso Fasaele ed Erode e li riconfermò al governo della Giudea.
L'anno successivo (40 a.C.) la Siria fu occupata dai Parti. Approfittando della situazione, Antigono figlio di Aristobulo, trattò con il capo dei Parti Pacoro ed ottenne aiuti con i quali tentò un nuovo attacco a Gerusalemme ma anche questa volta fu sconfitto da Fasaele e da Erode.
Ciò nonostante, i Parti assediarono Gerusalemme e, con un inganno, convinsero Fasaele ed Ircano a recarsi nel loro paese dove li fecero prigionieri. Erode, intuito il pericolo, fuggì in Idumea, con la famiglia ed un gruppo di amici e servitori. Messa al sicuro la famiglia nella fortezza di Masada, Erode continuò a viaggiare verso l'Arabia. Intanto i Parti, conquistata Gerusalemme, si davano al saccheggio in tutta la Giudea.
Antigono fu insediato dunque al potere con l'aiuto dei Parti. Il suo primo gesto fu di mutilare Ircano tagliandogli le orecchie per privarlo del sommo sacerdozio, la legge giudaica proibiva infatti che questa carica fosse detenuta da chi avesse difetti fisici. Fasaele preferì uccidersi piuttosto che morire per mano del nemico.
Erode chiese senza successo aiuti a agli Arabi, quindi si recò in Egitto e da qui partì alla volta di Roma.
A Roma Erode incontrò Antonio al quale chiese aiuto dopo averlo informato sugli eventi recenti e sulla situazione in Giudea. Antonio ed Ottaviano lo appoggiarono pienamente e convinsero il Senato non solo ad intervenire presso i Parti ma anche a conferire ad Erode il titolo di Re della Giudea. Erode tornò in Galilea dove raccolse un esercito e marciò contro Antigono con il sostegno delle legioni romane di Silone e di Ventidio, debitamente istruiti da Antonio. Prima di attaccare, Erode si recò alla fortezza di Masada, mise in fuga i Parti che l'assediavano e liberò i propri familiari.
A Gerusalemme Antigono, parlamentò con i Romani ma rifiutò di consegnare il regno ad Erode. Dal canto suo Erode, indebolito dal boicottaggio di Silone che era stato corrotto da Antigono, ripiegò sulla Galilea, la riconquistò e, pagato il soldo alle truppe, permise loro di ritirarsi nei quartieri d'inverno. Successivamente Erode completò l'eliminazione del brigantaggio della Galilea e si organizzò per il tentativo di eliminare definitivamente Antigono.
Prima di agire Erode incontrò nuovamente Antonio che in quel periodo era impegnato nell'assedio di Samosata ed ottenne due legioni come aiuto nella sua guerra contro Antigono.
Mentre Erode si trovava presso Antonio, suo fratello Giuseppe periva in combattimento contro le forze di Antigono presso Gerico. Seguì una ribellione popolare in Galilea contro la famiglia ed il partito di Erode. Erode, dunque, si affrettò a tornare in Galilea dove, con l'aiuto delle legioni di Antonio, ristabilì la calma.
Poco dopo Erode sconfisse l'esercito di Antigono e cinse d'assedio Gerusalemme. Durante l'assedio Erode si recò a Samaria ove sposò Mariamne, figlia di Alessandro figlio di Aristobulo. Durante l'estate del 37 a.C. alle forze di Erode impegnate nell'assedio si unirono altre truppe romane comandate da Sossio.
Alla fine di un assedio durissimo in cui innumerevoli Giudei persero la vita, Antigono si arrese a Sossio.
Sossio decise di deportare Antigono a Roma ma Erode convinse Antonio a giustiziare immediatamente il prigioniero.
Con Antigono ebbe termine la dinastia degli Asmonei iniziata da Giovanni Ircano che aveva regnato per centoventisei anni.


Libro XV


Dopo la caduta di Gerusalemme e la morte di Antigono, Erode divenne signore di tutta la Giudea. Come spesso accade in queste situazioni, seguì un periodo di persecuzioni durante il quale il re eliminò tutti quelli che erano stati ostili durante la sua ascesa.
Erode, che evidentemente si sentiva insicuro del potere conquistato perché non poteva vantare alcun diritto dinastico, operò perché il re del Parti Fraate liberasse Ircano (che si trovava ancora in Babilonia) e lo rimandasse in Giudea. Ircano nel frattempo aveva ottenuto di poter vivere in relativa libertà nella città di Babilonia ed era divenuto capo e sacerdote dei Giudei ivi residenti.
Animato dalla stessa preoccupazione, Erode fece in modo che il sacerdozio venisse affidato ad un personaggio mediocre di nome Ananel. Questa scelta ferì Alessandra (moglie dell'Alessandro ucciso dai Pompeiani e madre di Mariamne, dunque suocera di Erode) la quale desiderava che il titolo fosse riconosciuto al figlio Aristobulo.
Alessandra si rivolse ad Antonio e a Cleopatra. L'intervento di Antonio fu diplomatico e blando (mosso - a dire di Giuseppe Flavio - più dalla curiosità per la grande avvenenza dei figli di Alessandra che da un sincero interessamento alla situazione) tuttavia bastò a preoccupare Erode che, pur accusando la suocera di cospirazione, esonerò Ananel e conferì il sacerdozio al giovane Aristobulo.
Erode, chiaramente, non si fidava più della suocera e sottoponendola ad una discreta ma strettissima sorveglianza, la ridusse presto in una sorta di onorata prigionia. Alessandra scrisse segretamente a Cleopatra chiedendole aiuto e la regina le rispose esortandola a raggiungerla insieme al figlio. Alessandra organizzò la fuga ma fu tradita da un amico che informò Erode.
Temendo una reazione ostile da parte di Cleopatra, Erode finse di ignorare le intenzioni di Alessandra e si limitò ad aumentare la sorveglianza, tuttavia alla prima occasione fece uccidere Aristobulo del quale era particolarmente invidioso per l'affetto che il giovane sacerdote suscitava nel popolo.
Con un'altra lettera Alessandra informò Cleopatra dell'accaduto accusando apertamente Erode e Cleopatra (che forse nutriva delle mire sul regno di Giudea) persuase Antonio a convocare Erode ed interrogarlo. Erode dunque partì affidando il governo allo zio Giuseppe (che era anche suo cognato in quanto marito di Salomè, sorella di Erode) ed incaricandolo, nel caso lui non fosse tornato, di eliminare Alessandra e sua moglie Mariamne.
Erode riuscì a persuadere Antonio ad astenersi dall'interferire negli affari interni del suo regno, gli offrì ricchi doni e rinsaldò la loro amicizia.
Tornato in Giudea, sospettò la moglie di averlo tradito con Giuseppe e quando venne a sapere che Giuseppe aveva svelato a Mariamne i suoi ordini segreti lo fece immediatamente eliminare.
Cleopatra era particolarmente avida, non esitava ad eliminare parenti ed amici se riteneva che potessero ostacolarla e dominava totalmente la volontà di Antonio. Per lei Antonio sottrasse territori alla Giudea ed all'Arabia, facendogliene dono.
Del resto Erode, quando ricevette la visita di Cleopatra che passò dalla Giudea dopo aver accompagnato Antonio fino all'Eufrate per la sua campagna in Armenia, le donò spontaneamente alcuni territori per superare l'inimicizia che l'episodio di Aristobulo aveva suscitato.
Sembra che durante questo soggiorno in Giudea, Cleopatra tentò di sedurre Erode, forse per pura lussuria, forse in cerca di un pretesto per poterlo colpire, ma Erode eluse saggiamente le profferte della donna.
Mentre Antonio vinceva in Armenia, Erode si preparava ad attaccare gli Arabi per dei tributi che questi non gli avevano pagato.
Lo scontro fu differito quando Erode decise di offrire aiuto ad Antonio in quella sua ostilità nei confronti di Ottaviano che sarebbe presto culminata nella battaglia di Azio.
Tuttavia Antonio declinò l'offerta e consigliò ad Erode di proseguire la sua campagna contro gli Arabi che ebbe luogo di lì a poco e si concluse con la vittoria dei Giudei. In una seconda battaglia, tuttavia, gli Arabi si rifecero con l'aiuto di un esercito di Cleopatra.
Per qualche tempo Erode tormentò gli Arabi con la guerriglia ed il brigantaggio, ma dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) ed un tremendo terremoto che nel 30 a.C. sconvolse la Giudea, inviò agli Arabi un'ambasciata per proporre la pace.
Gli Arabi, confidando nell'indebolimento del nemico, rifiutarono la pace ed uccisero gli ambasciatori, tuttavia avevano sbagliato i loro calcoli. Il terremoto, infatti, pur avendo ucciso migliaia di Giudei, non aveva leso gravemente l'esercito che si trovava all'aperto. Così Erode attaccò nuovamente gli Arabi ottenendo questa volta una vittoria definitiva e gloriosa.
Nonostante questo successo, tuttavia, una grave pericolo pendeva sul capo di Erode: Ottaviano deteneva ormai il potere a Roma e la lunga alleanza fra Antonio ed Erode poteva rivelarsi, per quest'ultimo, causa di rovina.
Alessandra ed Ircano, in quei giorni, decisero di fuggire dalla Giudea e riparare presso gli Arabi per attendere al sicuro gli sviluppi della situazione ma furono traditi ed Erode colse il pretesto per condannare Ircano a morte.
Subito dopo Erode decise di incontrare Ottaviano, affidò il governo al fratello Ferora e si recò a Rodi dove Ottaviano soggiornava dopo la battaglia di Azio.
Astutamente evitò di supplicare, anzi dimostrò di non rinnegare i suoi passati rapporti con Antonio che considerava un amico e verso il quale riteneva di essersi comportato con la dovuta lealtà. L'atteggiamento di Erode piacque ad Ottaviano che lo liberò da ogni accusa e gli rese onore.
Più tardi, quando Ottaviano transitò dal suo regno, Erode gli riservò un'accoglienza regale, rinsaldando ancora di più il loro rapporto di amicizia.
Quando Ottaviano, morti Antonio e Cleopatra, prese possesso dell'Egitto, Erode lo raggiunse, si congratulò con lui ed ottenne vari privilegi e favori, fra i quali la restituzione di alcuni territori che Cleopatra aveva sottratto in precedenza alla Giudea.
Se gli affari di Erode andavano così bene sul piano diplomatico, la sua situazione familiare destava in lui grandi preoccupazioni. La moglie Mariamne prese a mostrargli un odio profondo perché Erode le aveva ucciso il padre ed il fratello. Di questa situazione approfittarono la sorella e la madre di Erode (che odiavano Mariamne e le invidiavano il nobile lignaggio) ed ordirono una serie di gravi calunnie finché Erode non si convinse che la moglie aveva tentato di assassinarlo.
Erode, che pure amava Mariamne e ne era oltremodo geloso, fece processare immediatamente la donna chiedendo ed ottenendo la condanna a morte.
Dopo l'esecuzione di Mariamne, Erode, a causa del rimorso e della nostalgia, cadde in uno stato di grande frustrazione e confusione. Dopo due anni, inoltre, si ammalò gravemente a causa di un'epidemia che aveva colpito la Giudea. Ne approfittò Alessandra che cercò, senza successo, di organizzare una congiura per riprendere il potere. Quando Erode, dopo qualche tempo, si riprese dalla malattia, venne informato del tentativo di Alessandra e la fece giustiziare.
In quel periodo Erode operò una persecuzione contro chiunque gli risultasse sospetto, non esitando ad eliminare anche amici e parenti, fra questi il cognato Costobaro.
Costobaro, idumeo e secondo marito di Salomè, era diventato governatore dell'Idumea e cognato del re per volontà dello stesso Erode, tuttavia aveva cospirato per il potere cercando l'aiuto di Cleopatra. Erode venne a conoscenza del fatto ma, per intercessione di Salomè, in un primo tempo perdonò Costobaro. Qualche tempo dopo però Salomè, entrata in contrasto con il marito, divorziò da Costobaro e lo denunciò ad Erode per nuovi atti sediziosi e questa volta Costobaro venne eliminato.
A questo punto Giuseppe Flavio comincia a narrare il secondo periodo del regno di Erode (dal 25 al 15 a.C.), durante il quale il re importò in Giudea usi e pratiche "stranieri", disapprovate dall'ortodossia giudaica.
Istituì giochi quinquennali in onore di Augusto e, per celebrarli, costruì dei grandi teatri. I giochi comprendevano anche gare di musica e spettacoli teatrali; atleti ed artisti di tutte le nazioni venivano invitati a partecipare.
Queste innovazioni turbarono molti ben pensanti ed un gruppo di fanatici organizzò un attentato per eliminare Erode. Grazie ad un delatore i congiurati furono scoperti e giustiziati, ma la situazione rimase molto tesa.
Questo clima spinse Erode a costruire una fortezza che chiamò Antonia e numerose altre fortificazioni. Si dedicò inoltre a fortificare, ingrandire ed ornare la città di Samaria, alla quale mutò il nome in Sebaste.
In quel periodo, però, (24 a.C. o 23 a.C.) una grande siccità colpì il Paese rendendo il cibo molto scarso. La carestia che ne seguì portò con se una grave pestilenza e la situazione si fece insostenibile. Erode, che si trovava a disporre di mezzi limitati a causa delle spese sostenute, non esitò a dar fondo ai suoi beni personali ed al tesoro del palazzo pur di riuscire a sfamare la popolazione.
Acquistò ingenti quantitativi di frumento con l'aiuto di Petronio, governatore romano dell'Egitto, e questo intervento portò la salvezza in Giudea. Erode ne fu ripagato con una popolarità che non aveva mai fino ad allora conquistato.
Superata la crisi, Erode fece costruire una nuova, ricchissima reggia, quindi sposò la figlia del sacerdote Simone al quale conferì il sommo sacerdozio per innalzarlo ad un rango degno della famiglia reale.
Spinto dall'ambizione di lasciare una considerevole traccia nella storia, Erode continuò la sua munifica opera di costruzione ed abbellimento di città, spingendosi a costruire anche fuori dal regno quando capitava che i suoi monumenti fossero per qualche motivo proibiti dalla legge giudaica. Sulla costa fenicia ricostruì la città di Cesarea, dotata di un formidabile porto, di un teatro e di un anfiteatro.
Successivamente mandò i suoi figli Aristobulo ed Alessandro a studiare a Roma. Augusto accolse i ragazzi con benevolenza ed ampliò il regno di Erode con una regione della Traconitide perché Erode la liberasse dal radicato brigantaggio.
Il malcontento di molti cittadini verso Erode si manifestò in occasione di una visita di Augusto, ma anche questa volta Erode uscì indenne dalla situazione e, anzi, i suoi buoni rapporti con i Romani ne risultarono rinforzati.
In politica interna Erode ricorse spesso a benefici e condoni fiscali per compensare l'impopolarità delle sue riforme. D'altro canto attuò numerose persecuzioni eliminando rapidamente chiunque si rendesse sospetto di atteggiamenti sediziosi.
Dalle sue persecuzioni e dai suoi sospetti furono sempre immuni gli Esseni, per il grande rispetto di cui godevano presso tutte le popolazioni e, forse, anche per il ricordo della profezia di diventare re che uno di loro aveva reso ad Erode quando era un ragazzo.
Nel suo diciottesimo anno di regno, Erode intraprese la ricostruzione del Tempio, demolendo quello precedente che era stato costruito sotto i Persiani i quali avevano imposto limiti alle dimensioni dell'edificio. Si trattò di un'opera grandiosa che comprese la fortificazione di tutta la collina del tempio e durò otto anni.


Libro XVI


Erode si recò in Italia e visitò Roma, al ritorno riportò in patria i suoi figli che avevano completato gli studi.
I giovani provocarono presto la gelosia di Salomè, sorella di Erode, e l'ostilità di molti rivali politici del regno. Le molte calunnie nei loro confronti arrivarono a minare l'affetto di Erode per i figli, comunque per il momento il re continuò a curarsi del loro destino e li fece sposare: Aristobulo con Berenice, figlia di Salomè ed Alessandro con Glafira, figlia del re di Cappadocia Archelao.
Qualche tempo dopo (14 a.C.) Erode accolse con grande sfarzo ed ospitalità Marco Agrippa in visita in Giudea. Agrippa ripartì per una missione nel Ponto ma nella primavera successiva Erode lo raggiunse per onorarlo ancora. Al termine della missione nel Ponto Agrippa ed Erode tornarono indietro via terra. Durante il viaggio Agrippa riceveva la visita dei rappresentanti degli stati che stavano attraversando ed accoglieva molte delle loro richieste, mentre Erode lo accompagnava fungendo da consigliere. Giunti nella Ionia incontrarono i Giudei ivi residenti che si lamentavano perché non era loro concesso di seguire le leggi giudaiche. Davanti ad Agrippa parlò Nicola di Damasco. Il discorso di Nicola, che Giuseppe riferisce in forma retorica, richiama alla memoria di Agrippa i diritti che egli stesso ed i Romani in generale hanno riconosciuto alla nazione giudaica e fa presente come il re Erode, che siede accanto ad Agrippa, abbia sempre manifestato nei confronti dei Romani la massima amicizia. E' dunque doppiamente giusto che gli Ebrei si aspettino dai Romani la tutela dei loro diritti. Agrippa accolse le richieste dei Giudei dell'Asia e poco dopo partì per Lesbo separandosi da Erode il quale, tornato a Gerusalemme, parlò al popolo narrando il buon esito del suo viaggio.
Ma ancora i dissensi familiari angustiavano nel privato la vita di Erode, così fortunato nelle cose pubbliche. Cresceva l'astio dei suoi figli contro di lui (che aveva soppresso la loro madre), astio acuito da un'accorta politica da parte di Salomè e di altri parenti.
A questo punto Erode ebbe l'infelice idea di chiamare a se Antipatro, suo figlio nato dalla prima moglie Doris quando egli era ancora un privato cittadino. Lasciò intendere che Antipatro sarebbe stato il suo successore, sperando che i figli di Mariamne ridimensionassero le proprie aspettative, ma ottenne - in realtà - soltanto di scatenare la loro invidia e di accrescere il loro odio. Inoltre lo stesso Antipatro prese ad organizzare trame segrete contro i fratellastri.
Quando Agrippa lasciò il governo delle province asiatiche e tornò a Roma, Erode lo incontrò di nuovo e gli affidò Antipatro perché lo introducesse negli ambienti del potere imperiale. Anche da lontano, con le sue lettere, Antipatro continuò a provocare i sospetti di Erode contro i fratellastri ed alla fine Erode si recò a Roma con i due giovani per farli processare da Augusto.
Erode espose ad Ottaviano i sospetti e le accuse che gravavano sui suoi figli, questi si difesero come poterono ma riconoscendo al padre il diritto di ucciderli se li riteneva colpevoli mossero a compassione Augusto e quanti assistevano al processo. Augusto decise infine di liberare i giovani da ogni accusa e fece in modo di riconciliarli con Erode, riconoscendo a questi il diritto di decidere liberamente sulla sua successione.
Tornati tutti in patria, Erode dichiarò che avrebbe lasciato il regno ad Antipatro e, dopo di lui, ai figli di Mariamne, Alessandro ed Aristobulo.
In quel periodo Erode inaugurò Cesarea ed istituì dei grandiosi giochi, da ripetersi ogni cinque anni, dedicandoli ad Augusto quale commemorazione della vittoria di Azio. Mai soddisfatto dello splendore del suo regno, Erode continuò a costruire nuove città e ad abbellirle con importanti monumenti. Si fece ricordare anche fuori del regno finanziando importanti opere in Grecia ed in Asia Minore, fra l'altro istituì un fondo per finanziare le Olimpiadi che in quel periodo erano divenute molto modeste per carenza di fondi.
A questo punto Giuseppe inserisce un'interessante digressione nella quale tenta di spiegare sul piano "psicologico" la strana ambiguità dei comportamenti di Erode, così generoso con gli estranei, così spietato con i suoi sudditi e con i suoi amici. L'ipotesi dell'Autore appare molto verosimile: è sempre e solo l'ansia di gloria a guidare Erode, è per ricevere onori e gloria che egli si mostra magnanimo e generoso, è per difendere il proprio potere che ricorre senza scrupoli ai metodi più crudeli. Giuseppe inoltre critica lo storico Nicola di Damasco, suddito e contemporaneo di Erode, per l'atteggiamento partigiano nei confronti del re. Cita ad esempio la profanazione del sepolcro di Davide e di Salomone, commessa da Erode per impadronirsi delle ricchezze ivi custodite, episodio che Nicola aveva minimizzato.
Dal canto loro i parenti di Erode non perdevano occasione per tramare, calunniarsi a vicenda e creare continui problemi e sospetti nell'animo del re. Così Ferora, fratello di Erode, lo calunniava insinuando che fosse innamorato di una delle sue nuore, il figlio Antipatro continuava a cospirare ai danni dei fratellastri, la sorella Salomè era ormai invisa alle sue mogli.
La situazione andò via via aggravandosi ed Erode instaurò un vero e proprio regime del terrore: persecuzioni, arresti e torture non risparmiavano neanche i più cari amici e a volte i malcapitati, pur di sfuggire ai tormenti, rilasciavano dichiarazioni diffamatorie, più o meno veritiere, generalmente ai danni di Alessandro, figlio di Erode.
Alessandro venne arrestato ma le prove a suo carico non risultavano definitive; Erode, sempre più angosciato, viveva ai limiti della follia. A salvare Alessandro e riportare un po' di pace nel palazzo di Erode, servì l'intervento saggio ed amichevole di Archelao di Cappadocia. Questi, grande amico di Erode e suocero di Alessandro, preoccupato soprattutto del benessere e dell'integrità di sua figlia, si recò in visita da Erode e seppe trovare il modo di rappacificarlo con il figlio ed allontanare la tensione.
Scoppiò una rivolta nella Traconitide, territorio annesso dai Romani al regno di Erode, rivolta legata ad una recrudescenza del brigantaggio precedentemente represso. In aiuto ai rivoltosi vennero gli Arabi per volere del nobile Silleo, un potente politico arabo che aveva chiesto di sposare Salomè ma aveva visto il matrimonio impedito da Erode per motivi religiosi. Le ostilità fra Arabi e Giudei si inasprirono rapidamente, Erode svolse un intervento militare in territorio arabo e Silleo denunciò l'accaduto ad Augusto il quale si indignò nei confronti di Erode.
Durante il periodo seguente si scoprì che Alessandro ed Aristobulo, oppressi dai continui sospetti, avevano organizzato di fuggire presso Archelao e di qui a Roma. Erode fece di nuovo arrestare Alessandro per aver congiurato contro di lui ed inviò ambasciatori ad Archelao accusandolo di aver sostenuto la congiura dei figli.
Nicola di Damasco fu inviato da Erode a Roma per perorare la sua causa presso Augusto e riuscì a dimostrare che l'azione militare giudaica in Arabia non solo era giustificata dalle circostanze, ma era stata approvata preventivamente dal governatore romano Saturnino.
Erode riottenne così l'amicizia di Augusto e Silleo venne condannato. Altri ambasciatori giudei presentarono all'imperatore una lettera di Erode che conteneva i capi di accusa contro i figli Alessandro ed Aristobulo.
Augusto ordinò che la questione fosse esaminata con un regolare processo alla presenza dei governatori Romani ma Erode organizzò le cose in modo che i due giovani non potessero adeguatamente difendersi, il giudizio che concluse il processo fu incerto e, dopo altri episodi di calunnia, violenza e torture, Erode fece finalmente strangolare Alessandro ed Aristobulo.


Libro XVII


Antipatro, pur essendosi liberato alla minaccia che i fratellastri costituivano per le sue aspirazioni, era molto preoccupato a causa dell'odio che il popolo e l'esercito nutrivano ormai contro di lui. Inoltre quando Erode decise di prendersi cura degli orfani lasciati da Alessandro e da Aristobulo, cominciò a nutrire nuove, pericolose gelosie.
A corte, intanto, si continuava ad intrigare: alcune dame della famiglia reale, fra le quali la moglie e la figlia di Ferora, avevano stretto una segreta alleanza con l'aiuto di alcuni cortigiani farisei. Salomè, sorella di Erode, ne venne a conoscenza e denunciò il fatto al re. Erode fece giustiziare i Farisei ed accusò la moglie di Ferora.
Ferora rifiutò di ripudiare sua moglie e questo contribuì a deteriorare i suoi rapporti con il fratello, ne approfittò Antipatro che cercò la sua amicizia ed alleanza.
Ferora si ritirò nel territorio che governava evitando di incontrare ancora Erode e, dopo qualche tempo, morì in circostanze non chiare. Poichè si vociferava di avvelenamento, Erode aprì un'inchiesta che mise in luce varii particolari dell'amicizia fra Ferora ed Antipatro. Sotto tortura, le ancelle delle donne cospiratrici parlarono di banchetti segreti e raccontarono quanto odio Antipatro esprimesse verso Erode in quelle occasioni.
Anche la moglie di Ferora confermò una congiura contro Erode ordita dal marito con Antipatro. Quest'ultimo, nel frattempo, si trovava in missione diplomatica a Roma ed era all'oscuro di tutti gli avvenimenti che stavano per provocare la sua rovina. Completata la missione, egli annunciò il suo ritorno ed Erode fece in modo che rientrasse in patria senza alcun sospetto.
Appena fu rientrato in Giudea, Antipatro fu denunciato da Erode e subito venne istituito un processo presieduto da Quintilio Varo, nuovo governatore romano della Siria. Al termine del processo Varo partì per Antiochia senza che fosse emanata una sentenza definitiva, Antipatro venne imprigionato ed Erode inviò ambasciatori a Roma per sottoporre la questione ad Augusto.
In quel periodo le inchieste continuarono e portarono alla luce altri particolari delle trame di Antipatro: egli aveva tentato di screditare e rovinare anche la zia Salomè ed inoltre era riuscito a procurarsi complici perfino a Roma corrompendoli con il denaro.
Erode, che aveva settant'anni, si ammalò gravemente e rifece il testamento designando il figlio minore Antipa.
Della sua malattia approfittò la fazione a lui contraria, capeggiata questa volta da due Giudei, per provocare disordini popolari. Ancora una volta gli agitatori attaccarono le innovazioni poco ortodosse volute da Erode che, a loro dire, infrangevano le antiche e sacre tradizioni. L'episodio culminò con la distruzione di un'aquila d'oro che decorava la facciata del Tempio ricostruito da Erode, dopo di che l'insurrezione fu repressa ed i caporioni giustiziati.
Aggravatasi la sua malattia, Erode concepì, stando a Giuseppe Flavio, il più orribile dei suoi misfatti: ordinò alla sorella Salomè ed al cognato Alessa di far sopprimere, subito dopo la sua morte, tutte le persone che egli aveva convocato e che tratteneva sotto sorveglianza nell'ippodromo. Si trattava di un membro per ogni famiglia della Giudea, in questo modo il vecchio re si procurava la certezza che la sua dipartita sarebbe stata accompagnata da un autentico cordoglio nazionale.
In quei giorni ricevette una lettera da Augusto che lo informava di aver eliminato a Roma quanti avevano aiutato Antipatro e rimetteva a lui ogni decisione in merito alla sorte del figlio. Antipatro, che in carcere aveva saputo della malattia di Erode ed aveva cominciato tentativi di corruzione dei carcerieri, venne subito eliminato.
Prima di morire, Erode cambiò ancora il proprio testamento: lasciò il trono al figlio Archelao e creò tetrarchi di varie regioni i figli Antipa e Filippo e la sorella Salomè.
Morì dopo trentasette anni di regno, la data ritenuta più probabile dagli studiosi moderni è il 13 marzo del 4 a.C.
Fortunatamente Salomè ed Alessa non rispettarono la folle disposizione di Erode e rimandarono a casa quanti avrebbero dovuto morire, quindi la notizia della morte del re fu resa di pubblico dominio e si svolsero le solenni esequie di Erode che fu sepolto nella fortezza da lui stesso eretta e battezzata Herodyon.
Mentre il nuovo re Archelao attendeva la conferma della sua nomina da parte di Augusto, scoppiarono - come era prevedibile - nuove insurrezioni popolari provocate, questa volta, da quanti chiedevano vendetta per l'esecuzione somnmaria subita dai protagonisti dell'espisodio dell'aquila d'oro. Con la ricorrenza della Pasqua ed il conseguente affollamento di Gerusalemme, i disordini si aggravarono ed Archelao, con l'aiuto della milizia romana, fu costretto a compiere una violenta manovra repressiva nella quale persero la vita migliaia di persone. Dopo questi eventi Archelao si recò a Roma per chiedere ad Augusto l'approvazione della sua investitura. Anche Antipa si recò a Roma deciso a contendere il regno al fratello e a far valere il penultimo testamento di Erode.
Quando Augusto ed i suoi consiglieri convocarono le parti per discutere la questione, contro Archelao parlò Antipatro, figlio di Salomè, e lo accusò di aver abusato di un potere non ancora confermato per compiere un atto gravissimo come la strage del giorno di Pasqua. In favore di Archelao parlò invece Nicola di Damasco sostenendo che la ribellione di Pasqua era stata giustamente punita perché provocata da forze sediziose ed autonome. Ottaviano, pur mostrando di voler rispettare la volontà del defunto, differì per il momento ogni decisione.
Intanto in Giudea scoppiavano nuovi disordini che Varo non riuscì a contenere, intervenne dunque il procuratore romano Sabino (che secondo Giuseppe Flavio aveva contribuito personalmente a sedare la rivolta) e dopo aver sparso molto sangue arrivò a saccheggiare il tempio e ad impadronirsi del tesoro in esso custodito. I Giudei organizzarono però un'energica resistenza e la situazione si fece molto grave. Ne approfittarono molti avventurieri, miserabili e briganti che portarono avanti per tutto il periodo di vacanza del trono una forma di guerriglia che era spesso vera e propria pirateria ai danni dei Giudei loro connazionali e dei Romani. Fra questi alcuni pretesero di chiamarsi re come un noto bandito, un ex schiavo di Erode ed uno sconosciuto pastore.
Infine intervenne nuovamente Varo con tre legioni ed altre forze ausiliarie raccolte fra gli stati alleati o clienti che confinavano con la Giudea. Questa volta il governatore romano ebbe ragione dei rivoltosi e crocifiggendo duemila tra le persone più facinorose riuscì a riprendere il controllo della situazione.
A Roma riprese il dibattito ed infine Augusto, confermando nella sostanza la volontà di Erode, decise di dividere il regno fra i tre figli superstiti del defunto: Archelao, Antipa e Filippo, nonostante un'ambasciata del popolo giudeo avesse richiesto l'annessione alla provincia di Siria e, dunque, il governo diretto dei Romani.
A questo punto Giuseppe introduce il curioso episodio di un imbroglione che, approfittando di una notevole somiglianza fisica con Alessandro, il figlio di Erode che questi aveva fatto giustiziare con il fratello Aristobulo, aveva sparso la voce di essere il vero Alessandro, salvatosi in modo rocambolesco dall'esecuzione, ed era riuscito a convincere molti Giudei a finanziare le sue imprese.
Quando fu convocato a Roma aveva raccolto notevoli somme ed un ampio seguito ma non riuscì ad ingannare Augusto e finì a remare sulle galere romane.
Dopo dieci anni di governo, Archelao, che si era dimostrato particolarmente violento, avido e dispotico, venne destituito dai Romani e mandato in esilio in Gallia. La sua parte di regno fu ridotta a provincia, annessa alla Siria, ed il consolare romano Quirinio fu inviato a per stimarne la consistenza e per liquidare i beni confiscati ad Archelao.


Libro XVIII


Così Quirinio, che Giuseppe Flavio definisce "persona estremamente distinta" assunse il governo della Giudea e, coadiuvato da un altro romano incominciò ad organizzare il censimento.
Chiaramente l'operazione non fu gradita ad una parte della popolazione ed un abitante di Gamala di nome Giuda si pose a capo di un partito che boicottava il censimento con l'aiuto di un altro caporione, un fariseo di nome Saddoc.
Questo partito provocò la nascita, in Giudea, di una quarta scuola di pensiero che andò ad aggiungersi alle tre tradizionali. Nel suo costante sforzo di farsi comprendere dal lettore non ebreo, Giuseppe Flavio propone un breve riepilogo delle "quattro scuole": i Farisei, paragonabili agli stoici, suggerivano una vita semplice e frugale basata sul rispetto delle leggi e delle tradizioni, credevano all'eternità dell'anima e ad una legge che premiasse o castigasse, dopo la morte, la condotta tenuta in vita. Mentre i Farisei godevano di grande prestigio, i Sadducei erano guardati con diffidenza dal popolo. Essi negavano l'eternità dell'anima, rispettavano le leggi ma seguivano una dottrina non accessibile al di fuori della loro scuola.
Gli Esseni costituivano una comunità chiusa i cui membri condividevano ogni proprietà: credevano nell'immortalità dell'anima, nella superiorità della volontà divina e dedicavano particolare cura alla giustizia, vivevano senza mogli e rifiutavano di avere schiavi.
La nuova scuola (si tratta degli Zeloti ma Giuseppe non indica questo nome) seguiva la dottrina dei Farisei ma anteponeva la libertà ad ogni altro obiettivo: sul piano religioso la posizione prendeva le mosse dal concetto che solo Dio potesse essere considerato padrone del destino e della vita degli uomini, sul piano politico si trattava chiaramente di un forte nazionalismo antiromano che allora e negli anni successivi provocò rivolte e sanguinose insurrezioni.
Quirinio vendette i beni confiscati ad Archelao mentre i poteri di Filippo ed Antipa vennero confermati. Al governo di Quirinio successe Marco Ambivolo (9-12 d.C.). In quegli anni morì Salomè, sorella di Erode.
Seguì il governo di Annio Rufo (12 d.C.-15 d.C.), in quel periodo morì Ottaviano Augusto, all'età di settantasette anni.
Il nuovo imperatore Tiberio, nel 15 d.C., inviò Valerio Grato a governare la Giudea. Durante il suo governatorato Valerio Grato nominò e depose diversi sommi sacerdoti, fino a scegliere Giuseppe, detto Caifa.
A Grato successe Ponzio Pilato.
Intanto Erode Antipa aveva contratto una salda amicizia con l'imperatore, tanto da dedicargli la città di Tiberiade da lui fondata.
A questo punto l'autore inserisce una digressione sulle vicende del regno dei Parti: il re Fraate IV venne ucciso dal figlio Fraatace che era nato dalla sua unione con una schiava italiana di nome Tesmusa (o Musa) donatagli da Giulio Cesare. Fraate si era follemente innamorato della concubina e la aveva resa regina. La donna lo aveva convinto a mandare gli altri figli a Roma e, cresciuto Fraatace, aveva con questi congiurato per uccidere il re e prendere il potere. Fraatace fu a sua volta ucciso nella guerra civile che seguì e la nobiltà, comunque fedele alla dinastia degli Arsacidi, pose sul trono Orode III. Anche questi fu presto ucciso in una congiura ed i Parti mandarono un'ambasciata a Roma perché uno dei figli di Fraate fosse rimandato in patria per regnare. Fu scelto Vonone ma i suoi modi ormai occidentalizzati non piacquero alla nobiltà che gli contrappose Artabano, re della Media, anche egli imparentato con gli Arsacidi. Dopo un periodo di guerra Vonone fu costretto a fuggire in Armenia dove tentò senza successo di prendere il potere, infine rifugiò in Siria dove rimase presso il governatore romano Silano.
Poco dopo nacquero problemi in Armenia a causa della successione di Antioco di Commagene, Tiberio inviò Germanico per riordinare la situazione ma il generale fu ucciso da Pisone.
Si torna alle vicende di Ponzio Pilato che iniziò il suo governo introducendo a Gerusalemme i busti degli imperatori, atto considerato idolatra e sacrilego dalla legge giudaica. Pilato rivide questa decisione davanti allo sdegno ed alla costernazione degli Ebrei, tuttavia l'episodio vuole significare come egli non avesse gran cura delle tradizioni locali. Anche in occasione della costruzione di un acquedotto Pilato affrontò e represse violentemente il dissenso popolare.
A questo punto dell'opera di Giuseppe Flavio è presente un breve brano detto Testimonium Flavianum sulla cui autenticità molto si è discusso senza che si sia mai giunti ad un definitivo accordo tra gli studiosi.
Si parla di Gesù Cristo "uomo saggio" che visse in quel tempo e "compì opere sorprendenti e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli era il Cristo".
Pilato, su richiesta degli Ebrei, lo condannò alla croce ma Egli risorse dopo tre giorni come era stato annunciato dai profeti. La comunità fondata da quanti lo avevano amato, conclude l'autore, è ancora viva ed unita.
Ora qualche studioso ha affermato che si tratti di un'interpolazione cristiana ma altri sostengono che la tesi non vanti fondamenti obiettivi. Del resto anche in passi successivi - di non discutibile autenticità - Giuseppe parla di Giovanni Battista e di Giacomo dimostrando conoscenza e sensibilità verso le tematiche della crescente comunità cristiana.
In modo alquanto singolare, Giuseppe inserisce proprio dopo il Testimonium Flavianum un episodio di cronaca scandalistica avvenuto a Roma nel periodo di cui si sta trattando: un certo Decio Mundo di condizione equestre era innamorato della nobile Paolina ma questa, sposata e pudica, aveva sempre rifiutato le sue profferte. La liberta Ida si incaricò, per Mundo, di corrompere i sacerdoti del tempio di Iside, del quale Paolina era devota, e i sacerdoti convinsero la donna di essere desiderata dal dio Anubi. Così Paolina trascorse una notte con Mundo convinta di concedersi al dio egiziano. Quando più tardi Mundo le svelò l'inganno, Paolina chiese al marito di vendicarla. La questione fu sottoposta a Tiberio che condannò Mundo all'esilio mentre Ida ed i sacerdoti corrotti furono messi a morte.
Nello stesso periodo Tiberio espulse da Roma la comunità giudaica, come ricorda anche Tacito, quattromila Giudei atti alle armi furono inviati in Sardegna per combattere il brigantaggio, tutti gli altri furono comunque allontanati dalla città.
Giuseppe Flavio spiega la decisione di Tiberio con il caso di una nobile matrona che, convertitasi alla religione mosaica, si lasciava defraudare da alcuni Giudei disonesti.
I Samaritani furono dispersi da Pilato che, con un distaccamento di cavalleria, attaccò una loro riunione non autorizzata. Il Senato dei Samaritani protestò presso Vitellio, governatore della Siria, e Pilato venne rimosso dall'incarico.
Lo stesso Vitellio, per ordine di Tiberio, condusse in porto una trattativa diplomatica con Artabano, re dei Parti, offrendo amicizia e protezione e prendendo, a sigillo del patto, alcuni ostaggi fra i quali un figlio del re. Erode Antipa partecipò alla trattativa e volle essere il primo ad informare l'imperatore del successo, guadagnandosi in questo modo l'odio di Vitellio.
Poco dopo morì Filippo (34 d.C.) ed il suo regno fu annesso alla provincia romana di Siria.
Erode Antipa si scontrò con il re arabo Areta, suo suocero, del quale aveva ripudiato la figlia per sposare la cognata Erodiade. Venne sconfitto ma fu soccorso dai Romani, molti comunque videro nella sua sconfitta una punizione divina per aver condannato Giovanni Battista. Questi era un pio predicatore che somministrava il battesimo come pratica di purificazione del corpo, Erode lo fece giustiziare temendo che la sua popolarità e la sua eloquenza comportassero pericoli di sedizione. (Nel Vangelo la rovina di Giovanni è causata dalle sua critiche alla condotta immorale di Erode e di Erodiade).
Mentre Vitellio muoveva per ordine di Tiberio contro Areta, sostò alcuni giorni a Gerusalemme dove gli giunse la notizia della morte dell'imperatore (15 marzo 37 d.C.).
Per chiarire meglio il prosieguo degli eventi, Giuseppe Flavio riepiloga la discendenza di Erode:
- dalla moglie Mariamne ebbe due figlie: Salampsio che sposò il cugino Fasaele figlio di Fasaele, fratello del padre;
Cipro che sposò il cugino Antipatro, figlio di Salomè, sorella di Erode.
- Salampsio e Fasaele ebbero cinque figli: Antipatro, Alessandro, Erode, Alessandra, Cipro;
- questa Cipro sposò Agrippa, figlio di Aristobulo, ed ebbe cinque figli: Agrippa, Druso, Berenice, Mariamne, Drusilla.
Gli altri due figli maschi di Aristobulo, Erode ed Aristobulo, sposarono rispettivamente Mariamne e Sotape, la loro sorella Erodiade fu moglie di Erode Antipa ed ebbe una figlia di nome Salomè.
Berenice fu madre dell'Agrippa protagonista del seguito del racconto.
Alessandro, figlio di Erode, ebbe due maschi: Alessandro e Tigrane (V).
Tigrane fu re dell'Armenia e non ebbe figli. Alessandro ebbe un figlio che chiamò Tigrane (VI) che ebbe a sua volta un figlio di nome Alessandro.
Agrippa visse a Roma e divenne amico di Druso, figlio di Tiberio e di Antonia, figlia di Marco Antonio e madre di Germanico. Agrippa era molto munifico e dopo la morte della madre Berenice prese a condurre una vita così dispendiosa da ridursi in miseria, inoltre era morto l'amico Druso, così Agrippa lasciò Roma e tornò in Giudea. Qui fu aiutato dalla sorella Erodiade, moglie di Erode Filippo, ed ottenne un'abitazione ed una carica in Tiberiade. Non andando d'accordo con Erode, tuttavia, Agrippa si trasferì e venne accolto dal governatore romano Lucio Pomponio Flacco. Ben presto però anche la sua amicizia con Flacco si deteriorò ed Agrippa "precipitò nella più oscura miseria". Iniziò un periodo di duro pellegrinaggio ed infine, perseguitato dai creditori, riuscì in qualche modo ad imbarcarsi per l'Italia. Giunto a Pozzuoli scrisse a Tiberio chiedendogli il permesso di fargli visita a Capri, ma Tiberio fu informato da un procuratore romano in Oriente della disastrosa situazione finanziaria di Agrippa e gli rifiutò l'udienza. A risolvere la situazione fu Antonia che, memore dell'amicizia con la madre di lui Berenice, lo soccorse con cospicui mezzi finanziari e lo riconciliò con Tiberio.
Agrippa divenne inseparabile amico di Gaio, il futuro imperatore Caligola, il quale gli confidò la sua ambizione di prendere presto la guida dell'impero.
Qui Giuseppe Flavio inserisce un'interessante digressione sul carattere di Tiberio ed in particolare sulla sua abitudine di prolungare a tempo indeterminato le cariche dei governatori. L'imperatore sosteneva che la durata della carica avrebbe spento, nel tempo, gli appetiti dei governatori stessi, "propensi ai guadagni per legge naturale"; per contro sostituendo spesso i funzionari designati avrebbe sottoposto i sudditi a più fameliche ruberie. In base a questa logica, infatti, durante i ventidue anni del suo regno, affidò la Giudea a due soli governatori, Grato e Pilato.
Anche nell'esaminare le causee e nell'ascoltare i prigionieri, Tiberio adottava la stessa tattica dilatoria. Quando fu arrestato un liberto di nome Eutico che aveva accusato Agrippa di cospirazione, Tiberio lo lasciò in catene per lungo tempo senza esaminare il suo caso finché non cedette alle esortazioni di Antonia.
Antonia, che era vedova di Druso Maggiore, fratello di Tiberio, era molto considerata dall'imperatore anche perché, almeno secondo Giuseppe Flavio, era stata proprio lei a metterlo in guardia contro le cospirazioni di Seiano, l'infedele prefetto che proprio in quel periodo venne eliminato.
Eutico raccontò a Tiberio di aver sentito Agrippa augurare a Gaio di poter prendere presto il potere e pronosticare che Tiberio Gemello, nipote dell'imperatore ed unico ostacolo all'ascesa di Gaio, sarebbe stato presto eliminato.
Indignato, Tiberio fece imprigionare Agrippa. Durante la prigionia, che durò sei mesi, Agrippa fu trattato umanamente grazie ai buoni uffici di Antonia e ricevette da un prigioniero germanico la profezia di una futura felicità.
Tiberio, tornato da Capri, si ammalò gravemente e comprese che era giunto il momento di designare il proprio successore. Profondamente convinto come era del valore degli oroscopi e dei presagi, decise che avrebbe affidato l'impero al primo, fra i suoi due possibili eredi, che avrebbe risposto alla sua convocazione. Nonostante avesse dato ordine di chiamare in anticipo Tiberio Gemello, fu Gaio il primo a presentarsi al suo cospetto e Tiberio, per rispetto di quella che giudicò un'indubbia dimostrazione della volontà divina, affidò a lui il potere raccomandadogli però di rispettare e proteggere il nipote. Gaio promise ma non mantenne: quando pochi giorni dopo, morto Tiberio, assunse il potere, mise subito a morte il giovane Gemello.
I Romani accolsero lietamente la notizia della morte di Tiberio il quale "aveva infatti una natura implacabilmente biliosa, qualche volta gli si accendevano le furie dell'odio senza motivo ... dava pene di morte per colpe di nessun rilievo".
L'indomani della morte di Tiberio, Gaio Caligola fece trasferire Agrippa dal carcere alla sua abitazione, pur continuando a tenerlo sotto sorveglianza, e dopo i funerali del predecessore lo dichiarò "re della tetrarchia di Filippo".
L'improvvisa fortuna di Agrippa suscitò, ovviamente, molta invidia ed il tetrarca Erode Antipa, incitato dalla moglie Erodiade che era sorella di Agrippa, si recò in Italia per chiedere all'imperatore altrettanto potere. Tuttavia Agrippa inviò un messaggero a Gaio avvertendolo che Erode disponeva di forti armamenti e Gaio, sospettandolo di cospirazione, destituì Erode dalla tetrarchia e lo esiliò in Gallia.
In quel periodo si verificarono disordini in Egitto, fra la locale comunità giudaica e le altre componenti della popolazione, poi in Giudea a causa della pretesa di Caligola di farsi erigere statue in quel Paese dove leggi e tradizioni lo probivano.
Caligola ordinò al governatore Petronio di imporre le statue anche, se necessario, con la guerra ma di fronte alla compatta e non violenta resistenza dei Giudei il procuratore esitò e decise infine di scrivere all'imperatore - sfidandone la collera - per tentare di convincerlo a desistere.
La situazione fu risolta da Agrippa che, trovandosi a Roma, fece coraggiosamente leva sull'amicizia che lo legava a Gaio per ottenere l'abrogazione del decreto imperiale relativo alle statue in Gerusalemme. Caligola cedette ma non perdonò la disubbidienza di Petronio e gli scrisse ordinandogli di uccidersi, prima di ricevere questa lettera Petronio venne informato della morte di Caligola.
In Mesopotamia, intanto, si era formato un movimento politico nella comunità giudaica capeggiato dai fratelli Asineo e Anileo che resisteva ai Babilonesi ed ai Parti ed era andato via via rinforzandosi tanto che il re dei Parti Artabano arrivò a concludere con i due fratelli un patto di amicizia.
Il potere dei due fratelli crebbe e durò indisturbato per quindici anni ma quando Anileo sposò una donna parta dopo averne ucciso il marito, la violazione delle legge non fu tollerata dal popolo ed il loro prestigio cominciò a tramontare. Infine la donna avvelenò Asineo.
Rimasto solo al potere, Anileo mosse guerra contro i Parti. Si trattò più che altro di guerriglia e di scorrerie ma quando Anileo catturò ed umiliò il generale Mitridate, genero del re Artabano, i Parti decisero di reagire molto duramente.
Anileo subì una grave sconfitta e perse gran parte del suo esercito, ma continuò a saccheggiare i villaggi babilonesi alla testa di truppe irregolari.
Anileo fu ucciso da un'incursione di Babilonesi ed i rapporti fra Babilonia e Giudea si fecero molto più difficili, molti Giudei abbandonarono la regione per trasferirsi nella città di Seleucia, ma anche qui vennero presto in conflitto con le componenti greca e siriaca della popolazione e negli scontri che seguirono gli Ebrei subirono una vera e propria strage.


Libro XIX


Caligola, prima di morire, dava segni di pazzia: si riteneva un dio, discorreva sul Campidoglio con la statua di Giove al quale si rivolgeva come a un fratello e pretendeva onori divini.
Depredava templi e monumenti di tutto l'impero per abbellire con le opere d'arte così trafugate le proprie dimore. Fece costruire un ponte di barche sul golfo di Baia (come racconta anche Svetonio) per traversarlo con il suo cocchio.
Verso i sudditi si dimostrava spietato, emanò moltissime condanne a morte e confiscò i beni di numerosi illustri cittadini.
In questa situazione, come è ovvio, "da più parti presero a bollire le congiure".
Si formarono tre circoli di cospiratori, il primo - in Spagna- faceva capo a Emilio Regolo, il secondo al tribuno militare Cassio Cherea ed il terzo ad Annio Viniciano. I tre gruppi decisero di unire i loro sforzi nell'organizzare l'attentato e la persona più adatta ad eseguirlo materialmente risultò essere Cherea il quale, per gli uffici della sua carica, aveva frequente occasioni di avvicinare l'imperatore. Cherea, a detta di Giuseppe, disprezzava Caligola e considerava una vergogna il doverlo servire. In particolare detestò l'incarico - conferitogli dal tiranno - di dirigere l'esazione fiscale.
La cospirazione fece molti proseliti a causa dei continui atti di tirannide e di barbarie perpetrati da Caligola e, molto numerosi, senatori e cavalieri si accordarono segretamente con Cherea.
Si decise di agire il primo giorno dei giochi palatini poiché in quell'occasione la confusione e la calca avrebbero certamente fornito occasioni propizie. In effetti però l'azione dovette essere differita fino all'ultimo giorno dei giochi quando Cherea attese Gaio all'uscita del teatro e lo aggredì ferendolo gravemente con la spada. Subito accorsero altri congiurati e finirono l'imperatore.
L'uccisione di Caligola avvenne in un luogo relativamente isolato perché l'imperatore aveva imboccato da solo, uscito dal teatro, una scorciatoia verso la sua residenza. Questa circostanza permise ai congiurati di allontanarsi prima che il fatto venisse scoperto. Poco dopo i "Germani" che costituivano la guardia personale di Caligola rinvennero il cadavere e cominciarono a cercare i colpevoli commettendo molte violenze ed uccidendo alcuni innocenti. Questo corpo militare, composto in prevalenza di mercenari, era molto devoto a Gaio per le sue generose elargizioni: seguirono ore di angoscia, i "Germani" circondarono il teatro ancora gremito di spettatori minacciando una strage ma quando la morte di Caligola fu annunciata ufficialmente desistettero dall'iniziativa.
Il senatore Annio Viniciano fu arrestato dai pretoriani ma il prefetto Marco Arrecino Clemente, favorevole alla congiura, lo lasciò fuggire.
Intanto i consoli facevano promesse di donazioni al popolo e ai soldati cercando di mantenere la situazione sotto controllo evitando che degenerasse come in simili circostanze sarebbe potuto facilmente accadere.
I soldati decisero in breve che Claudio, zio del defunto, era la persona più adatta a succedergli per la parentela e per l'educazione che aveva ricevuto. Erano convinti che una soluzione democratica non avrebbe giovato ai loro interessi mentre Claudio, una volta insediato, li avrebbe certamente ricompensati, quindi lo rapirono letteralmente dalla sua casa per acclamarlo imperatore.
Intanto in senato Gneo Senzio Saturnino pronunciava un'esortazione a premiare Cassio Cherea che aveva eliminato l'aborrito tiranno restituindo la libertà ai suoi concittadini.
I congiurati discussero sulla sorte da riservare alla famiglia di Caligola e dopo varie esitazioni decisero di eliminare la moglie e la figlia dell'ucciso. Affidarono il compito al tribuno militare Giulio Lupo che trovò la vedova presso il cadavere del marito: lo rimproverava di non averle dato ascolto ma non si seppe se intendeva dire di averlo avvisato della congiura o se lo avesse messo in guardia sulle possibili conseguenza della sua folle crudeltà.
Lupo eseguì il suo compito ed uccise la moglie di Caligola (Cesonia) e la sua giovane figlia (Giulia Drusilla).
In un suo giudizio finale su Caligola, Giuseppe Flavio afferma che si trattava di una persona colta e dotata di grandi capacità oratorie ma una volta salito al potere dismise ogni moderazione e divenne incredibilmente immorale e crudele.
Nella grande confusione che seguì all'attentato il mite Claudio si nascose in una nicchia, ma fu scorto da una delle guardie di palazzo che lo additò ai soldati i quali lo proclamarono subito imperatore, soprattutto perché era fratello del famoso e non dimenticato Germanico.
Il popolo dimostrava di concordare con i soldati sulla scelta di Claudio ma i senatori si opponevano perché speravano di recuperare il pieno governo dell'impero. Agrippa parlò al senato e si offrì di fare da ambasciatore presso Claudio per convincerlo a rinunciare, ma in realtà parlò in privato con Claudio informandolo della confusione in cui versavano i senatori e persuadendolo a non desistere.
Claudio elargì denaro ai soldati e fece loro giurare fedeltà. Non era l'unico candidato, aspiravano al trono altri nobili come Marco Vinicio marito di Giulia, sorella di Caligola, e Valerio Asiatico, ma la guardia pretoriana, i gladiatori e tutti i soldati presenti in città sostenevano Claudio ed anche l'opposizione dei congiurati risultava impotente.
Salito sul Palatino con la scorta di molti soldati, Claudio prese a dare disposizioni dalla sua nuova posizione di potere.
Si discusse sul caso di Cherea e si decise di dargli una punizione esemplare, egli fu quindi giustiziato insieme a Giulio Lupo e a molte altre persone. Fu prosciolto il congiurato Sabino ma ritenne indegno sopravvivere ai compagni e si suicidò.
Claudio confermò ad Agrippa quanto aveva ottenuto da Caligola ed aggiunse altri territori al suo dominio. Con appositi editti stabilì inoltre che i Giudei potessero continuare a praticare la loro religione e a rispettare le loro antiche usanze in tutto l'impero e in modo particolare ad Alessandria dove erano stati privati dei loro diritti da Caligola.
Rientrato a Gerusalemme, Agrippa celebrò gli opportuni riti, nominò un nuovo sommo sacerdote e condonò le imposte per festeggiare il suo ritorno.
Quando alcuni provocatori collocarono una statua di Cesare nel Tempio, Agrippa si rivolse a Publio Petronio, governatore romano, che chiese ai magistrati giudei la consegna dei colpevoli per punire la trasgressione dei recenti editti di Claudio.
Agrippa aveva un generale di nome Sila che gli era sempre stato fedele e lo aveva sostenuto nei momenti più difficili ma aveva il difetto di vantarsi eccessivamente. Con questo comportamento esasperò Agrippa che lo fece imprigionare.
In genere il re era molto liberale ed indulgente con i suoi sudditi, realizzò grandi opere pubbliche ma interruppe la costruzione di nuove mura a Gerusalemme per ordine di Claudio, offrì spettacoli e si attenne scrupolosamente ai rituali del suo popolo.
Durante le feste di Tiberiade venne in contrasto con il nuovo governatore romano Gaio Vibio Marso che non gradiva di vederlo fraternizzare con gli altri monarchi della regione.
Alla fine del suo terzo anno di regno sulla Giudea, Agrippa si recò a Cesarea per la festa in onore di Claudio. Si presentò sontuosamente abbigliato e dalla folla si levò un grido di ammirazione. Subito il re fu colpito da un dolore lancinante. Trasportato nella sua reggia vi morì dopo cinque giorni di sofferenze.
Lasciava un figlio diciassettenne di nome Agrippa e tre figlie: Berenice moglie di Erode Antipa, Mariamme e Drusilla ancora bambine.
Nonostante la sua generosità non fu ricordato benevolmente dal popolo che anzi festeggiò la sua morte e profanò la sua memoria con varie oscenità.
Erode re della Calcide mandò un sicario ad uccidere Sila fingendo di eseguire un ordine di Agrippa.
Per rispetto alla memoria di Agrippa, Claudio non confermò il governo di Marso che era stato in discordia con lui, ma affidò l'intera Palestina ad un procuratore di nome Cuspio Fado mentre il figlio del defunto monarca, ancora troppo giovane per regnare, proseguiva la sua educazione a Roma alla corte dell'imperatore.


Libro XX

Il governo della Siria fu affidato a Cassio Longino.
Il procuratore Fado intervenne contro la Perea che aveva attaccato gli abitanti di Filadelfia (attuale Amman) per una contesa territoriale e liberò la Giudea da una pericolosa banda di briganti.
I sacerdoti di Gerusalemme avanzarono una petizione prima a Fado e Longino, poi a Claudio tramite un'ambasciata per poter custodire gli abiti del sommo sacerdote che ai tempi di Erode erano stati deposti in una fortezza in mano ai Romani. Claudio approvò grazie alla mediazione del giovane Agrippa. Approvò anche la richiesta di Erode fratello del defunto Agrippa conferendogli autorità sul tempio e sull'elezione del sommo sacerdote.
Monobazo re di Adiabene aveva sposato la sorella Elena e ne aveva avuto due figli di nome Monobazo e Izate. Quest'ultimo era il suo favorito e per timore che i suoi figli avuti da altre mogli potessero fargli del male lo mandò a vivere lontano richiamandolo soltanto quando fu in punto di morte.
Rimasta vedova, Elena propose ai notabili del regno di incoronare Izate e quelli accettarono ma chiesero di uccidere tutti gli altri eredi per la sicurezza del nuovo re. Elena decise di lasciare la decisione a Izate che si trovava altrove e, nell'attesa, affidò il regno all'altro figlio Monobazo II.
Il questo periodo Elena e Izate si convertirono alla religione giudaica ma inizialmente lo tennero segreto ed Izate evitò la circoncisione per timore delle reazioni del popolo, ma più tardi aderì apertamente al suo nuovo credo e si fece circoncidere.
Elena visitò il Tempio di Gerusalemme ed elargì generose elemosine alla popolazione che era afflitta dalla carestia.
Artabano re dei Parti fu spodestato e si rifugiò presso Izate il quale lo aiutò a riprendere il trono con la diplomazia e fu ricambiato con grandissimi onori. Morto Artabano divenne re il figlio Vardane il quale intendeva far guerra ai Romani e chiese l'aiuto di Izate, non ottenendolo dichiarò guerra all'Adiabene ma fu ucciso dai suoi sudditi e il regno passò al fratello Cotarde (Gotarze II), anche questi fu ucciso e divenne re Vologese, anche egli figlio di Artabano, che affidò la Media al fratellastro Pacoro e l'Armenia al fratellastro Tiridate.
Non tollerando la conversione di Izate, i nobili del suo regno contattarono Abia re degli Arabi per far guerra a Izate ma Abia fu sconfitto e per non essere catturato si uccise.
Anche Vologese decise di accogliere le proposte della nobiltà dell'Adiabene e mosse in armi contro Izate che si rifugiò in una fortezza con la famiglia per digiunare e pregare. Le sue preghiere furono esaudite e Vologese fu costretto a ritirarsi rapidamente perché in sua assenza delle tribù sciite avevano invaso il regno dei Parti.
Poco tempo dopo Izate morì all'età di cinquantacinque anni lasciando il regno al fratello Monobazo. Non molto più tardi morì anche Elena e Monobazo li fece seppellire a Gerusalemme.
In Giudea un sobillatore di nome Teuda, spacciandosi per profeta, convinse molta gente a seguirlo fuori dal paese ma fu bloccato e giustiziato dal procuratore Cuspio Fado. A Fado successe Tiberio Alessandro che represse un altro tentativo di rivolta. A Tiberio Alessandro successe Cumano.
Erode fratello di Agrippa morì lasciando tre figli ma Claudio assegnò il regno al giovane Agrippa II.
Durante le festività di Pasqua un gesto osceno di un soldato romano suscitò l'indignazione popolare e si rischiò una sedizione. Cumano ordinò che l'esercito si portasse in armi nella fortezza vicina al tempio per sedare eventuali disordini ma all'arrivo della massa dei soldati, fra la gente che tentava di fuggire molti rimasero uccisi.
Altri sediziosi depredarono un romano e durante le rappresaglie un soldato strappò davanti a tutti una copia della Legge di Mosè. I notabili del luogo chiesero soddisfazione a Cumano che per evitare una rivolta fece decapitare il soldato.
Si verificarono scontro di confine fra Giudei e Samaritani e questa volta Cumano, corrotto dai Samaritani, non volle intervenire. I Giudei si armarono e coinvolgendo bande di briganti attaccarono villaggi della Samaria. Solo i discorsi e le preghiere dei gerosolimitani più nobili e influenti riuscirono a riportare la calma.
I Samaritani si rivolsero a Ummidio Quadrato governatore della Siria accusando i Giudei per i saccheggi compiuti. I Giudei accusarono Cumano di essersi lasciato corrompere dai Samaritani e Quadrato promise di indagare sulla situazione. Più tardi Quadrato si recò in Samaria, mise a morte i più facinorosi e mandò a Roma i capi giudei e samaritani insieme a Cumano rimettendo il giudizio all'imperatore.
Claudio appurò che i Samaritani erano stati i primi a sollevare disordini e condannò a morte i loro capi mentre Cumano venne esiliato. Claudio nominò Felice procuratore della Giudea e conferì ad Agrippa II la tetrarchia che era stata di Filippo con l'aggiunta di altri territori.
Agrippa fece sposare la sorella Drusilla con Azizo re di Emesa e la figlia Mariamme con un uomo al quale era stata promessa da suo padre. Drusilla lasciò Azizo per sposare Felice che si era innamorato di lei e anche Mariamme si separò dal marito per sposare un altro uomo.
Berenice sorella di Agrippa II, già moglie di Erode, dopo un lungo periodo di vedovanza, sposò Polemone re di Cilicia ma il matrimonio fu di breve durata a causa della licenziosità di lei.
Claudio morì dopo tredici anni di regno (54 d.C.), ci furono sospetti sulla moglie Agrippina figlia di Germanico. Claudio lasciava la primogenita Antonia avuta dalla prima moglie Petina e due figli, Britannico e Ottavia, avuti da Messalina.
Prima di sposare Claudio, Agrippina era stata moglie di Domizio Enobarbo dal quale aveva avuto un figlio di nome Domizio Nerone. Alla morte di Claudio Agrippina mandò subito il prefetto Burro a prendere Nerone per farlo acclamare imperatore.
Salito al trono, Nerone fece uccidere Britannico, la madre Agrippina e Ottavia (dopo averla sposata) oltre a molti personaggi illustri che accusò di cospirazione.
Giuseppe Flavio avverte che non tratterà di Nerone, sul quale molto è stato scritto, e torna alla storia della sua gente. In quel periodo la Giudea era infestata dai briganti nonostante le frequenti condanne a morte comminate dal procuratore Felice.
Felice era stato scelto con l'appoggio del sommo sacerdote Gionata ma poiché questi spesso non approvava il suo operato Felice prese a detestarlo e alla fine commissionò il suo assassinio ai briganti.
Erano frequenti anche le ribellioni, che spesso i Romani domavano con la forza, e numerosi i sobillatori e i falsi profeti. Sorse inoltre una contesa in merito ai diritti civili fra Giudei e Siri abitanti di Cesarea che Felice tentò di risolvere con metodi relativamente moderati ma che durò a lungo e giunse a provocare morti e feriti.
Quando Nerone sostituì Felice con Porcio Festo (60 d.C.) i capi ebraici di Cesarea andarono a Roma per accusare l'ex procuratore che evitò la punizione grazie all'intercessione del fratello Pallante che era molto caro a Nerone. I Siri di Cesarea corruppero Berillo precettore di Nerone ed ottennero l'annullamento dei diritti civili dei Giudei e da questo evento derivò una guerra. Festo trovò la Giudea devastata dai combattimenti e dalle scorribande dei briganti.
Una volta insediato, Festo progettò di abbattere un muro del tempio costruito per nascondere i riti che si svolgevano all'interno a chi osservava da fuori, i capi giudaici inviarono un'ambasciata a Nerone il quale acconsentì a lasciare il muro al suo posto per compiacere la moglie Poppea che era favorevole ai Giudei.
Festo morì e gli succedette Lucceio Albino (62 d.C.) Durante il viaggio di Albino, in assenza di un procuratore, il sommo sacerdote Anano convocò il Sinedrio per chiedere che Giacomo fratello di Gesù Cristo venisse lapidato con alcuni suoi compagni.
Molte persone furono tuttavia indignate per il comportamento di Anano che in seguito fu deposto per volontà di Agrippa II e di Albino.
Anche Albino dovette lottare contro i briganti detti "sicari" ed arrivò a sterminarne gran parte ma quelli si riorganizzarono e rapirono il figlio del sommo sacerdote per ottenere la liberazione dei loro compagni prigionieri.
Agrippa II fece costruire un teatro a Berito ed attuò molte opere pubbliche ma le ingenti spese fecero crescere il malcontento.
I fratelli Costobaro e Saul, due personaggi molto in vista di alto lignaggio, presero a raccogliere e organizzare bande di delinquenti e in questo periodo, secondo Giuseppe Flavio, la malattia piombò sulla Giudea e le cose iniziarono ad andare di male in peggio.
Prima di essere sostituito da Gessio Floro, Albino concesse molte amnistie: così la prigione si svuotò di prigionieri e la regione si riempì di ribelli.
A questo punto l'autore introduce una digressione sulla cronologia del sacerdozio riportando un elenco dei sommi sacerdoti che non sempre corrisponde a quelli di altre fonti.
Il nuovo legato di Nerone, Gessio Floro, si mostrò particolarmente iniquo e spudorato nella sua avidità e fu la sua amministrazione, secondo Giuseppe Flavio, a costringere i Giudei a iniziare la guerra contro i Romani le cui vicende l'autore ha già narrato nella sua opera precedente intitolata, appunto, la Guerra Giudaica.
Nelle ultime righe dell'opera Giuseppe Flavio si compiace, giustamente, del grande lavoro svolto e di come sia riuscito ad ottemperare ai suoi propositi.
Si ripromette di scrivere ancora un'opera storica fino ai suoi giorni ed un'altra sulla sua religione ma questi progetti non furono mai realizzati.