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Appunti da :

Theodor Mommsen - STORIA DI ROMA ANTICA



ATTENZIONE: quella che segue non è una sintesi dell'opera di Mommsen, tanto meno un commento. Si tratta solamente di appunti di lettura che vengono riportati per riferimento con le singole schede sulla storia romana presenti nel sito.

Volume I - Tomo I

Dalle origini sino all'unione di Italia

Libro I - Capitolo I - Introduzione. Storia Antica.

Civiltà intorno al Mediterraneo:
- Sud razza Copta e Egiziana
- Est Aramei o Siriaci
- Coste europee Elleni e Italici.

Mommsen indica nella storia delle civiltà mediterranee come unità quelle che fanno capo a quattro città: Tebe, Cartagine, Atene e Roma. Breve descrizione geografica dell'Italia. Paragone fra Grecia e Italia, vocazioni storiche legate al territorio.
Storia italiana preromana

Libro I - Capitolo II - Le più antiche immigrazioni in Italia.

Stirpi indigene d'Italia.
Ricerca storica etimologica, due ceppi linguistici, quello latino e quello dei dialetti italici degli Umbri, dei Marsi e dei Sanniti.
Da queste ricerche si distinguono tre ceppi principali di popolazioni: Iapigi, Etruschi e Italici.
Cenni sugli Iapigi, loro probabile discendenza indoeuropea ed affinità della loro lingua con i dialetti greci arcaici.
Italici: costituiti da due gruppi principali: Latini ed Umbri (da questi ultimi discesero i Marsi ed i Sanniti).
Esempi di differenze linguistiche che provano l'individualità della lingua italica di fronte ad ogni altra indoeuropea, e nel contempo dimostrano la sua parentela con il greco. Anche rispetto all'umbro-sannita il latino denota parentela ed indipendenza. La deduzione è in fine che da un ceppo originale derivarono i Greci e gli Italici, questi ultimi si divisero in Umbri ed Oschi.
In base alle radici comuni di parole greche, sanscrite e latine che indicano nomi di animali da allevamento, si deduce che nell'epoca remota in cui dall'originale lingua europea cominciarono a formarsi queste lingue la stirpe indoeuropea aveva oltrepassato il più basso grado della civiltà, l'epoca dei cacciatori e dei pescatori, ed era giunta ad una stabilità almeno relativa delle sedi.
Non si hanno invece indicazioni altrettanto chiare per quanto riguarda l'agricoltura, che probabilmente era ignota o molto poco importante per il primitivo popolo indoeuropeo. Analogie si trovano ancora fra le parole indicanti la casa, i natanti, il carro, le vesti, dell'oro, del rame e dell'argento.
Anche concetti di natura sociale (famiglia, matrimonio) e religiosa sembrano essersi già sviluppati nella stirpe originaria.
Altri concetti comuni: i numeri fino a cento, il nome di Dio (sanscrito Devas, latino Deus, greco Deos).
I vocaboli propri dell'agricoltura, (esempio: campo, aratro, orto, miglio, rapa, vino) presentano somiglianze fra il greco ed il latino ma non fra queste due lingue e le lingue orientali, da qui la ragionevole ipotesi che dall'originaria famiglia indoeuropea il ceppo greco-italico si sia scisso da quello orientale prima che quelle genti raggiungessero una civiltà agricola e che a sua volta il ceppo greco-italico si sia diviso in due distinte civiltà indipendenti dai cugini asiatici.
Nelle più antiche favole italiche l'agricoltura nasce insieme alle primitive forme di legislazione e nella semplice mentalità di quelle popolazioni il coltivare la terra, il procreare figli, la fondazione di città sono attività o azioni del comune significato che fra loro interagiscono.
Con l'agricoltura nasce il concetto della separazione dei campi e quindi alcune tecniche rudimentali di misurazione.
Altre affinità fra la civiltà greca e quella italica si trovano nelle abitudini domestiche, in particolare nella forma delle case costituita da un unico vano con l'altare, il letto nuziale ed il desco.
Ancora affinità si riscontrano nei natanti (di origine indoeuropea l'imbarcazione a remi, di origine greco-italica la concezione della vela), nell'abbigliamento e nelle armi.
Dal punto di vista intellettuale e religioso le cose stanno diversamente. Se, dice Mommsen, i Greci e gli Italici hanno compiuto insieme il lavoro necessario per risolvere i problemi della vita materiale, sul piano spirituale, intellettuale e politico scelsero strade divergenti. Portati i Greci al pensiero puro, misero subito in discussione i propri dei talora facendone degli uomini, talora negandoli. Liberi nei costumi e concentrati verso l'individuo fecero del pensiero la chiave di volta del loro modo di essere e di sentire. Oppostamente i Romani concepirono più degli Albani un sistema sociale e politico in cui lo stato fungeva da cardine dell'esistenza ed ogni forma individuale di pensiero che non giovasse allo stato stesso doveva essere evitata.
Complesso il primo paragrafo di Mommsen sulla religione ed in particolare sul paragone fra le più antiche credenze italiche e le coeve credenze elleniche. Due concezioni religiose già affini dal punto di vista formale agli albori delle due civiltà e che avrebbero mantenuto un rapporto di stretta somiglianza attraverso molti secoli di storia, tuttavia l'autore individua una profonda differenza concettuale fra la religione greca e quella italica: il greco vedeva il divino come spiegazione di ogni cosa ed in particolare di ogni fenomeno non altrimenti giustificabile per le sue conoscenze, l'italico attribuiva uno spirito ad ogni cosa ed in ogni cosa lo venerava. Citando testualmente: "Come ai Greci tutto appariva concreto e corporeo così il Romano poteva adoperare solo formule astratte, compitamente trasparenti".
Molto più evidente si fa il divario fra le due culture in campo artistico. Mentre gli Italici dei primordi rimangono ad un livello decisamente rudimentale i loro contemporanei Greci sensibili tanto al puro concetto di bellezza quanto alla sua pratica attuazione danno vita ad una delle più importanti stagioni artistiche dell'umanità.

Libro I - Capitolo III - Le Colonie dei Latini.

Ancora alla ricerca delle "radici" Mommsen ipotizza che l'origine delle civiltà indoeuropee sia da localizzarsi lungo il corso dell'Eufrate. Il ramo indoeuropeo probabilmente dimorò a lungo in Persia ed in Armenia dopo la separazione degli Indi, poichè molti indizi indicano che in queste regioni nacquero l'agricoltura e la cultura della vite. Con il solito metodo delle analogie linguistiche l'autore afferma che Latini, Celti, e Germani, raggiunsero insieme il mare, in precedenza sconosciuto, prima di separarsi. Detto questo solo una cosa può essere affermata con ragionevole certezza: che gli Indoeuropei giunsero alla penisola italica da Nord ed in più riprese.
Un ramo dei Latini, come è noto si stabilì sulle rive del Tevere fino ai monti dei Volsci. Probabilmente anche la Campania e la Lucania prima della colonizzazione greca furono occupate da genti di stirpe latina.
Inizia una panoramica sulle condizioni ambientali del Lazio, un paese bello e fertile ma infestato dalla malaria che i primi coloni dovettero affrontare e combattere coltivando e bonificando il suolo. Un'evoluzione del concetto urbano: dalla famiglia che colonizzando costruisce la propria casa e coltiva il proprio campo si passa al villaggio dotato anche di terreni comuni e da qui alla rocca, spesso fortificata per ragioni di difesa. Dalla rocca al borgo cittadino ovviamente il passo è breve.
Fra i primi siti occupati ed organizzati dai popoli sopravvenienti furono sicuramente i Colli Albani che presentavano un ambiente più salubre ed un maggior numero di sorgenti. Qui nacque la città di Alba, qui le antichissime colonie di Lanuvio, Aricia, Tuscolo. Alba fu fortificata fra l'altro scavando una grandissima rupe ai suoi piedi. Nei suoi pressi fu addirittura fatto defluire più in basso il lago di Albano tramite una galleria artificiale per lasciare libero un ampio spazio coltivabile.
Anche Tivoli e Palestrina furono colonie latine in origine organizzate come rocche distrettuali, così Labico, Gabii, Nomentum e la stessa Roma. Tutte le colonie latine avevano completa autonomia politica ma secondo l'uso italico ed ellenico si confederarono riconoscendo la presidenza della lega alla città di Alba.
Annualmente le città confederate celebravano la "festa latina" sacrificando un toro al dio Iuppiter Latiaris.
Non del tutto note le funzione politica e quella giuridica della lega ma verosimilmente godeva di una certa autorità per far rispettare gli accordi fra i confederati e per svolgere un ruolo di unificazione e di equilibrio sul piano politico e commerciale.
Non è dimostrato che l'adesione alla lega impedisse ai comuni confederati di combattersi di tanto in tanto fra loro, anzi il periodo della festa annuale veniva considerato come "tregua sacra" per sospendere tali ostilità.
Secondo Mommsen la presidenza di Alba sulla lega era più che altro un'onorificenza e non ci sono prove storiche che la città abbia di fatto esercitato un'egemonia sul Lazio.

Libro I - Capitolo IV - Le Origini di Roma.

La città di Roma si forma, per Mommsen, grazie non già alle caratteristiche agricole del terreno, inferiori a quelle di altre zone del Lazio per la presenza di ampie aree paludose e malsane, ma grazie ai requisiti geografici che rendono il luogo molto importante dal punto di vita commerciale. In particolare la presenza del fiume Tevere, la cui foce fornisce un porto naturale ed il cui corso costituiva un confine fra il territorio latino e quello delle limitrofe popolazioni settentrionali. Roma è quindi fin dalle origini piazza di mercato, emporio dei Latini e mentre la cultura di tutti gli altri centri del Lazio rimane essenzialmente cultura contadina a Roma si forma una forte mentalità cittadina.
Il primitivo piano cittadino di Roma comprendeva solo il Palatino. Una prima cerchia di mura circondava il colle e le sue vestigia, descritte da Tacito, erano ancora visibili in età imperiale. Sul colle, sede della prima colonia cittadina, sorgevano la casa dell'assemblee (Curia Saliorum) dove si conservava il sacro scudo di Marte, il santuario dei lupi e la casa del sacerdote di Giove. Sempre sul Palatino la tradizione identificava i siti leggendari delle vicende della fondazione.
Presto la città si estese e nacquero intorno al Palatino nuovi borghi, ognuno cinto da una sua cerchia di mura appoggiata o collegata a quella del Palatino. Tali borghi si fondano in due quartieri urbani, uno sviluppato intorno al Palatino e l'altro in aree del Celio e dell'Esquilino. Una colonia extraurbana, detta Suburra occupava la valle fra l'Esquilino ed il Quirinale, nella zona di San Pietro in Vincoli.
Antistante alla città palatina sorgeva intanto un centro sul Quirinale pare, in un primo tempo del tutto indipendente tanto che il sobborgo fortificato della Suburra aveva forse una funzione difensiva dei Palatini contro gli abitanti del Quirinale. Con gli ordinamenti di Servio Tullio il Quirinale sarà rinchiuso nelle mura serviane ed andrà a costituire il quarto quartiere della città.

Libro I - Capitolo V. La primitiva Costituzione di Roma.

Perno della concezione sociale e culturale romana è la famiglia. Nella più antica società romana uomo e donna avevano eguali diritti rispetto al patrimonio ed alle eredità ma dal punto di vista morale e legale la donna era sempre sottoposta all'uomo, padre o marito, ed i suoi reati sono giudicati nell'ambito della famiglia. All'interno della famiglia la donna era affrancata dai lavori domestici che spettavano ai servi e si dedicava alla conduzione della casa ed al fuso.
L'autorità assoluta, il potere di vita e di morte spettava al Pater Familias, che esercitava sui membri della famiglia anche l'autorità giudiziaria potendo decretare pene corporali o capitali.
Alla maggiore età i figli maschi lasciavano la famiglia per fondarne una propria, ma fino alla morte del padre non potevano disporre liberamente del proprio patrimonio se non con l'autorizzazione paterna.
Il padre poteva anche vendere i figli non ammogliati come schiavi se il compratore era straniero, come servi se il compratore era romano. Era più rigida ed indissolubile l'autorità esercitata sui figli che quella sugli schiavi.
Anche dopo la morte del Pater familias i membri della famiglia divenuti indipendenti si consideravano fra loro legati: i Romani distinguevano fra "familia" (i cui componenti potevano risalire in linea diretta ad un antenato comune) e "gens", i cui membri erano legati da parentele meno strette. Ancora sottoposti all'autorità del Pater familias erano i "clienti" della casa, categoria formata in gran parte da stranieri o da loro discendenti che avevano trovato protezione presso la famiglia e da servi affrancati. L'esercizio dell'autorità patrizia sui clienti fu molto mitigato nel tempo dalle consuetudini.
Dal punto di vista giuridico il primo comune romano si costituisce come associazione delle diverse Gentes e l'insieme dei territori di essa viene a formare il territorio del comune.
La cittadinanza alle origini spetta ai figli legittimi nati dai matrimoni fra i membri delle Gentes.
Sul modello dell'autorità familiare si forma la monarchia romana in cui il re è concepito come Pater della famiglia comune dei cittadini, gli spettano quindi i più ampi poteri e giurisdizioni, il dovere di giudicare ed il diritto di punire o perdonare. Nell'esercizio del suo potere il re si avvale di un consiglio di esperti e della possibilità di delegare ad altri alcune mansioni, ad esempio il comando di azioni militari, tuttavia nella Roma delle origini tutte le autorità collaterali a quelle del re sono espressioni della volontà regale e nessuno è insignito di cariche che lo stesso re non possa revocare.
Alla morte del re il successore veniva designato dal Consiglio degli Anziani che teneva il potere fino alla nomina del nuovo monarca. Diversamente a quanto avveniva nelle culture egiziane ed orientali i re di Roma non furono mai considerati di natura divina o trascendentale anche se insegne ed ornamenti regali alludevano agli attributi di Giove simbolo dell'unità del popolo romano. Da questa concezione derivava il limite di fatto del monarca romano che godeva delle più ampie facoltà per applicare la legge ma non aveva alcun diritto di cambiare la legge stessa, diritto riservato all'assemblea popolare ed al Consiglio degli Anziani.
La divisione della cittadinanza era basata sulle "Curie", ogni Curia forniva cento fanti, dieci cavalieri e dieci membri del Consiglio. Questa forma di organizzazione non è da ritenersi creazione romana ma risaliva ad un più antico diritto comune a tutti i Latini. La divisione in Curie serviva oltre che al reclutamento anche a funzioni amministrative (censimenti) e politici (votazioni) in epoca più tarda.
Il diritto della prima costituzione romana non prevedeva reali differenze di condizione fra i cittadini: tale concetto di antica provenienza indoeuropea si mantenne solo nel ceppo latino mentre andò perduto (forse per l'influenza delle popolazioni stanziali incontrate), nei ceppi stanziati in Oriente e nell'Ellade.
Nei rapporti fra cittadino e cittadino i primi Romani attuavano un principio di assoluta eguaglianza mentre fortissima fu sempre la distinzione sociale e politica fra i cittadini e non cittadini, distinzione che l'antica istituzione della cittadinanza onoraria metteva in evidenza anzichè mitigare. Anche in epoca monarchica i cittadini partecipavano alla vita politica della città e venivano convocati ogni tre settimane in una sorte di assemblea delle curie. Ovviamente però la partecipazione era spesso solo formale in quanto potevano parlare solo coloro ai quali il re avesse ceduto la parola e le formule rituali riconfermavano di volta in volta l'autorità del re sull'assemblea. La vera funzione dell'assemblea era esercitata nel caso in cui si rendesse necessaria una nuova legge o la riforma di una legge esistente. In tal caso la cittadinanza veniva interpellata perchè esprimesse la propria opinione sulla nuova norma e quindi, dice Mommsen, dopo dibattiti e trattative si arrivava a concepire la legge come patto concluso fra i vari poteri dello stato.
Alcune norme specifiche della prima costituzione romana:
- Ogni cittadino poteva in vita donare la propria proprietà ma per assegnarla ad altri con effetto dalla propria morte, era necessario il consenso comunale, da qui l'origine del testamento.
- L'arrogazione era la norma che rendeva possibile l'adozione di un cittadino non soggetto alla patria potestà.
- Il re poteva decretare la pena capitale ma non revocarla, la grazia spettava all'assemblea popolare e poteva essere concessa solo ai rei confessi che invocassero le attenuanti.
In politica esterna l'assemblea doveva essere consultata solo in caso di guerre offensive mentre per la difesa il monarca aveva pieni poteri. Pare tuttavia che nel caso di attacco l'interpellanza si rivolgesse all'esercito e non alle curie.
Accanto al potere del re e a quello dell'assemblea popolare si pone quello del senato, consiglio degli anziani espressione di tutte le Gentes. Nell'età più remota il senato era semplicemente il consiglio dei capo famiglia. A poco a poco assunse una configurazione più rigida fino a confermare il numero dei trecento membri che sarebbe durato per gran parte dell'epoca repubblicana.
Per Mommsen il senato era in origine un'assemblea di re in quanto ogni membro era il capo assoluto di una comunità che da lui veniva rappresentata nello Stato.
Quando il re moriva il senato ne assumeva temporaneamente i poteri: l'interregno veniva esercitato da un senatore alla volta, estratto a sorte, a turni di cinque giorni, fino all'elezione del nuovo re dal momento che la monarchia romana non fu mai ereditaria. Il potere del senato era costituito soprattutto dal suo diritto di opporsi alle decisioni del re o alle delibere dell'assemblea delle curie per custodire la continuità dell'ordinamento giuridico.

Libro I - Capitolo VI - I non cittadini e la costituzione riformata.

Come si è detto il primo comune romano risultò dal sinecismo fra più tribù ed in particolare dalla fusione degli abitanti del Palatino (il colle) con quelli delle aree circostanti.
Dal punto di vista delle tradizioni e delle istituzioni gli abitanti del colle conservarono una certa identificazione rispetto agli altri e così si ebbero due collegi sacerdotali, due templi di Marte, ecc. Maggiore coesione si aveva dal punto di vista politico ed al comune riunito presiedeva un solo re.
L'analisi di Mommsen è molto complessa, in pratica pare che le tre tribù originali, Tizi, Ramni e Luceri, assorbirono gradualmente nel proprio corpo sociale ciascuna un certo numero di neo cittadini sicchè in ciascuna di loro si vennero a creare due ceti i "primi" (Priores) che corrispondevano ai cittadini originali ed i "secondi" (Posteriores) che corrispondevano ai nuovi arrivati. Questo fenomeno spiegherebbe come ad un certo punto gli squadroni di cavalleria e le legioni passassero da tre a sei. Di fatto tuttavia l'appartenenza ai Priores sembra conferisse solo privilegi onorifici, per esempio: la precedenza negli interventi in assemblea.
L'espandersi del territorio, le attività belliche come quelle commerciali, le relazioni politiche portarono presto alla formazione di una vasta classe di non cittadini, la Plebe che comprendeva anche schiavi, liberti e clienti.
Lo stato giuridico di queste persone era di non libertà anche se di fatto godevano di una libertà protetta legalmente, per esempio: una volta annunciata pubblicamente la liberazione di uno schiavo la decisione presa non era più revocabile. Dunque in un primo tempo si ebbero vasti gruppi di clienti raccolti intorno ad i patroni (i cittadini ai quali si riferivano) ma presto i vincoli vennero allentandosi ed i coabitanti cominciarono ad intraprendere attività autonome.
La classe dei non cittadini domiciliati a Roma si fece sempre più numerosa anche per effetto della federazione con i comuni latini ed i suoi membri acquisirono sempre maggiore indipendenza. Con l'andar del tempo i non cittadini cercarono di sottrarsi sempre di più alla clientela privata mettendosi sotto la clientela del re.
Questo concentrarsi della clientela intorno al re (il quale godendo dei tributi da parte dei clienti era ben lieto di incrementarne il numero) finì per snaturare l'antico concetto della clientela come protezione di un cittadino verso i non cittadini e l'insieme dei clienti del re a poco a poco divennero la Plebe, una classe politica ben definita in competizione con il patriziato.
Con la costituzione riformata che la tradizione attribuisce a Servio Tullio, la classe dei cittadini fece sentire il proprio peso nei confronti dei coabitanti, furono infatti estesi anche a questi gli obblighi militari e contributivi.
In particolare il servizio militare fu imposto a tutti coloro che avevano proprietà in territorio romano, indipendentemente dalla cittadinanza e dalla condizione sociale.
Mommsen fornisce una dettagliata descrizione della ripartizione dell'esercito in centurie, ecc.
Il fatto che il servizio militare fosse connesso alla proprietà di terreni comportò la necessità di istituire un catasto dettagliato e di verificarlo periodicamente tramite il censimento.
Conseguenza della costituzione serviana, che nelle intenzioni del suo autore doveva essere prevalentemente una riforma militare, fu la crescita dell'influenza degli ufficiali e delle centurie fino alla formazione di una terza classe sociale e politica (quella militare, appunto) accanto alla Plebe e al patriziato.
Con una serie di interessanti considerazioni sul numero dei reclutati (quindi dei poderi) e sull'entità della popolazione abile Mommsen arriva a valutare che all'epoca della costituzione serviana il territorio romano doveva già comprendere quello che era stato di Alba e quindi colloca l'edizione della costituzione nel secondo secolo di Roma, quinto a.C.

Libro I - Capitolo VII - L'egemonia di Roma sul Lazio.

Le ostilità dei Latini con i popoli limitrofi si fecero presto guerra, la rapina divenne "conquista".
Il territorio compreso fra il Tevere ed Aniene era fittamente popolato e numerosi comuni latini furono presto assoggettati, tanto che il territorio romano passò rapidamnete dai 7,5 Km2 del Palatino ed immediati dintorni a 506 Kmq.
Vittima illustre dell'espansionismo romano nel Lazio fu forse Albalonga, la vittoria di Roma su questa città è fra le più celebrate nella letteratura e nelle tradizioni romane.
I territori conquistati venivano uniti a quello romano ed ai loro abitanti veniva imposta la condizione di clienti descritta in precedenza. Nelle città sottomesse veniva spianata la rocca e venivano imposte le leggi e le regole del diritto romano. Alcune stirpi locali ottennero la cittadinanza romana, quindi il patriziato. Come Atene Roma ha dunque alle sue origini un forte processo di centralizzazione, attuato in modo più energico e definito, rispetto alla città attica e dimostratosi nel tempo più efficace e fortunato.
Albalonga, quando fu conquistata e distrutta dai Romani, aveva la presidenza di almeno trenta comuni ed era considerata la maggiore città della lega, Roma pretese ed ottenne l'eredità politica di Albalonga nei confronti della Lega Latina.
Nel periodo di pace che seguì alla caduta di Albalonga la posizione di Roma nei confronti della Lega Latina fu tuttavia profondamente diversa da quella che aveva in precedenza ricoperto Alba: Roma non fu un semplice membro ma si venne a creare una alleanza fra Roma, come stato unitario e sicuramente più forte degli altri ed i comuni latini federati. Anche sul piano militare le forze federali erano costituite da due eserciti, uno romano ed uno latino, entrambi guidati da un generale romano. Di fatto, è facile intuire, si trattò di un'egemonia di Roma sulla Lega Latina.
Frequenti furono invece i conflitti con i vicini non latini: gli Etruschi di Veio a Nord, i Sabini e gli Equi ad Est, i Rutuli ed i Volsci a Sud, mentre Roma mantenne incontrastata il controllo dei territori occidentali, fino alla foce del Tevere.
Questi eventi nonchè la fondazione delle prime colonie romane in territorio conquistato, risalgono all'epoca reale, epoca nella quale Mommsen colloca le origini della formazione giuridico - sociale dello stato romano ed anche l'inizio della potenza militare e dell'espansionismo di Roma.
Com'è naturale in seguito all'espansionismo dei suoi domini, alle ricchezze derivatene ed al crescere della popolazione anche la città si espanse e la cerchia delle nuova mura serviane cinse un territorio molto più vasto di quello del comune originale.
Il Palatino perse la sua configurazione di antica rocca della città mentre la nuova acropoli, fortificata e ben difendibile fu costruita sul Campidoglio (Castello della Rupe Tarpea).
In quell'epoca furono importanti le opere pubbliche cittadine in particolare quelle rivolte ad arginare il Tevere e a bonificare le paludi per ricavarne le ampie piazze di cui la nuova città necessitava. Fu così realizzato, ai piedi del Palatino, il primo Foro Romano, con la casa del re, il tempio di Vesta ed il tempio dei Penati cittadini (casa del comune) che esiste ancora come vestibolo della chiesa di SS. Cosma e Damiano.
La tradizione attribuisce molte di queste opere ai re leggendari, sono comunque riferibili ad un periodo comune con la costruzione delle mura serviane e l'emanazione della costituzione serviana.

Libro I - Capitolo VIII - Le Schiatte Umbro-Sabelliche . - Primordi dei Sanniti.

Gli Umbri avrebbero iniziato la loro migrazione più tardi dei Sanniti e si sarebbero tenuti sempre fra l'Appennino e la costa adriatica. Probabilmente ci fu un'epoca in cui possedettero un ampio territorio, comprendente la pianura del Po, delimitato dagli Illiri ad Est e dai Liguri ad Ovest.
A relegare gli Umbri in un territorio più limitato sarebbero stati gli Etruschi; incalzati da Nord gli Umbri si concentrarono verso Sud, tenendosi nelle regioni appenniniche perchè la pianura era già occupata dai Latini.
Secondo la tradizione gli Umbri sciamarono verso sud nel corso di una "primavera sacra", un gruppo di Umbri prese il nome di Sabini e si stanziò nella regione detta, appunto, Sabina. Un altro gruppo, consacrato al "Pico" di Marte (un uccello) si stanziò nell'attuale Anconetano e prese il nome di Picenti; un terzo gruppo (consacrato al Lupo, "Hirpus") si stanziò nella regione di Benevento e prese il nome di Irpini.
Altre schiatte minori ramificarono dalla migrazione umbra: Pretuziani, Vestini, Marrucini, Frentani, Peligni, Marsi.

Libro I - Capitolo IX - Gli Etruschi.

Il popolo degli Etruschi, anche detti Raseni, presentava caratteristiche ben distinte dal resto degli Italici.
La religione basata su riti fantastici e calcoli astrusi è lontana dal razionalismo romano e dall'idolatria greca.
La lingua nel corso della storia etrusca perde gran parte delle vocalizzazioni fino a raggiungere suoni molto duri.
Lingua e religione presentano alcune caratteristiche generiche che ci autorizzano ad inserire gli Etruschi nel grande ceppo indoeuropeo ma non sono possibili classificazioni più precise.
Le origini degli Etruschi rimangono quindi oscure: potrebbero essere entrati in Italia dalle Alpi Retiche e dal Tirolo.
Mommsen non condivide l'opinione diffusa che vuole gli Etruschi originari della Lidia. Fino alla grande invasione celtica gli Etruschi si sarebbero stanziati nella regione fra il Po e l'Adige, fra Veneti e Liguri, come provano i dialetti successivamente parlati in quelle zone. Oltrepassato il Po gli Etruschi si espansero verso Sud stabilendo in Toscana le loro colonie più importanti e cancellando nella regione le tracce delle precedenti occupazioni degli Umbri e dei Liguri. Il confine meridionale del territorio etrusco era costituito dal fiume Tevere. Veio fu spesso in lotta con Roma, specialmente per il possesso di Fidene mentre Cere, più lontana, pare che intrattenesse con i Romani pacifici rapporti commerciali.
E'verosimile, per Mommsen, la tradizione che vuole che gli ultimi re di Roma furono di origine etrusca ma ciò non dimostrerebbe necessariamente un'infiltrazione ma solo l'esistenza di rapporti intensi fra le due nazioni.
Dal punto di vista giuridico gli Etruschi avevano un'organizzazione affine a quella dei Latini (il comune, la città). Erano più pacifici dei Romani e spesso combattevano tramite mercenari, avevano una classe patrizia ed una plebe spesso in lotta fra loro. La società etrusca aveva usi matriarcali molto più accentuati di quella romana.

Libro I - Capitolo X - Gli Elleni in Italia, signoria sui mari degli Etruschi e dei Cartaginesi.

Finchè si giunse in Italia dalle vie di terra (due antichissime strade valicavano le Alpi puntando verso Nord) non vennero dall'esterno grosse influenze sulle civiltà italiche.
I primi ad attraversare il Mediterraneo furono i Fenici, tuttavia non si ha motivo di credere che in origine questi abbiano fondato importanti colonie in Italia o che abbiano avuto particolare influenza sulle popolazione italiche.
I primi navigatori dunque a stabilire un contatto importante e duraturo con le coste italiche furono gli Elleni, fondatori di Cuma, si trattava di Joni provenienti dalle coste dell'Asia Minore, ai quali seguirono Achei, Corinzi, Rodii, Megaresi, Messeni, Spartani. La colonizzazione greca dell'Italia meridionale e della Sicilia vede il formarsi di tre gruppi di colonie: le colonie calcidiche (Cuma, Reggio, Zancle), le colonie achee (Sibari) e le colonie doriche (Siracusa, Gela, Acragas, Taranto). Questi gruppi sono riconoscibili fra l'altro dai reperti numismatici.
La datazione delle prime colonie elleniche in Italia è molto incerta. Omero non dimostra nelle sue opere particolare conoscenza della geografia italica ed ancora in Esiodo l'Esperia appare un luogo fantastico e poco definito.
Le prime date accettabili con buona approssimazione sono quelle della fondazione di Sibari (721 a.C.) e di Taras (708 a.C.). Le colonie achee in Italia meridionale (Siri, Pandosia, Metaponto, Terina, Crotone, ecc.) costituirono una lega che mantenne salde relazioni con la madre patria. Le colonie achee prosperarono grazie al commercio ed alla fertilità delle terre. Ad esse appartennero le più antiche monete italiche già coniate agli inizi del sesto secolo a.C.
Diversamente dalle colonie doriche la Lega Achea non espresse talenti artistici di rilievo. La potente aristocrazia non permise che sorgessero tirannie. Di forti tendenze oligarchiche l'aristocrazia trovava i suoi teorici nella lega degli Amici, alla quale partecipava Pitagora, che spinsero le proprie tendenze fino alla venerazione della classe dominante e finirono per essere sopraffatti. I disordini politici interni e la mancata integrazione con le popolazioni indigene portarono presto le città della Lega Achea alla rovina ed esse decaddero lasciando tracce molto minori di quelle delle città jono-doriche.
Diverse nella vita politica e culturale furono le colonie jono-doriche che influirono più sensibilmente sullo sviluppo delle civiltà italiche. Particolarmente Taranto che grazie all'ottima posizione geografica divenne l'emporio del commercio meridionale italico. Le colonie campane, nel frattempo si sviluppavano più lentamente. La colonia di Cuma si trasferì dall'isola d'Ischia sulla terra ferma per poi fondare Dicearchia (poi Puteoli - Pozzuoli) e quindi Neapolis.
Queste colonie seguivano la costituzione democratica dettata da Caronda di Catania intorno al 650 a.C.
Scarsa o assente invece la colonizzazione greca sulle rive dell'Adriatico, per ragioni che non sono state chiarite.
Molte ed antiche sono invece le tracce della frequentazione greca del Tirreno, a partire dall'Odissea.
Nomi di località come Aethalia (Elba), Pirgi, Talamone, e vestigia come le mura di Pirgi testimoniano stanziamenti greci anche in Etruria.
Poichè secondo l'uso del tempo queste frequentazioni comportavano anche frequenti atti di pirateria gli Italici reagirono e difendendo le proprie città e i propri porti presero via via possesso del mare. Tuttavia dove si stabilirono rapporti diplomatici e commerciali, per esempio fra gli Elleni e Cere, si giunse anche ad accordi che evitarono le piraterie e i commerci e le relazioni culturali prosperarono.
Gli Etruschi non sopportarono la presenza greca nel Tirreno settentrionale e presero a corseggiare il mare divenendo i peggiori nemici degli Elleni. Questa pirateria li portò verso Sud, e crearono stanziamenti sulle coste laziali e campane. I Volsci divennero clienti degli Etruschi. La pirateria etrusca divenne in qualche modo protezione del commercio etrusco che prosperò sia nel Tirreno che nell'Adriatico.
Durante quest'epoca (la monarchia romana) tutto il Mediterraneo era teatro della rivalità fra Greci e Fenici.
La fondazione di colonie greche in Sicilia per esempio indica la prevaricazione greca nei confronti dei Fenici. Via via i Greci si inoltrarono nel Mediterraneo fino a raggiungere, nonostante la resistenza etrusca la costa francese dove nel 600 a.C. fondarono Massalia (Marsiglia).
L'espansione greca trovò rivale la potente colonia fenicia di Cartagine che cambiando politica rispetto alle altre città fenice seppe organizzare una fortissima resistenza e polarizzare la sfera delle energie degli affini di razza. Sentendosi inferiori agli avversari i Cartaginesi cercarono alleanze con gli Italici. Infatti quando nel 579 a.C. gli Elleni tentarono di stabilirsi presso il Lilibeo in Sicilia furono scacciati dagli Elleni di Segeste alleati dei Fenici.
Nel 537 a.C. i Focesi si scontrarono con le forze unite di Etruschi e Cartaginesi per il possesso di Alalia, in Corsica. Etruschi e Cartaginesi stipularono un trattato commerciale e di alleanza bellica antiellenica.
Nelle ostilità fra Greci, Cartaginesi ed Etruschi il Lazio si mantenne in genere neutrale.
Le ostilità si protrassero per molto tempo senza che alcuno dei contendenti riuscisse ad avere il sopravvento, tuttavia è proprio a questo bilanciamento di forze che Latini e Romani dovettero la positiva circostanza di non subire tentativi di prevaricazione da parte delle tre potenze, troppo impegnate a contendersi il dominio del Mediterraneo.

Libro I - Capitolo XI - Diritto e Tribunale.

Notizie sulla giurisdizione presso i Latini.
La giurisdizione è raccolta nella persona del re che tiene giudizio nei giorni a ciò consacrati. Già in tempi molto remoti pare che sia stata soppressa la vendetta di sangue. L'azione giudiziaria è processo di Stato o processo privato a seconda che il re proceda per proprio conto o su petizione dell'offeso.
Processi di Stato venivano aperti solo contro chi aveva leso la cosa pubblica (traditori, spie, rei di sedizione, ecc.) o contro chi aveva commesso crimini particolarmente gravi (omicidio, stupro, ecc.).
Il re apriva il processo e ne pronunciava la sentenza, oppure ne delegava la cura a luogoteneti scelti frai suoi consiglieri.
La possibilità di graziare i condannati era riservata al consiglio comunale ma il re poteva opporre il suo veto.
La consuetudine giudiziaria ammetteva la grazia per intervento divino (per esempio: se il condannato a morte sulla strada del patibolo incontrava per caso una vestale aveva salva la vita).
I casi di diritto privato si aprivano invece sempre su richiesta del danneggiato, in genere si cercava la conciliazione delle parti ed il re poteva decidere a proprio arbitrio.
In caso di furto se il ladro scoperto non voleva o non poteva risarcire il danneggiato veniva a questi aggiudicato come schiavo.
Nei casi di danni gravi alla persona il danneggiato poteva esigere occhio per occhio, dente per dente.
La proprietà, in particolare quella dei beni immobili, si sviluppa in epoca relativamente tarda ed il primo approccio comunitario al concetto farà sentire i suoi effetti per lungo tempo. Il romano riceveva la proprietà ad esempio di un terreno, come assegnazione del bene da parte del comune, di conseguenza solo i cittadini, o altri soggetti ad essi equiparati a tal fine dal comune erano capaci di possedere.
Il cittadino che voleva fare un testamento per lasciare le proprietà a beneficiari diversi dai suoi eredi naturali doveva sottoporlo all'approvazione del comune, approvazione spesso negata.
Chi alienava la proprietà in vita (privandone quindi gli eredi) veniva considerato un mentecatto e spesso era posto sotto tutela. Nei contratti privati era tenuta in gran conto la parola data e qualche volta il giuramento.
Nelle comparavendite il compratore consegnava il prezzo in rame al momento della consegna del bene acquistato alla presenza di testimoni. Le inadempienze venivano giudicate solo su querela.
Nel caso di prestito l'erogatore doveva essere assisitito da testimoni al momento di consegnare la somma, altrettanto doveva fare il debitore alla restituzione. Il tasso corrente era del 10% annuo.
I processi privati per truffa, debiti insoluti, ecc. prevedevano l'accertamento tramite prove, quindi un deposito cauzionale da parte dei contendenti in bestiame (cinque buoi per cause di importo considerevole, cinque pecore per cause minori). Una volta accertato il torto la parte soccombente perdeva la propria cauzione che veniva devoluta ai sacerdoti per i sacrifici. Il creditore ancora insoddisfatto poteva trascinare il debitore davanti al tribunale e dopo un periodo di sessanta giorni il re aggiudicava il debitore al creditore perchè lo traesse come schiavo o lo uccidesse.
In materia ereditaria i beni dell'estinto venivano divisi fra vedova e discendenti, salvo diverse disposizioni testamentarie che, come si è detto, dovevano essere approvate dall'assemblea.
L'emancipazione degli schiavi non era prevista dal diritto ma regolata dalle usanze. Lo schiavo liberato era garantito nella sua libertà solo se emancipato pubblicamente. L'emancipazione del figlio presentava maggiori difficoltà giuridiche poichè il padre non poteva volontariamente cessare di considerarsi tale, per emancipare un figlio era quindi necessario che questi si assoggettasse prima alla condizione di schiavitù (!).
Nei rapporti con gli stranieri residenti a Roma come clienti valevano tutte le predette norme giuridiche, mentre lo straniero che non fosse in situazione di clientela non era tutelato da alcun diritto.
Nel commercio con l'esterno vigevano a volte dei trattati (come nella Lega Latina), con gli stati esteri propriamente detti si giungeva ad accordi sistematici, come con le colonie greche in Sicilia.
Mommsen dottamente nota che la parola Mutum (prestito) e Carcer (carcere) entrambe di origine latina, furono acquisite nei dialetti sicelioti e questo comprova la frequenza di operazioni commerciali (e delle conseguenze penali in caso di insolvenze).
Nell'insieme il sistema istituzionale descritto dovette essere compiuto nel mezzo secolo successivo alla cacciata dei re.
In questo mezzo sistema il linguaggio simbolico e sacrale del diritto è praticamente scomparso tranne che in alcuni rituali come quello della dichiarazione di guerra, allontanandosi sempre di più quindi dall'origine comune con il diritto germanico.
Caratterizza anzi il diritto romano la chiarezza delle formule e la intelligibilità con la quale tutti gli atti giuridici dovevano svolgersi.
Il supremo fondamento del diritto romano è lo Stato: la libertà del cittadino non è altro che espressione del diritto civile, cioè del diritto di partecipazione alla vita dello Stato stesso.
Altra caratteristica del diritto romano è quella di favorire il commercio, ad esempio equiparando nelle transazioni il cittadino con il cliente e l'ospite e non facendo distinzione di sesso in merito alla disponibilità dei beni.
Nel credito prevaleva un sistema di tipo ipotecario in cui il fondo del debitore passava facilmente al creditore in caso di insolvenza.
Nel credito personale invece la giurisdizione, come si è detto era molto più severa ed arrivava ad asservire come schiavo l'insolvente al creditore.
Infine Mommsen considera come il diritto romano di quell'epoca si basasse sostanzialmente sugli estremi: lo straniero civilmente non ha alcun diritto eppure commercialmente è equiparato al cittadino; il contratto non da luogo a querela ma l'insolvenza porta il debitore alla rovina, alla schiavitù, alla morte.
In definitiva il popolo romano si era dotato di leggi severissime che presumibilmente venivano applicate con inflessibilità con il fine principale di tutelare la collettività, lo Stato e la proprietà.

Libro I - Capitolo XII - Religione.

La religione romana sorge sul concetto di rispecchiare nel mondo spirituale l'immagine della vita reale.
Le persone, le cose, perfino le singole azioni corrispondono ad un nume tutelare la cui eternità consiste nel reiterarsi delle cose terrene.
Roma aveva i suoi numi e così li avevano tutti gli stati stranieri e quando i non romani si trasferivano in città anche i loro dei erano invitati a fare altrettanto. Fra i più antichi documenti romani ci sono pervenuti i calendari delle festività religiose in cui avevano la preminenza Giove e Marte con il sosia di lui Quirino.
Tutti i giorni di plenilunio (idi) sono sacri a Giove.
A Marte è consacrato il mese di Marzo nel quale si svolgevano grandi feste guerriere.
Con questa festa iniziavano le campagne militari, alla fine delle quali si svolgeva un'altra festa di consacrazione delle armi a Marte il 19 Ottobre.
Le altre feste comprendono quelle dell'agricoltura, della viticoltura e della pastorizia.
Il 15 Aprile la festa di Tellus, dio della terra nutriente.
Il 19 Aprile la festa di Cerere, dea di ciò che germoglia.
Il 21 Aprile festa di Pale, dea delle greggi fecondate.
Il 23 Aprile festa di Giove, protettore delle viti e delle botti.
Il 25 Aprile era dedicato alla ruggine, nemica delle messi.
Dal 21 al 25 Agosto si ringraziavano del raccolto Conso e Ops, dio e dea del raccolto e delle messi, ancora loro si celebravano fra il 15 e 19 Dicembre, con la benedizione dei granai.
L'11 Ottobre si festeggiava il mosto, ritenuto salutare e dedicato a Giove.
Il 17 Febbraio la festa del lupo, Lupercalia.
Il 19 e 21 Luglio festa dei boschi.
Il 13 Ottobre la festa delle fonti.
Il 21 Dicembre la festa del giorno più breve.
Le feste nautiche: 23 Luglio Neptunalia, 17 Agosto festa dei porti (Portunalia), 27 Agosto festa del Tevere.
Il 23 Agosto festa del dio Vulcano.
Il 23 Maggio festa delle trombe.
L'11 e il 15 Gennaio festa di Carmenta, protettrice delle nascite.
Il 9 Giugno festa di Vesta e dei Penati.
Il 17 Marzo Liberalia: benedizione dei fanciulli.
Il 9, l'11 e il 13 Maggio Lemuria: festa degli spettri.
L'11 Dicembre festa dei Sette Monti.
Il 9 Gennaio festa di Giano.
Il fulcro della religione dei Romani più antichi è sicuramente Marte, dio della guerra e sgominatore dei nemici. Tale culto era comune a tutti i Latini che avevano un Marte per ogni comune. Giove (padre Diovis) è inizialmente una divinità bonaria e rallegrante, tutelare del vino e dei festeggiameti.
Gli dei romani erano personificati ed antropomorfi, prova ne sia che erano tutti maschio o femmina.
Il culto era estremamente semplice e rudimentale, rimanendo totalmente estranee alla religione latina astrazioni elevate come la personificazione della bellezza di Apollo, l'ebrezza dionisiaca o i misteri ctonici che caratterizzavano la teologia greca.
Figura caratteristica della religione romana era il dio bifronte Giano che entrava in causa all'inizio di ogni azione e veniva invocato come "spirito dell'apertura" di ogni evento. Il culto più intimamente sentito era però quello dei geni protettori della casa: protettori pubblici erano Vesta e i Penati, nelle case ricche erano i Silvani, tutori dei boschi e dei parchi delle ville, in ogni casa i Lari ai quali si offriva una porzione di cibo e che ricevevano ogni giorno la devozione del padre di famiglia.
In definitiva tutta la teologia romana è intrisa di un concetto pratico ed utilitaristico: il romano chiedeva ai suoi dei protezione, abbondanza nell'agricoltura, successo nel commercio.
Nel culto degli spiriti i Romani ritenevano che le anime dei morti rimanessero legate al luogo dove riposavano le spoglie, se buoni, o venissero segregati in un mondo inferiore proibito agli uomini ed abbandonato dagli dei se malvagi.
I più antichi collegi sacerdotali romani erano dedicati a Marte: sacerdote del dio era il flamine marziale (accenditore di Marte) che gli tributava uno speciale sacrificio arso. Per Marte dodici giovani (Salii, saltatori) eseguivano in marzo una danza sacra intonando canti. Vi erano inoltre sacerdoti della ninfa Carmenta, di Vulcano, delle divinità del porto e del fiume.
Fra i riti più antichi la festa del lupo in cui i "Lupi" saltavano nudi cinti da una pelle di capro e colpivano con corregge i passanti.
Ai flamini marziali si aggiunse il flamine diale, sacerdote di Giove.
Alla dea del focolare comune dei Romani, Vesta, fu dedicato un collegio di sei vergini che dovevano conservare sempre ardente il fuoco nel tempio. Questa forma di culto sarà la più sacra e radicata nonchè l'ultima ad estinguersi con la fine del paganesimo.
A poco a poco furono istituiti altri sacerdoti dedicati alle varie divinità finchè se ne contarono quindici.
Gran parte di questi aspetti del culto romano trovano origine nella religione comune dei Latini e forse anche delle genti sabelliche.
Nella religione romana i sacerdoti svolgevano i sacrifici ed altri riti ma non avevano funzione di intermediari fra il fedele e la divinità nella preghiera: il romano si rivolgeva direttamente ai suoi dei per le sue devozioni. Per questo dialogo con la divinità si rendeva dunque necessario "conoscere il linguaggio degli dei" e saperne interpretare i segni. Sorsero così nel tempo dei consorzi di esperti di carattere non sacerdotale ma civile che furono i depositari della prassi religiosa ed in senso lato della cultura: gli auguri ed i pontefici.
I sei auguri sapevano interpretare la lingua degli dei dal volo degli uccelli.
I pontefici derivavano il proprio nome dall'originario incarico di costruire i ponti sul Tevere, erano quindi in origine degli ingegneri ed ebbero anche il compito di tenere il calendario, di annunciare il plenilunio e le festività e di vigilare sul corretto svolgimento di tutte le funzioni religiose. Inoltre i sacerdoti venivano consultati per controllare che le leggi e gli atti pubblici che si svolgevano non contrastassero in alcun modo con il diritto divino.
Alla stessa categoria di esperti o saggi religiosi appartennero anche i "feziali" che avevano il compito di conservare i trattati e gli accordi con gli stati stranieri ed in caso di ostilità tentare la conciliazione o curare la dichiarazione di guerra.
Sacerdoti, auguri, pontefici, ecc. ebbero grande considerazione e spesso autorità, tuttavia erano giuridicamente dei semplici cittadini e come tali soggetti al rispetto delle leggi dello Stato come tutti gli altri. Anche nell'esercizio delle proprie funzioni dovevano limitarsi ad agire come "consulenti" interpretando le risposte divine per il postulante e solo quando ne erano richiesti. Centro di tutti i rituali romani è il sacrificio: ciò deriva dall'intento del romano di partecipare alla divinità la parte migliore della propria vita (il cibarsi di carne era praticamente limitato alle festività) per ottenerne il favore o per placarne l'ira.
Sostanzialmente il rapporto fra l'uomo e la divinità è considerato alla stregua di un contratto in cui l'uomo deve onorare il proprio debito verso il dio creditore e poco tollerante. In questo senso il voto è un patto fra uomo e dio in cui il primo promette qualcosa in cambio di una prestazione da parte del secondo (non diversamente dal culto moderno dei santi).
Una religione come questa, sostanzialmente moralistica e materialistica non incoraggiava affatto la cultura artistica e lo sviluppo delle belle arti, se non l'architettura per la costruzione dei templi, ritenute vere e proprie dimore degli dei.
La semplice religiosità romana accolse con facilità e senza risultarne alterata divinità e culti appartenenti a religioni straniere.
La prima di queste acquisizioni pare essere stata il culto relativo agli oracoli, in particolare quello dell'Apollo Delfico che fin da epoche molto remote i Romani andavano a consultare tramite apposite legazioni.
Poco dopo comparve il culto di Ercole che per i Romani divenne dio della fede mantenuta e dei contratti mercantili, questo culto si estese rapidamente e dovunque in Italia si avevano altari e templi dedicati al dio. Seguirono, sempre di provenienza ellenica, il culto di Castore e Polluce, protettori dei naviganti, di Hermes, dio del commercio identificato con l'italico Mercurio, di Asklapios o Esculapio, dio della salute.
L'influenza della religione greca fu esercitata mediante gli scambi mercantili e furono i naviganti a introdurre gli dei greci in Italia.
Ben diversa dalla religione romana doveva essere quella etrusca, ispirata a misteriose numerologie che prevedeva un oltretomba infernale in cui le anime dei trapassati venivano sottoposte a tormenti espiatori.
La religione etrusca poco influì su quella romana se non per l'arte della divinazione, l'aruspicina, di cui gli Etruschi erano considerati maestri.

Libro I - Capitolo XIII - Agricoltura - Industria e Commercio.

Come si è già detto il passaggio degli Indoeuropei dalla pastorizia all'agricoltura avvenne prima dell'immigrazione degli Italici. In età storica non si hanno quindi in Italia vere tribù pastorali anche se la pastorizia era generalmente praticata collateralmente all'agricoltura. Le civiltà italiche, e quella romana in particolare, erano del tutto basate sull'agricoltura. La conquista da parte dei Romani era soprattutto annessione di nuovo terreno e dalla costituzione serviana in poi diritti e doveri erano fondati più sulla quantità di terreno posseduto che sulla cittadinanza.
Nei tempi più antichi la gestione del terreno arabile era di tipo comunitario, le famiglie che condividevano un terreno ne spartivano oneri e rendite. Solo più tardi si fondò la vera e propria proprietà agricola della singola famiglia.
L'agricoltura romana si basava sui cereali (soprattutto il grano) e sulla vite.
Alcune tradizioni di età preellenica dimostrano che la cultura della vite non fu introdotta in Italia dai Greci ma è di origine più antica. Alla viticultura erano riferiti alcuni rituali e varie feste ed era uso che fosse il flamine di Giove a dare il consenso per l'inizio della vendemmia eper l'inaugurazione delle botti (cioè l'inizio della vendita del vino nuovo). Il lavoro agricolo coinvolgeva tutti i membri validi della famiglia oltre ai servi ed agli schiavi. Nei tempi più antichi le conoscenze meccaniche erano molto limitate e di conseguenza gli strumenti di lavoro piuttosto inefficienti, più tardi si riuscì a migliorarne le prestazioni e si sviluppò una scienza agraria come dimostrano molti testi letterari.
I costumi dei Romani prevedevano periodi di riposo dall'assiduo lavoro dei campi, in particolare il mese di ferie che seguiva alla semina invernale. La legge si sforzava di conservare l'unità delle tenute, pur senza ostacolarne la divisione fra gli eredi per rispetto dello spirito liberale del diritto.
Venivano fondate numerose colonie trasferendosi nelle quali i braccianti avevano possibilità di diventare proprietari.
I latifondisti spesso concedevano gran parte dei loro possedimenti a chi li coltivasse ed in questo contratto era uso (non norma) che ricevessero parte del raccolto. Avevano altresì il diritto di sfrattare il beneficiario a loro piacimento. L'istituto della clientela si basava su questa assegnazione degli usufrutti.
Nei tempi della comunanza era la stirpe ad assegnare usufrutti e quindi la clientela non poteva dirsi un rapporto personale. Succesivamente alla spartizione dei terreni i rapporti cambiano e si giunse al formarsi di una nobiltà campagnola.
Da queste istituzioni antiche nacque quella dell'affitto, molto diffusa nell'antica Roma, tanto che gli affittuari, liberi, clienti o liberti costituirono la maggioranza del proletariato e furono molto più numerosi dei servi che lavoravano le terre di un padrone. Questa vasta classe di affittuari e di usufruttuari viveva in condizioni economiche dignitose e costituì la forza necessaria per la fondazione e il successo delle colonie.
I pascoli rimasero per lo più proprietà dello Stato che ne concedeva l'utilizzo ai proprietari di bestiame. In genere la pastorizia non rivestì grande importanza nell'economia romana e questo tipo di terreni rimase limitato.
Oltre all'agricoltura si svolgevano importanti attività nell'area cittadina. Nell'età dei re esistevano otto corporazioni di mestieri:
I suonatori di flauto.
Gli orefici.
I calderari.
I legnaioli.
I gualchieri.
I tintori.
I pentolai.
I calzolai.
Altre attività comuni, come ad esempio la panificazione o la filatura erano svolte nell'ambito domestico e non si consideravano quindi "mestieri" nel senso stretto del termine.
L'assenza di una corporazione di fabbri comprova come a Roma si iniziasse relativamente tardi la lavorazione del ferro.
Analogamente ai collegi sacerdotali le corporazioni dovevano avere un ruolo di conservazione delle tradizioni e di salvaguardia delle conoscenze specifiche degli artefici.
Antichissima è l'usanza delle fiere e dei mercati che in un primo tempo servivano agli scambi commerciali fra le genti italiche poi si estesero su scala internazionale. La più importante fiera commerciale romana si svolgeva sul Monte Soratte, facilmente accessibile dal Lazio, dall'Etruria e dall'Umbria. L'istituzione di questa fiera risale senza dubbio all'epoca preellenica.
Gran parte dei commerci si svolgeva con lo scambio di bestiame. Il rapporto di dieci pecore per un bue fu fissato in tempi remoti com'è dimostrato dal fatto che fosse in uso presso le popolazioni germaniche.
La carenza di metalli portò presto gli Italici ad apprezzare gli scambi in rame.
Reperti in vari siti archeologici italici hanno dimostrato l'importazione prima e l'imitazione poi di merce di provenienza orientale, per esempio monili d'oro di fabbrica babilonese, vasi di vetro o smalti egiziani, ecc. Reperti archeologici e studi linguistici provano inoltre intensi scambi commerciali con i Greci ed i Greco-Siculi.
Anche molti termini nautici del latino e delle lingue italiche risultarono derivanti dal greco, e maggior prova degli scambi suddetti.
Gli Italici importavano quindi dai Greci o tramite i mercanti greci beni di lusso che non erano in grado di produrre, in cambio di valuta in rame ma anche di prodotti agricoli e bestiame. I Latini, privi di molte risorse locali, dovevano svolgere un commercio passivo ottenendo da Etruschi e Greci il rame ed altri beni in cambio di schiavi e bestiame. Questa condizione favorì uno sviluppo commerciale, finanziario ed artistico precoce degli Etruschi rispetto a quello dei Latini.
Rinvenimenti di tombe etrusche testimoniano un commercio con la Grecia e con Cartagine.
Lunghe e dottissime considerazioni linguistiche di Mommsen servono a dimostrare come la frequenza e l'intensità degli schiavi fra Italici, Cartaginesi e Greci abbia lasciato tracce nelle rispettive lingue.

Libro I - Capitolo XIV - Misura e Scrittura.

Fin dalla preistoria si attesta il sistema di numerazione decimale, dovuto senza dubbio al riferimento delle dieci dita delle mani. Il sistema era già in vigore presso gli Indoeuropei poi prima delle grandi migrazioni come prova la corrispondenza in tutte le popolazioni da essi derivanti dei numeri fino a cento.
I fondamentali segni numerici Latini furono invece invenzione italica: I per indicare un dito, V per l'intera mano, X per due mani. Da elementi astrologici, le lunazioni, i Romani derivarono un sistema numerario duodecimale utilizzato in alcune misure di peso o del terreno ed in alcune applicazioni rituali (esempio: il collegio dei Salii e quello degli Arvali).
Con l'intensificarsi del commercio con l'Attica e con la Sicilia i sistemi di misurazione dei Romani si fecero più complessi, furono adottate nuove misure di tempo, peso e volume più facilmente parametrabili con quelle degli interlocutori.
La più antica misurazione del tempo presso gli Italici si basava, com'è naturale sui cicli solari e lunari: per molto tempo il giorno fu l'unità di misura più piccola ed il mese la più grande.
Più tardi, ma comunque in età preellenica i Romani giunsero a misurare l'anno, come ciclo delle stagioni da prima suddiviso in dieci mesi, poi in dodici quando fu noto l'uso di un sistema di numerazione duodecimale.
Il più antico calendario romano cercava di compensare la propria inesattezza con un mese supplementare ogni quattro anni e con altri artifici. Rimase comunque piuttosto impreciso. I giorni venivano contati basandosi sul novilunio (calende), il nono giorno successivo (nonae) ed il plenilunio (idi).
Misurazioni cronologiche che superavano l'anno si basavano forze sugli anni di regno dei vari re e/o sui cicli quadriennali e rimasero comunque poco attendibili.
Dalla dotta e difficilmente riepilogabile disquisizione di Mommsen sugli alfabeti si ricava in sostanza che l'alfabeto etrusco e quello latino derivarono entrambi dal greco. L'alfabeto etrusco si diffuse a Nord, a Sud e ad oriente della penisola mentre il latino rimase limitato nel Lazio dove in generale si conservò con pochi cambiamenti.
Sulla base di vari elementi fonetici e delle corrispondenti simbologie alfabetiche Mommsen conclude che gli alfabeti etruschi e latini debbano essersi formati molto prima della data convenzionale della fondazione di Roma, addirittura verso il XIV secolo a.C. Numerosi indizi testimoniano l'antichità della scrittura in Roma: l'esistenza di documenti scritti all'epoca dei re è sufficientemente dimostrata (trattati fra Romani e Latini, documenti di fondazione dei templi, ecc.).
Si scalfiva o dipingeva su foglie, cortecce e tavole di legno, più tardi su pelli e tele.

Libro I - Capitolo XV - L'Arte.

Mommsen apre il capitolo con una considerazione sulle predisposizioni artistiche degli Italici prima e dell'italiano poi.
Sostiene che l'italiano non è dotato di una vera e propria disposizione poetica, ma è piuttosto portato alla parodia ed alla retorica. Questa caratteristica ritorna in tutte le epoche e si ritroverebbe in Sallustio, in Tacito ed in Dante.
La sensibilità degli Italiani fa si che non si accontentino di idealizzare la bellezza ma la vogliono sensibilmente rappresentata e questo li rese i migliori allievi dei Greci prima ed i maestri di tutti poi.
Fra le più antiche forme artistiche nel Lazio furono sicuramente la musica e la danza, primitive rappresentazioni di gioia poi parte integrante dei rituali. In un primo periodo la musica dei suonatori di flauto è considerata accessoria alla superiore arte della danza. I canti religiosi prendono ispirazione dal suono naturale del mormorio della selva e costituiscono motti magici, formule rituali, invocazioni.
Nei funerali era uso che le donne intonassero la "Nenia" con l'accompagnamento del flauto, nei banchetti i fanciulli cantavano le lodi degli antenati. Nelle feste popolari e nel carnevale nacquero l'uso di canti farseschi e le prime parodie improvvisate. Del contenuto di queste antiche rappresentazioni non ci sono giunte testimonianze.
La più antica forma metrica latina pervenutaci è quella del verso saturnio o faunico, estraneo ai Greci e forse tipico della prima poesia popolare. Nulla sappiamo dei fondamenti musicali latini salvo che si usava un flauto d'osso con quattro fori.
Le più antiche rappresentazioni teatrali latine probabilmente si basavano su ruoli fissi interpretati da attori mascherati, come nella farsa atellana di epoca più recente. E' provato che in epoche molto remote l'arte greca influenzò quella latina, come dimostra l'adozione della lira greca a sette corde e l'importazione di statue di divinità greche presto accolte nella religione latina.
Anche gli spettacoli popolari che si svolgevano in occasione dei ludi massimi (in genere per festeggiare vittorie militari) si riscontrano molte affinità con gli usi greci: la scelta dei giochi (corsa, lotta, pugilato), il costume di premiare i vincitori con una cerimonia, ecc.
Il concetto greco della ginnastica come libera competizione fra i cittadini fu però corrotto a Roma dove presto i giochi furono riservati a professionisti liberti o stranieri. Anche nella poesia non si sviluppò nel Lazio una vera e propria coscienza artistica nazionale, non vi si formò un'epica latina ed anche miti e leggende furono generalmente importati.
Mentre in Grecia il canto, la musica e la poesia erano onorati e considerati degnissime attività del cittadino a Roma li si guardava come arti vane, futili e, se oggetto di spettacolo, addirittura disonorevoli.
L'educazione dei giovani era tutta basata sul rapporto familiare il chè, osservava Mommsen, andava a discapito della cultura individuale e dell'evoluzione artistica.
Le conoscenze sulle culture artistiche degli Etruschi e dei Sabelli sono troppo scarse per determinare con esattezza il loro influsso su quella romana ma Mommsen ritiene che la schiatta sannita abbia espresso il maggior contributo (Nevio, Ennio, Lucilio, Orazio).
L'architettura della Roma dei re era semplice, l'abitazione tipica somigliava a quella coeva dei greci: case di legno con tetto acuminato coperto di paglia senza vestibolo e senza divisione delle stanze, ad eccezione di quelle che si usavano per il letto e per la dispensa, costruite intorno allo spazio abitabile centrale.
Anche l'architettura non abitativa (templi, mura, opere) dimostra una forte ed antica influenza greca.
Lo sviluppo architettonico in Italia è comunque dovuto principalmente agli Etruschi, sia per quanto concerne le abitazioni, sia per i templi e l'urbanistica in generale. Le arti plastiche e decorative si svilupperanno più tardi dell'architettura. Anche in esse i primi fra gli Italici furono gli Etruschi ed anche in questo caso ispirazione e tecniche furono mutuate dai Greci.
In conclusione gli Etruschi appresero dai Greci ma la loro scarsa originalità ed intuizione produssero un'arte corrotta. I Romani impararono dagli Etruschi ma anche direttamente dagli Elleni della Campania e riuscirono a far propri i principi artistici ed architettonici (ad esempio dell'arco e del ponte) che più tardi svilupperanno nelle più importanti opere romane.

LIBRO SECONDO.
Dall'Abolizione dei Re di Roma sino all'unione d'Italia.

Libro II - Capitolo I.

Cambiamento della Costituzione - Limitazione dei poteri della suprema magistratura.

La lotta fra coloro che godevano della cittadinanza e coloro che ne erano esclusi, l'insofferenza delle classi meno abbienti, la forza crescente del proletariato rurale, portarono infine a radicali cambiamenti nell'ordinamento politico della città. La prima grande conquista degli oppositori fu l'abolizione dell'autorità regia così come era concepita, cioè come carica presidenziale vitalizia dotata di autorità illimitata. Questo fenomeno, dice Mommsen si verificò contemporaneamente in tutti i comuni italici ed in Grecia. Al re furono ovunque sostituiti magistrati annuali e localmente dittatori la cui carica iniziava e durava soltanto nei periodi di guerra.
I magistrati romani furono i consoli.
Mommsen riconosce i fondamenti storici della leggenda di Tarquinio il Superbo e della sua cacciata da Roma.La monarchia fu rovesciata perchè i re avevano abusato del proprio potere, avevano trascurato la funzione del senato, avevano ammassato ricchezze ed imposto gabelle. Il risentimento dei Romani contro i re destituiti durerà nel costume cittadino per i secoli a venire ed ogni romano giurerà di non tollerare mai alcun re.
L'ultima dinastia regnante, quella dei Tarquini fu bandita da Roma e riparò a Cere, è improbabile invece che gli Etruschi siano intervenuti contro gli insorti come racconta la tradizione.
In realtà la funzione giuridica del re, il contenuto del potere regio, non vennero modificati: la stessa autorità venne concessa annualmente a due magistrati alla volta. Ognuno dei due consoli godeva di tutto il potere del re: non si usava ripartire la loro funzione per competenze ed ognuno dei due poteva liberamente ingerire nelle delibere dell'altro. Dove i due consoli erano totalmente in dissenso si finiva con invalidare le sentenze consolari.
Con l'abolizione della potestà vitalizia vennero a cessare altre prerogative del re fra cui i suoi particolari rapporti con la clientela ed il diritto di decidere, nei processi penali, la possibilità del condannato di appellarsi.
Sempre nel concetto che l'integrità del potere regio non fosse alterabile ma che il suo esercizio dovesse essere vigilato furono istituiti altri magistrati intorno ai due consoli. I pretori che inizialmente rappresentarono degli assistenti dei consoli ed altre figure con competenze specialistiche.
Queste restrizioni del diritto consolare riguardavano la giustizia e l'amministrazione mentre in campo militare il console, come comandante supremo conservava la più ampia autonomia decisionale.
I consoli presiedevano l'elezione dei propri successori ed avevano il diritto di proporre una lista di candidati o di opporre il veto a candidature a loro non gradite.
La nomina dei sacerdoti e la giurisprudenza su di essi e sulle vestali non passarono dal re ai consoli e per questi atti fu istituita la figura del Pontefice Massimo.
In via straordinaria si nominava talvolta vicino ai consoli un solo capo detto dittatore.
Il dittatore poteva essere nominato da uno solo dei due consoli e la sua autorità superava quella dei consoli e quella del senato: la durata della sua carica era limitata a quella del console che lo aveva nominato e comunque non poteva superare i sei mesi. Con l'abolizione della monarchia le assemblee popolari raggiunsero il diritto di votare per eleggere i magistrati annuali e fu quindi inevitabile che la plebe, cioè la moltitudine dei non cittadini, liberti, clienti ecc. che contribuiva al pagamento delle imposte lottasse per conquistare il diritto di partecipare a tali elezioni. Ben presto anche i plebei ebbero il diritto di votare nelle curie.
Il senato non risentì profondamente dell'avvenuto mutamento dell'ordinamento politico romano, anzi l'abolizione del re ne ampliò di fatto le competenze. Patrizio per definizione questo consesso rimase legato all'aristocrazia e da esso gestito. La rivoluzione con cui Roma passò dalla monarchia alla repubblica, conclude Mommsen, ebbe un carattere profondamente conservatore e non fu risultato di una rivolta popolare quanto della strategia di due forti partiti (i cittadini e i domiciliati) che momentaneamente coalizzatisi per scacciare i re dispotici ripresero le loro rivalità appena il nuovo assetto fu consolidato.
La nuova cittadinanza che risultò da questo processo vide attestati i diritti fondamentali dei plebei che ora partecipavano alla milizia comunale, al voto ed erano tutelati dal diritto di appello al pari dei patrizi.
In questo periodo si formano importanti concetti del diritto romano, fra i quali la differenza fra la legge (la cui validità non è limitata nel tempo) ed il decreto la cui validità è limitata alla durata della carica del magistrato che ne è autore. Questo permetteva, ad esempio, ai consoli di riaprire cause che i loro predecessori avevano trattato con qualche irregolarità legale. Sempre a questo periodo risale la prima vera distinzione fra potere civile e potere militare.
La pratica del potere civile era dominata dalla legalità mentre nell'autorità militare un comandante aveva imperio assoluto. Era consuetudine che le leggi organiche e durature fossero emanate dal potere civile.
La breve durata della magistratura ed il fatto che i consoli erano comunque destinati a tornare, scaduta la carica, sotto l'autorità del senato rafforzò presto l'autorità dei senatori e dunque del patriziato.
Se non le leggi, la consuetudine molto radicata prevedeva che l'opinione espressa dal senato fosse comunque rispettata. Un'innovazione repubblicana proibiva sia al console che al dittatore di usufruire del tesoro pubblico senza il consenso del senato.

Libro II - Capitolo II.

Il Tribunato del Popolo e i Decemviri.

In pratica il patriziato avendo rinunciato all'esclusivo potere legale lo deteneva di fatto grazie alla sua assoluta ingerenza sulle magistrature ed all'antico attaccamento della gente alle famiglie dei maggiorenti.
Se questa situazione doveva deludere l'opposizione plebea la nobiltà tendeva ad accattivarsi il favore popolare con provvedimenti graditi soprattutto dal punto di vista economico come la diminuzione dei dazi e gli interventi governativi per mantenere basso il prezzo del grano.
Mentre il governo dei re aveva favorito il latifondo il nuovo governo aristocratico tendeva alla formazione di una classe dirigente di capitalisti da un lato e di un vasto proletariato di agricoltori dall'altro. Anche le agevolazioni sui dazi incentivando i commerci favorirono lo sviluppo di una classe di capitalisti, così come l'uso che iniziò in quel periodo di appaltare ai privati lavori pubblici e la riscossione delle imposte.
Analogamente la politica governativa nell'assegnare le concessioni per l'uso dei pascoli comunali tese a favorire i possidenti e le grandi famiglie plebee ad esse devote a scapito dei piccoli e medi proprietari.
Questi ed altri fenomeni, fra cui il credito personale, i gravami derivanti dalle imposte di guerra, l'uso di concedere al creditore ampi diritti sui beni e sulla persona del debitore, portarono ben presto alla miseria ed all'annullamento politico la classe dei medi agricoltori.
Dal punto di vista politico, secondo Mommsen, l'evoluzione in repubblica dello Stato romano non favorì affatto il proletariato povero ma solo quello strato della plebe che aveva già conquistato benessere economico e rilevanza politica tale da annoverare i propri esponenti fra i senatori. Di più: i plebei che entravano a far parte del senato, certamente i più abili e combattivi, impoverivano le file di quanti avrebbero potuto difendere la causa della popolazione più povera.
Errore del patriziato fu dunque quello di non aver voluto o saputo tutelare le classi medie e non aver cercato con queste un accordo accettabile, questo errore costò alla repubblica discordie senza fine.
Questo stato di fatto sfociò ben presto in una serie di crisi.
Nel 495 a.C. (anno 259 di Roma) i contadini esasperati dalla rigida applicazione della legge sui crediti, rifiutarono l'arruolamento di leva. Il console Publio Servilio in vista di una guerra, sospese temporaneamente l'applicazione delle leggi contro i debitori ed i contadini presero parte alla guerra, ma al loro ritorno furono puniti ed incarcerati mentre l'altro console Appio Claudio ripristinava severamente le leggi sospese. L'anno seguente tuttavia la parola dei consoli non fu sufficiente a convincere i contadini a riprendere la guerra e fu nominato un dittatore, Manio Valerio, dal forte ascendente popolare. Ancora dopo le campagne il senato si ostinava a non trattare con la plebe della quale Valerio si era fatto rappresentante. L'esercito allora occupò una regione pubblica fra il Tevere e l'Aniene, successivamente detta Monte Sacro e si accinse a fondarvi una nuova città. Valerio fece da mediatore fra il senato ed i capi degli insorti e di fronte alla minaccia di una secessione che sarebbe stata disastrosa sul piano politico ed economico, dovette cedere.
I contadini ricevettero diversi benefici, fra cui la soppressione di molti debiti, la fondazione di colonie e un'amnistia generale. La riforma più importante fu tuttavia l'istituzione dei tribuni della plebe.
Questi magistrati ottennero il diritto di annullare o impedire le delibere dei consoli e dei magistrati minori tramite l'esercizio del "veto tribunizio".
I tribuni della plebe avevano facoltà di interrompere l'amministrazione o l'esecuzione delle sentenze, di impedire gli arresti, ecc. Questa forma di assistenza legale da loro resa ai plebei era tanto assidua che per legge i tribuni non potevano mai passare la notte fuori città e dovevano tenere le porte di casa aperte giorno e notte. La persona del tribuno era considerata sacra ed ogni azione contro di lui era un crimine punibile con la morte in forza di un giuramento di proteggere i tribuni che sul Monte Sacro fu ripetuto da ogni singolo plebeo.
L'istituzione del tribunato e le nuove riforme sociali portarono presto la plebe all'aspirazione di intervenire non soltanto in materia giudiziaria ma anche in ambito legislativo. L'assemblea della plebe prese a votare le proposte dei tribuni e la fazione plebea cominciò ad operare per ottenere che questi plebiscita venissero legalmente riconosciuti. Nel 492 a.C. fu approvata la legge Icilia che vietava a chiunque di interrompere i tribuni mentre parlavano alla folla, con il che si ratificava di fatto la possibilità del tribuno di sottoporre alla plebe qualsiasi argomento e proposta.
I tribuni duravano in carica un anno come i consoli.
Nelle discussioni fra tribuni prevaleva il veto, cioè bastava che un solo tribuno fosse contrario per impedire la delibera di tutti i suoi colleghi . Come i consoli erano affiancati dai pretori, i tribuni erano affiancati dagli edili.
I consoli erano sempre patrizi, i tribuni sempre plebei.
Il potere dei consoli era più completo ma doveva arrendersi al veto dei tribuni.
I consoli erano eletti dall'assemblea generale mentre i tribuni soltanto dalla plebe, per questo motivo non si fregiavano dei simboli e degli attributi onorifici che spettavano ai magistrati comunali.
Il tribunato nacque con l'intento di contrastare e di dominare gli abusi e le esuberanze della classe dominante ma divenne presto, in forza delle sue stesse prerogative un'arma politica in mano alla plebe che la usò, poco dopo, per sostenere la propria aspirazione di accedere alle cariche comunali.
D'altro canto, nota Mommsen, il potere tutto negativo dei tribuni, non voleva risolvere le iniquità di fondo del sistema governativo romano anche perchè tali iniquità andavano a vantaggio non solo dei patrizi ma anche dei plebei ricchi o benestanti.
Le riforme successive alla rivolta di Monte Sacro non servirono certo a stabilire la pace sociale, anzi aprirono una forte conflittualità fra le due fazioni che fu preambolo alla guerra civile. Il più noto avvenimento di questa situazione è la vicenda di Gneo Marcio, detto Coriolano. 491 a.C., amareggiato per non aver ottenuto il consolato, propose di abolire il tribunato o di chiudere i granai di stato per costringere la plebe a rinunciare ai tribuni. Minacciato di morte dai tribuni si allontanò da Roma e tornò a capo di un esercito di Volsci. La tradizione vuole che l'intervento di sua madre abbia colpito la sua coscienza e lo abbia fatto desistere dal tradimento. Per Mommsen, indipendentemente dalla veridicità della tradizione l'evento denuncia significativamente il degrado morale che caratterizzava le lotte di classe in quel periodo.
Nel 460 a.C. una schiera di ribelli guidata dal sabino Appio Erdonio fece sollevare gli schiavi e tentò l'assedio del Campidoglio.
La Gente Fabia dall'anno 485 al 479 a.C. ebbe sempre un suo membro nel consolato e Mommsen interpreta la loro distruzione per mezzo degli Etruschi nella valle del Cremera come una reazione contro di loro della fazione opposta.
Nel 473 a.C. il tribuno Gneo Genucio citò in giudizio due consolari ma nel giorno destinato all'accusa fu trovato morto nel suo letto. La legge Publilia proposta nel 471 a.C. dal tribuno popolare Volerone Publilio introdusse una riforma importantissima: fino ad allora la plebe aveva votato per (curie, all'interno di ogni (curia si votava per persona, indipendentemente dal patrimonio e dalla residenza. Ciò permetteva alle grandi famiglie patrizie di ingerire nelle decisioni grazie ai loro numerosi clienti e liberti che, facendo parte della plebe, partecipavano alle votazioni. Con la legge Publilia la plebe non votò più per (curia ma per tribù, dove ogni tribù corrispondeva ad uno dei ventuno distretti in cui si era suddiviso il territorio. Nella tribù votavano solo i possidenti, il che escludeva clienti e liberti, ed ogni voto aveva pari peso indipendentemente dalle dimensioni dei poderi, il che riduceva di molto l'importanza dei grandi possidenti. Questa deliberazione amplificò, come si vede, l'importanza del ceto medio che fu abbastanza forte da ottenere che le sue decisioni, purchè approvate dal senato, fossero parificate a quelle delle centurie.
Nel 486 a.C. il nobile Spurio Cassio, dopo due trionfi ed al terzo consolato propose la spartizione dei terreni demaniali con un disegno di legge agraria, contando sul supporto della plebe e sul proprio prestigio personale. Il tentativo finì male: i nobili ed i plebei ricchi si sollevarono contro di lui, il popolo minuto fu scontento del fatto che la proposta prevedeva la concessione di terre anche ai federati latini. Cassio cadde presto in rovina e, accusato di aspirare alla tirannide, venne giustiziato.
Nell'anno 462 a.C. il tribuno Gaio Terentilio Arsa propose che una commissione di cinque membri compilasse un codice di leggi che servisse di norma ai consoli. Il senato respinse la proposta e ne derivarono altre lotte sociali.
Nel 457 a.C. il numero dei tribuni della plebe fu portato da quattro a dieci.
Nel 456 a.C. fu concesso alla plebe di occupare il Colle Aventino per costruirsi abitazioni.
Nel 454 a.C. si giunse infine ad un accordo sulla compilazione del codice: fu decisa l'istituzione di una commissione di dieci magistrati (decemviri) che dovevano essere eletti dalle centurie, con il compito di codificare un corpo di leggi e di fungere, per il periodo del loro incarico, da supremi magistrati in luogo dei consoli. La delibera ammetteva la possibilità di eleggere plebei nella commissione.
Nel 451 a.C. fu inviata una legazione in Grecia per riportarne le leggi di Solone ed altre greche che fungessero da modello e da documentazione per la commissione legiferante, subito dopo si passò ad eleggere la commissione stessa che risultò composta di soli patrizi, a riprova della potenza di cui la nobiltà ancora disponeva, nella seconda elezione (450 a.C.) vennero nominati alcuni plebei, i primi a Roma a ricoprire una carica comunale.
Si convenne da ambo le parti, sembra, che le leggi codificate vincolando l'operato dei consoli, rendevano superfluo il consolato.
Nel 451 a.C. il primo decemvirato presentò al popolo che lo accettò un primo codice di leggi che, inciso su dieci tavole di rame, fu esposto nel Foro. Nel 450 a.C. dopo una seconda elezione furono aggiunte due tavole e nacque la legge delle dodici tavole. Questo codice non si distaccava sostanzialmente dalla legislazione non scritta vigente ma aveva la funzione politica di vincolare i consoli a forme processuali e norme stabilite contenendo nei limiti delle stesse la loro possibilità di arbitrio.
Compiuto il suo compito il decemvirato avrebbe dovuto dimettersi, invece tentò di continuare a detenere il potere. In quel periodo iniziò una guerra contro Volsci e Sabini. Fu trovato morto, forse assassinato, l'ex tribuno Lucio Siccio Dentato, personaggio estremamente popolare la cui morte suscitò lo sdegno dell'opinione pubblica.
Una sentenza di Appio Claudio contro la figlia del centurione Lucio Virginio, fidanzata dell'ex tribuno Lucio Icilio condannò la ragazza alla schiavitù: il padre la pugnalò sulla pubblica piazza per sottrarla alla vergogna. Questo episodio scatenò la reazione della folla, si giunse presto ad una nuova ribellione. I plebei tornarono sul Monte Sacro, Lucio Valerio e Marco Orazio funsero da mediatori: il decemvirato fu destituito ed il tribunato ripristinato. I due decemviri più in vista, Appio Claudio e Spurio Oppio, si suicidarono in carcere, gli altri otto furono esiliati.
Secondo Mommsen comunque questa versione dei fatti ci è stata tramandata in modo adulterato dall'aristocrazia. Erano gli aristocratici, infatti, e non la plebe ad avere motivi di astio contro i decemviri e probabilmente la rivolta che portò alla loro destituzione fu sobillata proprio dal patriziato.
Le leggi Valerie-Orazie (449 a.C.) costituirono il compromesso con il quale si concluse questo conflitto. Il tribunato popolare fu ristabilito, il nuovo codice mantenuto e reso vincolante per i consoli. Fu stabilito che ogni magistrato, compresi i dittatori, fosse obbligato alla sua nomina a riconoscere il diritto di appello. Un'ulteriore limitazione del potere dei consoli fu l'istituzione dei questori, contabili scelti dal comune ai quali venne demandata l'amministrazione della cassa di guerra. Furono eletti per la prima volta nel 447 a.C.
Ai tribuni venne concesso di assistere alle riunioni del senato e di esprimervi un voto consultivo. Col tempo si formulò il principio per cui un veto di un tribuno bastava ad interrompere un senato-consulto.
Per evitare contraffazioni fu stabilito che i senato-consulti fossero custoditi oltre che nel tempio di Saturno presso i questori urbani (patrizi) anche nel tempio di Cerere presso gli edili (plebei).
Con l'emanazione di queste leggi il collegio tribunizio venne consolidato definitivamente nei suoi poteri e da allora in poi non si registrano altri tentativi di sopprimerlo.

LIBRO SECONDO.

Libro II - Capitolo III.

La perequazione dei ceti e la nuova aristocrazia.

Progressivamente andò formandosi un ceto medio di plebei benestanti che riuscivano ad avere accesso al senato e che col tempo si trovò alla testa del suo ceto nel fronteggiare il patriziato. Se in origine l'istituzione del tribunato deve essere stata poco gradita a questo ceto quando la vicenda del decemvirato dimostrò l'impossibilità di abolire i tribuni ai ricchi plebei non rimase altro che servirsene per i propri scopi.
Nel 455 a.C. la legge Canuleia rese legittimi i matrimoni fra patrizi e plebei stabilendo che ai figli spettasse la condizione del padre.
Fu stabilito di eleggere, in luogo dei consoli sei tribuni di guerra con autorità consolare. Decisione questa che ebbe come prima causa, o forse solo come pretesto, il fatto che due soli consoli risultavano spesso insufficienti dati i numerosi fronti di guerra che si aprivano con le popolazioni limitrofe.
In realtà si trattò di una nuova conquista della plebe in quanto, di diritto, tutti i gradi dell'esercito (compreso quello di questi tribuni) potevano essere raggiunti da qualsiasi cittadino o domiciliato atto alle armi.
D'altro canto con questa istituzione la nobiltà riusciva ad evitare che i plebei accedessero al consolato vero e proprio il che avrebbe fra l'altro permesso loro di intervenire nelle discussioni del senato.
Nonostante i continui, ed inevitabili, successi della plebe la nobiltà continuò a resistere con vari mezzi rifiutandosi di fare concessioni definitive che le togliessero di mano l'esclusivo controllo del senato.
Nel 435 a.C. furono istituiti i censori. Venivano eletti dalle centurie fra i nobili e duravano in carica diciotto mesi. Avevano il compito di redigere, di regola ogni quattro anni, il registro dei cittadini e delle imposte, compito fino ad allora svolto dai consoli.
Nello stesso periodo anche la carica di questore, per la sua natura essenzialmente militare fu aperta ai plebei.
Nel 439 a.C. si verificò l'episodio di Spurio Melio, ricco plebeo che durante una carestia prese a vendere il grano a prezzi bassissimi. Fu citato dal prefetto delle provviste Lucio Minucio che lo incolpò di mire monarchiche. Il console Tito Quinzio Capitolino nominò allora l'ottuagenario Lucio Quinzio Cincinnato dittatore senza appello (contravvenendo alle leggi del 449 a.C.). Gaio Servilio Aala, maestro di cavalleria del dittatore uccise Spurio Melio perchè reticente a presentarsi in giudizio. L'episodio è sintomatico della situazione politica di quegli anni ed indica a quali mezzi fosse ormai ridotta la nobiltà per condurre la lotta di classe.
Nel 432 a.C. fu emanata una legge contro i brogli elettorali per contenere gli intrighi con i quali la nobiltà, da sempre, cercava di condizionare a proprio vantaggio l'esito delle elezioni.
Nel frattempo la contesa politica poneva in secondo piano le questioni di carattere sociale e la condizione del popolo minuto si faceva estremamente miserevole, mentre i ricchi plebei si dimostravano non meno insensibili dei patrizi ai suoi problemi.
Si ebbe il caso di Marco Manlio, salvatore del Campidoglio durante l'assedio dei Galli che per aver più volte difeso ed aiutato a sue spese poveri popolari fu incriminato con la consueta accusa di aspirazione alla tirannide e condannato a morte dalla stessa plebe (384 a.C.)
Durante la guerra contro Veio si manifestò la necessità di trattenere sotto le armi gli arruolati non solo durante l'estate come era consuetudine, ma anche d'inverno. Per evitare la conseguente renitenza alla leva lo Stato decise di caricare il soldo militare alle casse dello stato sovvenzionandole però, non con la vendita dei beni demaniali come sarebbe stato equo ma con anticipazioni forzate imposte ai contribuenti. Tali prelievi straordinari, più volte ripetuti, finirono per rovinare economicamente i piccoli possidenti.
I tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio proposero un pacchetto di riforme che comprendeva l'abolizione del tribunato consolare, l'accesso dei plebei alla carica di uno dei due consoli, una regolamentazione per l'utilizzo e l'occupazione dei terreni demaniali, l'ammissione dei plebei al collegio dei conservatori di oracoli ed altre misure in favore dei debitori.
Un insieme articolato di norme di grande rilevanza politica e sociale che Mommsen intende come un grosso compromesso teso a perequare i ceti sociali.
La nobiltà ovviamente oppose molta resistenza e pur non avendo più la forza politica per respingere il provvedimento riuscì a procastinarlo per ben undici anni e solo nel 367 a.C. le nuove leggi vennero approvate.
Con l'elezione del primo console plebeo, Lucio Sestio Laterano, uno dei promotori della riforma, la nobiltà dinastica cessò di essere istituzione politica.
Il vecchio eroe patrizio Marco Furio Camillo fondò ai piedi del Campidoglio il Tempio della Concordia, per celebrare la nuova armonia creatasi con questi provvedimenti fra le classi sociali.
A seguito delle leggi Licinie Sestie fu istituito accanto ai consoli l'ufficio del pretore con incarichi strettamente giudiziari. Furono inoltre istituiti i due edili curuli (patrizi) perchè sovraintendessero ai mercati, alla polizia, alle feste cittadine. Subito dopo però la carica di edile curule divenne accessibile anche ai plebei.
Nei decenni seguenti una serie di leggi portò alla completa perequazione nell'accesso alle cariche civili e religiose.
La legge promossa dal dittatore Quinto Ortensio nel 286 a.C. portò infine alla parificazione delle deliberazioni dell'assemblea repubblicana e della plebe.
Dopo l'emanazioni delle leggi Licinie - Sestie, altre leggi furono varate nello spirito della perequazione sociale: la tassa sull'emancipazione degli schiavi fu la prima imposizione romana posta effettivamente sui ricchi (357 a.C.)
Furono rinnovate le leggi contro l'usura già presenti nelle dodici tavole e si ridusse il tasso d'interesse dal dieci al cinque per cento, finchè nel 342 a.C. fu proibito applicare interessi, questa disposizione ovviamente non venne osservata.
La legge Petelia del 326 a.C. o del 313 a.C. soppresse la procedura esecutiva sommaria e si stabilì che nessun cittadino romano potesse essere tratto in schiavitù, se non in forza di una sentenza di giurati.
Nonostante tutte queste innovazioni la condizione del popolo e del ceto medio domiciliato rimase a lungo grave ed il governo mancava dell'unità e della forza politica ed economica necessaria a risolvere i molti problemi esistenti.
Un aiuto più concreto venne alle classi medie dall'estendersi della dominazione romana sull'Italia.
Nel quinto secolo furono fondate molte colonie che procurarono lavoro al proletariato romano. Le finanze della repubblica migliorarono rapidamente allontanando la necessità di applicare tributi sui contadini sotto forma di prestito forzato.
Nel periodo di circa cento anni che va dall'ultima guerra contro Veio alla prima contro Pirro i contrasti sociali in Roma sembrarono risolti e le riforme del 367 a.C., pur con le loro limitazioni, portarono ad un ottimo grado di eguaglianza sociale.
Tuttavia anche dopo le riforme il governo rimase prevalentemente in mano all'aristocrazia, si trattava però di un'aristocrazia contadina in cui il possidente lavorava fisicamente la terra al pari dei suoi salariati senza particolari esteriorità sociali, come in una vera comunità di agricoltori.
Mentre nasceva un ceto signorile di origine plebea che andava a condividere il potere del patriziato, si creò naturalmente una nuova opposizione politica che andò a schierarsi a favore del popolo minuto e dei piccoli agricoltori.
I primi leaders della nuova opposizione furono Manio Curio (console nel 290 - 275 - 274 a.C.) e Gaio Fabrizio (console nel 282 - 278 - 273 a.C. e censore nel 275 a.C.), entrambi di condizione non agiata, entrambi rappresentanti del ceto dei piccoli agricoltori contro le casate signorili.
La configurazione politica dello Stato dopo le riforme: la cittadinanza, nelle sue assemblee ordinarie, rimaneva il supremo organo dello Stato. Salvo alcune decisioni, fra cui l'elezione dei consoli, le riforme stabilivano che la votazione per distretti avesse la stessa validità di quelle per centurie, la legge Ortensia, come si è detto, estese il concetto anche all'assemblea speciale dei plebei.
In generale la competenza della cittadinanza fu aumentata, mentre i comizi centuriati si tenevano lontani dalle decisioni di carattere amministrativo e non militare.
I comizi tributi venivano consultati quando mancava l'accordo fra i consoli, come avvenne nel caso della richiesta di pace da parte di Cere (353 a.C.) o da parte dei Sanniti (318 a.C.) .
Tuttavia mentre si ampliava la competenza dell'assemblea popolare la sua influenza pratica cominciò a scemare a causa delle accresciute dimensioni dello Stato e della popolazione. Non potendo più la cittadinanza riunirsi "in una piazza" per discutere l'assemblea venne diventando, dice Mommsen, uno strumento in mano di chi la presiedeva, del resto il cittadino era allora "incapacissimo" di avere una propria volontà ed una propria opinione.
La magistratura consolare che all'inizio della repubblica aveva accettato tutti i poteri che erano stati del re, uscì dal periodo delle lotte sociali fortemente diminuita. Molte delle sue competenze erano state trasferite ai nuovi uffici creati in quel periodo.
Anche la dittatura fu sensibilmente ridimensionata e dal 350 a.C. in poi vennero nominati dittatori con mandati specifici e con competenze limitate.
Si emanarono norme che proibivano di accedere due volte al consolato a meno di dieci anni di distanza o di ricoprire due volte la censura. Com'è noto vi furono diverse eccezioni a queste regole.
Il tribunato popolare rimase in pieno esercizio dei suoi poteri ed attributi, anzi i tribuni furono ammessi a partecipare alle riunioni del senato ed a prendere la parola. Per Mommsen questo fu il modo scelto dalla nuova aristocrazia per convertire l'istituzione tribunizia "da una macchina di opposizione ad un organo di governo, associando i tribuni all'esercizio del potere" laddove non si sarebbe riusciti ad eliminare il tribunato senza rischiare una rivoluzione popolare.
Dopo il pareggiamento delle classi la Repubblica era di fatto governata dal senato, quasi senza opposizione. Il diminuito potere dei consoli aveva emancipato il senato.
Ogni nuovo disegno di legge era prima discusso in senato e nessun magistrato avrebbe mai sottoposto un progetto ai comizi senza o contro il parere del senato.
Il senato si arrogò via via varie funzioni, come quella dell'elezione dei dittatori in origine spettante ai consoli, riuscì ad intervenire in modo determinante nell'assegnazione delle sfere di competenza ai due consoli e, cosa molto importante, ottenne la facoltà di prolungare (almeno fuori dai confini dello stato) le cariche dei consoli o dei pretori, trattenendoli in carica come proconsoli o propretori.
Dipendevano esclusivamente dal senato tutto ciò che riguardava la guerra, la pace e le alleanze, la fondazione di colonie, l'assegnazione di terreni, le costruzioni pubbliche ed in generale il ramo delle finanze.
Sull'integrità morale del senato vigilava un "tribunale dei buoni costumi" composto da uomini integerrimi nominati a vita per non essere influenzati dal "vacillante favore del popolo". Tale tribunale ogni quattro anni rivedeva le liste dei senatori ed aveva facoltà di espellere quelli che si fossero macchiati di comportamenti indegni.
Il giudizio storico di Mommsen sul senato della Repubblica è positivo: pur non dimenticando come questo organo avesse accentrato il potere nelle proprie mani tramite un processo che definisce di usurpazione e come tale potere nelle questioni interne sia stato a volte applicato tenendo presente l'interesse particolare dei senatori, Mommsen afferma che il senato, una volta liberato dal "frivolo caso della nascita" e nominato dal libero suffragio della nazione seppe nel complesso creare il principio che vede tutti i cittadini uguali davanti alla legge risolvendo così l'astiosità fra i ceti e seppe rappresentare lo Stato all'estero con dignità senza pari.

Libro II - Capitolo IV.

Caduta della potenza etrusca. - I Celti.

Conclusa l'analisi dell'evoluzione politica e sociale interna alla Repubblica dei primi due secoli l'autore torna all'inizio di tale periodo per studiare la politica estera.
Alla caduta dei Tarquini gli Etruschi erano all'apice della loro potenza e con i loro alleati Cartaginesi dominavano il Mediterraneo. La Sardegna era stata conquistata dai figli del generale cartaginese Magone nel 500 a.C., metà della Sicilia era dominata da Cartagine, gli Etruschi dominavano l'Adriatico, ecc.
Per gli Etruschi era importante conquistare il Lazio posto fra il loro territorio originario ed i loro possedimenti in Campania.
Nel 507 a.C. il re Lars Porsenna di Chiusi approfittò della debolezza che gli stravolgimenti politici avevano provocato nell'esercito romano per attaccare Roma e costringerla a cedere tutti i territori sulla riva destra del Tevere, nonchè ad accettare svantaggiosissime condizioni di pace.
L'esercito etrusco continuò la sua avanzata nel Lazio ma fu fermato ad Aricia da contingenti greci venuti da Cuma in aiuto dei Latini. In quel periodo la nazione ellenica era impegnata nelle guerre persiane e Cartagine, coinvolgendo gli alleati etruschi, si associò alla politica persiana. Mentre Serse attaccava la Grecia i Cartaginesi attaccarono la Sicilia ma, come dice Mommsen "la vittoria arrise agli Elleni".
Nel 480 a.C. con la vittoria di Salamina l'Ellade propriamente detta fu salvata dall'attacco persiano mentre i signori di Siracusa ed Agrigento, Gelone e Terone, battevano ad Imera l'immenso esercito del cartaginese Amilcare, figlio di Magone.
Anassilao, signore di Reggio aveva interdetto nel 482 a.C. lo stretto ai corsari etruschi tramite una flotta permanente. I Cumani e Gerone di Siracusa nel 474 a.C. sconfissero gli Etruschi presso Cuma nonostante gli aiuti cartaginesi.
I Cartaginesi e gli Etruschi persero il dominio del Mediterraneo che passò ai Siracusani ad occidente ed alla nascente potenza di Taranto nell'Adriatico. Gerone aveva occupato (Ischia) interrompendo la comunicazione fra Etruschi e Campania.
Nel 452 a.C. per distruggere la pirateria etrusca i Siracusani misero a sacco la Corsica, devastarono la costa etrusca ed occuparono l'isola Aethalia (Elba).
Stando agli annalisti romani in quel periodo si svolse una lunga guerra fra Roma e Veio (482 a.C. - 474 a.C.) durante la quale i Romani subirono gravi sconfitte (fra le quali la strage dei Fabii sul Cremera nel 477 a.C.). Tuttavia l'armistizio di quattrocento mesi che seguì favorì i Romani ripristinando la situazione territoriale del tempo dei re.
Poco dopo la Campania fu invasa dai Sanniti che nel 424 a.C. conquistarono Capua, capitale della colonia meridionale degli Etruschi ponendo fine alla presenza etrusca in Campania.
Intanto da Nord cominciarono ad arrivare i Celti. Mommsen fornisce una breve descrizione dei caratteri dei Celti: li definisce privi delle qualità necessarie per sviluppare una forma avanzata di civiltà, abilissimi nelle armi disprezzavano l'agricoltura vivendo in tempi di pace prevalentemente di pastorizia. Condussero esistenza vagabonda, li si trovava in tutta Europa senza che in alcun luogo creassero una vera e propria cultura.
Anche i Celti risalivano alla matrice indoeuropea e la loro penetrazione in Europa li spinse a stabilirsi soprattutto nell'odierna Francia.
Dalla Francia ed in genere dalle regioni a nord delle Alpi i Celti cominciarono a penetrare in Italia e nella Selva Nera.
Il Re Ambiato inviò due orde, comandate dai suoi nipoti Segoveso e Belloveso.
Segoveso, varcato il Reno dedusse una colonia gallica sul medio Danubio, Belloveso valicate le Alpi Graie, discese nella valle del Po, fondando la colonia degli Insubri con capitale Mediolanum. Poco dopo un'altra ondata avrebbe fondato la gente dei Cenomani con le città di Brixia (Brescia) e Verona.
Le ondate celtiche continuarono a penetrare in Italia togliendo via via agli Etruschi ed agli Umbri tutta la Val Padana, quindi i Boi penetrarono in Romagna e conquistata Felsina la chiamarono Bononia facendone la propria capitale. Infine i Senoni discesero fino ad Ancona e forse penetrarono in Umbria.
Dopo queste invasioni gli Etruschi si trovarono circoscritti, verso la metà del quarto secolo nel territorio che poi conservò il nome di Etruria.
Mentre la nazione etrusca versava in difficoltà sempre più gravi, scadeva (445 a.C.) l'armistizio fra Roma e Veio e riprendevano gli scontri di confine, tuttavia gli Etruschi erano ancora troppo potenti per i Romani e solo quando i Fidenati cacciarono la guarnigione romana e si sottomisero ai Veienti scoppiò una vera guerra.
Il re di Veio Lars Tolumnio cadde in battaglia per mano del console Aulio Aurelio Cosso (428 a.C.) e nel 425 a.C. Fidene fu espugnata, seguì un nuovo armistizio di duecento mesi durante il quale gli Etruschi subirono altre invasioni da nord ad opera dei Celti. Nel 408 a.C., scaduto il nuovo armistizio, i Romani attaccarono nuovamente Veio con l'aiuto dei Latini e degli Ernici. Veio non fu assistita dagli altri Etruschi, forse per discordie interne, tuttavia riuscì a resistere all'assedio fino al 396 a.C., quando fu espugnata da Marco Furio Camillo.
Fu la prima vera conquista romana, la prima volta che l'esercito romano rimase in armi estate ed inverno e che lo Stato accollò il soldo militare all'erario pubblico.
Veio fu distrutta e le sue alleate Falerii e Capena si arresero. Volsinii che era rimasta neutrale si armò contro Roma ma nel 391 a.C. si arrese.
Nel frattempo i Celti avevano proseguito la loro avanzata fino ad assediare Chiusi. La situazione etrusca era così grave che Chiusi dovette chiedere aiuto ai Romani nonostante la guerra con Veio e l'ovvia conseguente inimicizia.
La prospettiva di condurre una guerra fino ai confini settentrionali dell'Etruria era troppo impegnativa per la Roma di allora ed il senato decise di mantenersi neutrale, tuttavia gli ambasciatori inviati a Chiusi comportandosi con poca avvedutezza provocarono degli incidenti diplomatici partecipando ad un combattimento. I Galli chiesero riparazione e visto il rifiuto romano il re Brenno mosse contro Roma. IL 18 Luglio del 390 a.C., i Galli di Brenno si scontrarono con un esercito romano sul fiume Allia a tre miglia da Roma, ma sottovalutando il nemico la difesa romana non era stata adeguatamente preparata e non seppe resistere all'impeto delle orde celtiche. Tre giorni dopo i Galli entrarono a Roma senza incontrare ulteriore resistenza.
I Romani validi alle armi si asserragliarono nella rocca del Campidoglio dove furono assediati per sette mesi dai Celti che avevano intanto saccheggiato ed incendiato il resto della città. L'assedio fu difficile anche per i Celti che avevano difficoltà a procurarsi vettovaglie per la resistenza delle città vicine e quando giunse notizia di un'invasione da parte dei Veneti del territorio dei Senoni, gli assedianti decisero di accettare un riscatto in oro ed abbandonare il campo.
Dopo l'assedio una tradizione posteriore pretende che l'oro del riscatto fosse riportato a Roma da Camillo.
I fuggiaschi romani che avevano riparato nelle campagne circostanti cominciarono a riunirsi ed in qualche tempo la città fu ricostruita.
Mommsen diminuisce l'importanza storica del sacco di Roma considerandola più una "catastrofe naturale" che non un evento politico, la situazione nel suo complesso non fu infatti mutata.
Successivamente i Galli tornarono più volte nel Lazio:
nel 367 a.C. furono sconfitti da Camillo presso Alba.
nel 361 a.C. fronteggiarono sull'Aniene il campo del console Tito Quinzio Peno ma proseguirono verso la Campania senza combattere.
Nel 360 a.C. il dittatore Quinto Servilio Aala combattè con loro a Porta Collina.
Nel 358 a.C. furono ancora sconfitti dal dittatore Gaio Sulpicio Petico.
Nel 350 a.C. si accamparono sul monte Albano e furono cacciati da Lucio Furio Camillo.
Terminate le invasioni barbariche i Romani si volsero alla conquista dell'Etruria.
Nel 351 a.C. Cere divenne un comune privo di autonomia, amministrato da un prefetto romano.
Nel 343 a.C. Falerii si staccò dalla lega etrusca per sottoscrivere una perpetua alleanza con Roma e così tutta l'Etruria meridionale diveniva dominio romano, mentre Tarquinia e l'Etruria settentrionale si legarono (nel 351 a.C.) con un trattato di pace della durata di quattrocento mesi.
Verso la metà del quarto secolo le calate dei barbari in Italia cessarono sia per la resistenza incontrata, sia per cambiamenti nella situazione dei Celti di cui non abbiamo notizie e la situazione dell'Italia Settentrionale si stabilizzò .
- gli Umbri nelle valli degli Appennini.
- i Veneti nella parte Nord Est della Valle Padana.
- ad Ovest, estendendosi fino a Pisa ed Arezzo, i Liguri.
- nella pianura mediana i Galli: a Nord del Po Insubri e Cenomani, a Sud i Boi.
- sulla costa adriatica da Rimini ad Ancona i Senoni.
In questi territori rimasero delle colonie etrusche isolate come Mantova ed Adria.
I Celti in Italia cessarono la vita guerresca ed acquisirono vari elementi dalla civiltà etrusca.
Quanto agli Etruschi la loro nazione così ridimensionata entrò in una rapida decadenza durante la quale i dissidi sociali interni fra le masse sempre più povere e l'aristocrazia egemone dettero il colpo di grazia alla loro civiltà. Città come Arezzo e Volsinii, divenute ingovernabili finirono col chiedere l'intervento romano e perdere l'indipendenza.

Libro II - Capitolo V - Sottomissione dei Latini e dei Campani alla signoria di Roma.

L'egemonia di Roma sul Lazio creatasi dopo l'epoca della monarchia fu inizialmente basata sulla parità di diritti fra Roma e le città della Lega Latina. In caso di guerra contro stati stranieri Roma e la confederazione contribuivano con pari forze e dividevano l'eventuale bottino in parti uguali.
Durante l'età repubblicana, tuttavia, questi rapporti andavano mutando a favore di Roma: il comando supremo toccava sempre a un generale romano e i confederati persero progressivamente il diritto di fare guerre o trattati in autonomia.
Furono però sempre rispettati i patti riguardanti i diritti dei cittadini di un comune confederato negli altri comuni membri della Lega. Il cittadino di un comune poteva liberamente decidere di stabilirsi in un altro godendovi tutti i diritti pubblici e privati ed assumendosi tutti gli obblighi relativi.
I comuni confederati adottarono costituzioni basate sul modello romano dell'autorità collegiale, secondo Mommsen ciò avvenne per pressione della nobiltà romana, pressione che risultò più forte della resistenza dei Tarquini e delle varie famiglie regali locali.
La supremazia che Roma acquistò nel tempo fu agevolata dalla minaccia etrusca e garantì una maggiore stabilità alla confederazione latina.
Nel primo periodo repubblicano rapporti e scontri fra Romani e Sabini nel Lazio furono relativamente rari, forse perché i Sabini erano attirati da territori più meridionali. Più intensa fu la conflittualità con gli Equi stanziati ad est (valli del Turano e del Salto) e con i Volsci a sud (costa da Sora al fiume Liri).
La prima preoccupazione dei Romani fu quella di dividere Equi e Volsci interferendo nelle comunicazioni. Agli inizi del quinto secolo i Latini condivisero con i Volsci territori prossimi alle Paludi Pontine fondando colonie quali Velitre, Norba, Signia, Suessa.
Nel 486 a.C. gli Ernici furono ammessi nella lega romano-latina rafforzando i confini territoriali sudorientali. Ciò isolò i Volsci, gli Equi e i Rutuli, ma furono i Volsci ad opporre maggiore resistenza.
I Romani occuparono Anzio nel 467 a.C. ma la città si liberò nel 459 per essere riconquistata soltanto nel 377 a.C. Fu negli anni fra il 385 a.C. e il 381 a.C. che Roma riuscì a colonizzare stabilmente il territorio dei Volsci che furono definitivamente sottomessi.
Intanto si acuivano i dissensi interni della confederazione, a volta a causa degli abusi dei Romani come quando nel 442 a.C. intervenendo in contese interne della città di Ardea, i Romani espropriarono i terreni dei cittadini a loro contrari.
Quando Roma fu indebolita dall'invasione dei Celti la coesione della lega crollò e fu la guerra fra i confederati. Roma sottomise Lanuvio nel 383 a.C., Preneste nel 382, Tuscolo nel 381 a.C., Tibur nel 354.
Nel 381 a.C. l'intera popolazione di Tusculum fu inglobata nella Repubblica Romana come cittadini senza diritto di voto.
La guerra fra Romani ed Ernici durò dal 396 a.C. al 358 a.C. e fu vinta dai Romani. Nel 384 a.C. le città confederate chiusero l'annessione di nuovi comuni e la lega rimase definitivamente composta da quarantasette membri dei quali solo trenta avevano diritto al voto. Fra gli effetti di questo provvedimento fu la stabilizzazione dei confini del Lazio che da allora cessarono di estendersi con l'ammissione di nuovi federati.
In quest'epoca si verificò un'ulteriore riforma delle costituzioni dei comuni latini che furono totalmente parificate al modello romano. In tutte le città furono istituiti uffici di polizia urbana subito dopo l'istituzione dell'edilità curule in Roma. Divenuta più forte per le vittorie su Veio e sui territori pontini, alla metà del IV secolo Roma raggiunse l'egemonia sulla Lega Latina anche grazie al trattato che firmò con Cartagine.
I Cartaginesi, infatti, si impegnarono a rispettare i comuni membri della Lega ma quel comune che si fosse separato dalla confederazione non avrebbe più goduto di tale protezione.
Questa situazione esasperava le città latine e la crisi maturò proprio quando i Romani, dopo aver debellato i Volsci ed essersi impadroniti rapidamente di Priverno e Sora giunsero al confine del territorio dei Sanniti.
Da un'originaria regione relativamente ristretta fra Apulia e Campania, i Sanniti avevano esteso il proprio dominio verso sud e verso il Tirreno e approfittando della crisi di Etruschi e Greci avevano conquistato Capua e Cuma.
Le colonie greche cercarono di opporre resistenza congiunta all'espansione di Sanniti, Lucani e Bruzi ma quando a questi Italici si alleò Dionisio il Vecchio tiranno di Siracusa, la Magna Grecia perse rapidamente il dominio del mare e molte delle sue città vennero distrutte. Sopravvissero Napoli e Taranto, la prima grazie alla diplomazia, la seconda con la resistenza militare.
In pratica quando Roma sconfisse Veio, i Sanniti possedevano l'Italia Meridionale con poche eccezioni. Il territorio dei Sanniti era dunque più esteso di quello dei Romani quando le due potenze si scontrarono, ma secondo Mommsen la romanizzazione del territorio conquistato e la concentrazione del potere nel grande nucleo urbano centrale conferivano a Roma una potenza superiore a quella dei Sanniti.
La presenza, tollerata e spesso gradita, di genti elleniche all'interno della nazione sannitica creò una situazione sociale e politica ben diversa da quella originaria delle genti italiche. Capua, pur divenendo una delle più importanti città dell'epoca, assunse a detta degli autori antichi tutti i connotati di una civiltà traviata e decadente (fu a Capua che nacque la lotta dei gladiatori) mentre il nerbo della gioventù campana militarmente abile preferiva spostarsi in Sicilia in cerca di ingaggi mercenari.
Soltanto il nucleo originale dei Sanniti abitatori delle montagne rimase immune all'influenza greca. Questi Sanniti compivano continue incursioni ai danni dei loro compatrioti delle pianure, tanto che nel 343 gli abitanti di Capua chiesero aiuto ai Romani. I Romani rifiutarono e i Capuani offrirono la spontanea sottomissione, convincendo il senato ad accettare.
In circostanze non chiare si giunse ad un accordo fra Sanniti e Romani, ma proprio allora le città latine si ribellarono e si armarono contro Roma. I Capuani colsero l'occasione per annullare la sottomissione e si schierarono con i Latini.
Nel 340 a.C. il console Tito Manlio Imperioso Torquato sconfisse Latini e Campani presso Trifano.
La Lega venne sciolta e i singoli comuni latini firmarono trattati con i Romani mantenendo l'autonomia mentre Anzio e Terracina venivano occupate da coloni romani. Lanuvio, Aricia, Nomento e Pedo divennero comuni romani con limitata amministrazione autonoma. Velitre fu privata delle mura e del senato.
L'intera Campania passò sotto il dominio romano e a Capua fu introdotta una nuova costituzione e la città venne governata da magistrati romani con mandato annuale.
L'ultima battaglia in questa regione fu combattuta nel 329 a.C. contro i cittadini di Priverno comandati da Vitruvio Vacco che, sconfitto e catturato, fu giustiziato a Roma.
Le colonie di Cales e Fregelle furono fondate rispettivamente nel 334 a.C. e 328 a.C. e divennero rapidamente molto forti. I Sanniti della montagna assistettero alla rapida conquista romana della Campania senza riuscire ad opporsi efficacemente, probabilmente a causa della loro scarsa organizzazione.

Libro II - Capitolo VI - Gli Italici contro Roma

Minacciata da Messapi e Lucani la colonia di Taranto fece ricorso a mercenari greci. Nel 338 a.C. il re spartano Archidamo accorso in aiuto di Taranto morì combattendo contro i Lucani. Prese il suo posto Alessandro il Molosso (fratello di Olimpiade madre di Alessandro Magno) che conquistò Cosenza, sede della lega sabellica, vinse i Lucani e i Sanniti a Preneste, i Dauni a Siponto, ma le sue mire e i suoi successi preoccuparono i suoi committenti e presto i Tarentini si trovarono a combattere contro il loro capitano di ventura che in un primo momento conseguì alcune vittorie e tentò di unire i Greci residenti in Italia contro Taranto ma nel 332 a.C. venne ucciso da un lucano.
Con la sua morte i Sanniti poterono rivolgersi nuovamente alla conquista della Campania e del Lazio ma dovettero rendersi contro che mentre combattevano contro i Greci i Romani avevano quasi completamente sottomesso quelle regioni.
Quella sannita era la seconda potenza in Italia ma per contrastare i Romani avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di altre nazioni, come i Lucani e i Tarentini ma questo aiuto non venne perché quei popoli non riuscirono a superare le loro inimicizie per schierarsi contro il comune nemico, quindi i Sanniti dovettero far affidamento solo su alleati minori come i Frentani o i Marrucini.
Le violazioni dei Romani nel territorio del Liri esasperavano i loro rapporti con il Sannio e quando fu chiaro che Roma oltre Capua e Cuma intendeva impadronirsi anche di Neapolis i Sanniti vi posero un presidio.
Nel 327 a.C. i Romani assediarono Napoli ma l'anno successivo conclusero un trattato con gli abitanti di quella città offrendo accortamente condizioni tanto interessanti che anche Nola, Nocera, Ercolano e Pompei, già alleate dei Sanniti, passarono dalla loro parte.
In Lucania invece i Romani seppero sfruttare la tradizionale inimicizia con i Tarentini per ottenere nuove alleanze. Quando nel 326 a.C. si iniziò a combattere i Sanniti erano completamente isolati e i Romani riuscirono a conquistare alcune località dei loro territori.
Negli anni successivi i Romani conseguirono vari successi e nel 322 i Sanniti chiesero la pace consegnando il cadavere di Brutolo Papio, capo del partito antiromano che si era suicidato quando i suoi connazionali avevano deciso di arrendersi.
I Romani non accettarono la trattativa e i Sanniti ripresero le armi affidando il comando a Gavio Ponzio. Nel 321 giunse notizia che i Sanniti avevano assediato Lucera ma si trattava di uno stratagemma che attirò l'esercito dei consoli Spurio Postumio e Tito Veturio in un'imboscata nelle gole di Caudium.
I comandanti romani furono costretti ad offrire la capitolazione e furono fatti prigionieri con l'intero esercito. Gavio Ponzio, probabilmente per la pressione del partito sannita contrario alla guerra, non approfittò della vittoria per tentare la conquista della Campania e del Lazio ma si accontentò di firmare un trattato di pace a condizioni moderate dopo aver umiliato i nemici con il passaggio sotto le forche.
L'esercito fu liberato ma il senato non ratificò il trattato e non rispettò le condizioni accettate con giuramento dai consoli. Mommsen giudica questa decisione legittima sia sul piano formale (i consoli non avevano il potere di concludere un simile accordo) sia su quello morale in quanto non si poteva umiliare l'intera Repubblica per rispettare le promesse estorte ai comandanti sotto la minaccia di distruggere l'esercito.
I due consoli furono consegnati ai Sanniti che non li accettarono e che generosamente risparmiarono anche i seicento ostaggi romani lasciati a garanzia del rispetto delle condizioni.
Nel 320 i Sanniti, ripresa la guerra, si impadronirono di Lucera e Fregelle mentre i Romani si riorganizzavano affidando il comando supremo a Lucio Papirio Cursore.
Nel 319 a.C. Papirio riprese Lucera, liberò gli ostaggi e ricambiò l'umiliazione delle forche.
Nei due anni successivi il fronte si spostò dal Sannio in Campania e i Romani punirono i Satricani, i Frentani e quanti avevano aiutato i nemici.
Nel 316 a.C., tuttavia, Nocera, Nola e Sora passarono ai Sanniti mentre gli Ausoni minacciavano di ribellarsi a Roma.
Nel 314 a.C. i Romani ripresero Sora, punirono gli Ausoni e sconfissero l'esercito sannita a Capua e a Boviano capitale del Sannio, recuperarono l'alleanza con Nola e riconquistarono Fregelle.
Da quel momento al 312 a.C. i Romani consolidarono il loro dominio su Apulia e Campania e lo protessero con nuove fortezze a Lucera, Ponza, Saticula, Interamnia presso Montecassino e Suessa Aurunca (Sessa).
Mentre i Sanniti si trovavano ad essere l'unico ostacolo fra Roma e la conquista dell'intera Italia, i Tarentini che rappresentavano i loro potenziali alleati più forti e più vicini, preferirono distrarre le proprie risorse per sostenere le città siciliane contro Agatocle di Siracusa.
Più attivi furono gli Etruschi che attaccarono i confini settentrionali del territorio romano e combatterono fino al 310 a.C. quando furono sconfitti dal console Quinto Fabio Rulliano. Questi penetrò in territorio etrusco scatenando un intervento bellico di più vasta portata con operazioni non autorizzate dal senato, tuttavia riuscì a volgere la situazione in favore dei Romani con alcune vittorie che indussero Perugia, Cortona, Arezzo e Tarquinia a sottoscrivere trattati di pace e l'Etruria in generale depose le armi.
Nel 305 a.C. i consoli Tito Minucio e Lucio Postumio penetrarono nel Sannio, espugnarono Boviano e fecero prigioniero il generale sannita Stazio Gellio. Ebbe così fine una guerra durata ventidue anni, i Sanniti chiesero la pace insieme a Marsi, Marrucini, Peligni, Frentani, Vestini e Piceni.
Prima della pace i Tarentini avevano assoldato il principe spartano Cleonimo per combattere contro i Lucani. Cleonimo riunì un forte esercito di Greci, Messapi e Tarentini e costrinse i Lucani alla pace ma evitò di intervenire a sostegno dei Sanniti e quando i Romani penetrarono nel Salento abbandonò l'Italia Meridionale. Nel 303 a.C. tornò nel Salento con intenzioni di conquista ma gli abitanti lo respinsero con l'aiuto dei Romani.
I Tarentini, privati del loro condottiero, cercarono la pace e sottoscrissero con Roma un accordo a condizioni accettabili.
Ormai padrona delle regioni meridionali, Roma si dedicò a completare la conquista dell'Italia centrale. Nel 304 a.C. il console Publio Sempronio Sofo debellò gli Equi e negli anni seguenti furono installate nuove fortezze sul lago del Fucino e sul Turano.
Gli Ernici di Anagni subirono la privazione dell'autonomia, Arpino e Frusino furono soggiogate e private di parte del territorio, Soro fu trasformata in fortezza latina.
Si costruirono nuove strade militari fra cui quella che più tardi sarebbe stata la Via Flaminia, da Roma a Nequino ribattezzata Narni, e la futura via Valeria fino al lago Fucino.
Dopo cinque anni di pace, nel 298 a.C., i Sanniti tentarono di riconquistare la libertà riprendendo le armi.
Prima di attaccare Roma i Sanniti intervennero con tutte le loro forze in Lucania per portare al potere un partito a loro favorevole e con questo stringere un'affidabile alleanza.
Roma reagì con una dichiarazione di guerra e mentre una parte del suo esercito era impegnato in Etruria, mandò altre truppe in Lucania.
L'anno seguente gli Etruschi intrapresero trattative di pace e tutto l'esercito fu rivolto verso il Sannio al comando dei due consoli, Rulliano che vinse a Triferno e Publio Decio Mure che vinse a Malavento.
Per scongiurare un'alleanza fra Etruschi e Romani il comandante sannita Ignazio Gellio offrì aiuti all'Etruria e nel 296 a.C. guidò personalmente un esercito in Etruria attraversando i territori di Marsi e Umbri. I Romani, pur prendendo alcune località nel Sannio ed indebolendo i nemici in Lucania, non riuscirono a fermare Ignazio Gellio e videro riunirsi gli avversari che tanto si erano sforzati di separare.
Nel 295 a.C. Rulliano e Decio Mure riunirono almeno sessantamila uomini per intervenire in Umbria dove si erano concentrati i nemici. I Romani subirono una sconfitta presso Chiusi ma gli Etruschi si ritirarono quando videro minacciato il loro paese e i Sanniti furono soli ad affrontare i consoli a Sentino.
I Romani conobbero grosse difficoltà durante la battaglia ma l'esempio di Decio Mure che sacrificò la propria vita agli dei inferi servì a dare vigore alle legioni e all'arrivo della cavalleria di riserva comandata da Lucio Scipione i Sanniti furono sconfitti e Ignazio Gellio cadde sul campo.
I Sanniti si ritirarono nel loro paese liberando anche la Campania e l'anno seguente (294 a.C.) gli Etruschi chiesero la pace.
I Sanniti, tuttavia, non gettarono le armi e quando i Romani penetrarono nel Sannio incontrarono un'eroica resistenza che continuò anche dopo le vittorie di Lucio Papirio Cursore figlio e di Spurio Carvilio presso Aquilonia (293) e dell'anziano Fabio Rulliano (292 a.C.).
Ancora una volta i Sanniti avranno sperato nell'aiuto dei Tarentini ma questi, preoccupati per l'espansionismo di Agatocle di Siracusa, evitarono di intervenire.
Nel 290 i Sanniti, ormai stremati dalla lunga guerra, conclusero con il console Manio Curio Dentato una pace a condizioni dignitose. Lo stesso console in quell'anno sottomise i Sabini il cui territorio fu in parte distribuito a cittadini romani.
A questo punto Roma cominciò ad estendere il proprio dominio oltre l'Appennino fondando la colonia di Venosa nel 291 a.C. e la fortezza di Hatria (Adria) nel 289 a.C.. La Via Appia venne prolungata da Capua a Venosa.


Libro II - Capitolo VII - Pirro contro Roma e l'unificazione di Italia

Se Alessandro Magno non fosse morto di febbre nel 323 a.C. avrebbe forse rivolto la sua attenzione all'occidente, si sarebbe dedicato a difendere i Greci in Italia contro Romani e Cartaginesi e gli eventi storici avrebbero forse seguito un corso del tutto differente.
Ma Alessandro morì e nell'epoca dei diadochi che seguì i rapporti fra l'Ellade e Roma furono limitati e sostanzialmente di natura commerciale.
Pirro re dell'Epiro era un condottiero di ventura ma concepì un progetto di conquista simile a quello di Alessandro e rivolto ad occidente. Il suo progetto era forse quello di unificare il Mediterraneo sotto un grande stato greco che avrebbe avuto il proprio centro in Epiro ma, osserva Mommsen, i presupposti delle imprese di Pirro erano molto diversi da quelli con cui Alessandro superò l'Ellesponto.
Alessandro poteva contare su un grande esercito ben organizzato e lasciare la patria al sicuro delegando ad Antipatro il potere che deteneva per diritto dinastico, mentre Pirro partì per l'Italia con una modesta schiera di mercenari e non come conquistatore, ma mercenario egli stesso, al soldo di una confederazione di mediocri committenti.
A prescindere dalle caratteristiche della personalità dell'avventuriero, l'importanza storica di Pirro sta nel fatto che la sua campagna in Italia fu il primo scontro (e il primo confronto) fra l'Ellade e Roma, la prima volta che le tattiche militari greche e un sistema politico basato su una monarchia militare di stampo orientale venivano a scontrarsi con le capacità belliche e con l'assetto politico senatoriale dei Romani.
A soccombere, si sa, alla fine furono i Greci ma fu proprio dopo questo scontro che le due culture presero a fondersi creando le fondamenta della moderna civiltà occidentale.
Eacide padre di Pirro era signore dei Molossi, risparmiato da Alessandro per legami di parentela, venne ucciso durante le lotte di successione e Pirro fu allevato da Glaucia signore dei Taulanti.
Nel 307 a.C. riebbe il principato del padre grazie a Demetrio Poliorcete, ma lo perse di nuovo nel 302 ad opera dei suoi oppositori politici.
Da allora si dedicò alla carriera militare combattendo soprattutto per Antigono, vecchio generale di Alessandro.
Nella battaglia presso Isso fu preso in ostaggio e recato ad Alessandria presso Tolomeo il quale, per contrastare Demetrio Poliorcete e contenere le sue mire sulla Macedonia, gli fece sposare la figliastra Antigone e lo reintegrò nel regno epirota (296 a.C.) Pirro seppe ampliare i suoi domini annettendo all'Epiro Ambracia, l'isola di Corcira e alcuni territori macedoni e alla morte di Demetrio gli fu offerta la corona di Macedonia.
A favore di Pirro giocavano la sua fama di stratega, la sua integrità personale e la sua partentela con la famiglia di Alessandro ma contro di lui era il tradizionale nazionalismo macedone che da sempre avversava gli stranieri, infatti Pirro rinunciò dopo soli sette mesi e tornò in Epiro.
Ma l'Epiro era poca cosa per le ambizioni di Pirro che, accantonato ogni progetto sulla Macedonia, decise di tentare la costruzione di una nuova signoria in Italia.
Intanto in Puglia la città di Turi chiedeva aiuto a Roma contro Lucani e Bruzi, il senato accettò la richiesta ed intimò ai Lucani e Bruzi di non molestare Turi ma quelli reagirono avviando la formazione di una lega antiromana e imprigionando gli ambasciatori del senato. Anche gli Etruschi e i Senoni aderirono alla lega seguiti poco dopo da Umbri e Sanniti.
Il console Publio Cornelio Dolabella penetrò nel territorio dei Senoni nel 283 con un'azione tanto violenta che "questa tribù fu cancellata dalla lista delle nazioni italiche". I Senoni superstiti insieme agli Etruschi e ai Boi tentarono di attaccare direttamente Roma ma il loro esercito fu sconfitto presso il lago Vadimone nel 283 e presso Populonia nel 282. I Boi conclusero con i Romani una pace separata.
Risolti i problemi sul fronte settentrionale, i Romani concentrarono la propria azione nel meridione e nel 282 il console Caio Fabricio Luscino liberò Turi sconfiggendo i Lucani e catturando il loro capo Stenio Statilio.
I Romani fondarono la colonia di Senigallia sull'Adriatico nel territorio tolto ai Senoni, ma quando la loro flotta inviata a presidiare l'Adriatico entrò nel porto di Taranto violando antichi trattati, i Tarentini insorsero ed aggredirono le navi facendo molte vittime, poco dopo attaccarono Turi e massacrarono la guarnigione romana.
I Romani, che erano interessati a mantenere la neutralità di Taranto, non reagirono con la durezza che avrebbero certamente usato in altre circostanze e offrirono ai Tarentini di evitare la guerra in cambio della liberazione di Turi e della restituzione dei prigionieri. Gli ambasciatori romani ricevettero un rifiuto e il console Lucio Emilio ripropose la pace ai Tarentini ma dopo essere entrato con l'esercito nel loro territorio.
I Tarentini si trovarono a scegliere fra Pirro e i Romani, in entrambi i casi avrebbero perso l'indipendenza ma preferirono darsi ad un padrone greco. Conclusero un trattato con Pirro che ebbe il supremo comando delle forze di Taranto e dei suoi alleati.
Nell'autunno del 281 a.C. tremila Epiroti comandati da Milone, generale di Pirro, occuparono la cittadella di Taranto. Pirro li raggiunse pochi mesi dopo con un esercito di venticinquemila uomini e con venti elefanti.
Il console, all'arrivo di Pirro, si ritirò prudentemente dal territorio di Taranto ma presto il re scoprì che le forze militari che la lega gli aveva promesso non esistevano, ordinò di reclutare truppe mercenarie a spese di Taranto e chiamò alle armi tutti i cittadini abili.
I Tarentini, che avevano sperato di non dover combattere, opposero resistenza e da allora Pirro li trattò come abitanti di una città occupata.
I Romani potenziarono con leve straordinarie il loro apparato bellico e mentre un grande esercito partiva verso sud per fronteggiare Pirro uno minore, comandato dal console Tiberio Coruncanio, penetrava in Etruria respingendo nuovi attacchi da nord.
In quei giorni la legione di stanza a Reggio, formata prevalentemente da soldati campani, si ribellò e si impadronì della città mentre oltre lo stretto i mercenari Mamertini occupavano Messina, ma questi ribelli non si accordarono con Pirro, rimasero isolati e saccheggiarono Crotone e altre colonie greche sulla costa.
Una parte delle truppe romane si portò ai confini lucani impedendo a Lucani e Sanniti di congiungersi con Pirro mentre quattro legioni comandate da Publio Levino marciavano contro l'Epirota.
La prima battaglia si svolse lungo il fiume Siri, fu un grande combattimento fra legioni e falangi il cui esito rimase a lungo incerto. Alla fine Pirro, sfruttando gli elefanti come elemento di sorpresa, riuscì a mettere in fuga il nemico conseguendo la vittoria a costo di moltissime vittime.
Il successo fruttò a Pirro la spontanea sottomissione di tutte le città greche della regione e la possibilità di unire finalmente il proprio esercito con quello degli Italici mentre i Romani perdevano la Lucania.
Pirro offrì la pace a Roma chiedendo la liberazione di tutte le città greche e la restituzione dei territori tolti a Sanniti, Dauni, Lucani e Bruzi.
Il suo ambasciatore Cinea, abile diplomatico, fu mandato a Roma con l'ordine di esternare al senato la stima e l'ammirazione da parte del re, ma il senato, incitato dal vecchio Appio Claudio Cieco, rispose che non avrebbe trattato finché truppe straniere si trovavano sul suolo italico.
Pirro penetrò in Campania ma i Romani avevano formato due nuove legioni con le quali il console Levino gli impedì di avvicinarsi a Capua o a Napoli. L'Epirota puntò verso Roma, prese Fregelle e raggiunse Anagni ma quando si rese conto che Levino lo seguiva con il suo esercito, Tiberio Coruncanio andava ad affrontarlo con altre forze e in Roma il dittatore Gneo Domizio Calvino apprestava la difesa con le riserve, decise di ritirarsi.
In Inverno Pirro si portò a Taranto e l'esercito romano si accampò nel Piceno, intanto gli Etruschi avevano concluso una pace separata con Roma diminuendo le risorse degli Italici.
Nella primavera 279 le ostilità ripresero in Apulia dove si scontravano due eserciti di settantamila uomini ciascuno.
Pirro aveva cambiato la sua tattica disponendo gli schieramenti in modo più simile a quello dei nemici, mentre i Romani si erano dotati di macchine da guerra per affrontare gli elefanti.
La prima giornata di battaglia si concluse a favore dei Romani ma il giorno successivo Pirro riuscì a respingere il nemico. La vittoria non fu decisiva perché i Romani subirono perdite relativamente contenute mentre Pirro, ferito, fu costretto a lasciare per qualche tempo il suo esercito privo della sua guida. Gli Epiroti si ritirarono di nuovo a Taranto.
Insoddisfatto delle sue vittorie che riconosceva non determinanti, Pirro pensò di liberarsi dell'impegno assunto con i confederati ma per rispetto al suo codice cavalleresco si limitò ad allontanarsi temporaneamente dall'Italia approfittando degli eventi occorsi in Sicilia dove la morte di Agatocle aveva lasciato i Greci dell'isola privi di una guida capace ed esposti alle mire dei Cartaginesi già da tempo padroni di una parte occidentale dell'isola.
Quando i Cartaginesi, approfittando delle lotte per la successione, attaccarono i Siracusani, questi si rivolsero a Pirro consegnandogli spontaneamente il potere. Questo fatto preoccupò Romani e Cartaginesi che conclusero un trattato di reciproca difesa contro l'Epirota.
Il generale cartaginese Magone raggiunse con la flotta lo stretto di Messina dove i Mamertini, che temevano di essere puniti da Pirro, si misero a sua disposizione. Subito dopo la flotta raggiunse Siracusa che fu assediata nel 278 a.C.
Caio Fabricio Luscino e Quinto Filippo Pepo, consoli di quell'anno, iniziavano intanto una nuova campagna. Pirro tentò ancora una volta senza successo di trattare con Roma quindi poiché la perdita di Siracusa avrebbe impedito la realizzazione dei suoi progetti, si sentì costretto ad abbandonare gli alleati italici per spostarsi in Sicilia.
Lasciando a Taranto Milone e a Locri il proprio figlio Alessandro, Pirro si imbarcò per Siracusa.
I Romani si sforzarono di riprendere subito il controllo dell'Italia Meridionale, ma l'obiettivo non fu immediatamente raggiungibile: si continuò a combattere nel Sannio e in Lucania e solo nel 277 a.C. il console Caio Fabricio riuscì a prendere Crotone; ma la conquista di Taranto era più difficile perché i Romani non erano preparati a combattere come assedianti e scarseggiavano di navi mentre i Cartaginesi erano troppo impegnati in Sicilia per poterli aiutare.
Intanto Pirro liberò Siracusa e cacciò i Cartaginesi da tutte le città greche in Sicilia. Violando il patto con Roma i Cartaginesi proposero a Pirro una pace separata ma Pirro respinse la richiesta e decise di dotarsi di una propria flotta.
Nell'estate del 276 a.C. Pirro controllava Taranto e la Sicilia, a Siracusa la sua flotta era pronta per salpare, tuttavia il suo governo militare ed autocratico gli alienò presto il consenso popolare e i Cartaginesi trovarono in Sicilia l'appoggio delle principali città.
Nel 276 a.C. Pirro ripartì per Taranto, forse perché il suo senso dell'onore gli imponeva di rispettare, sia pure tardivamente, gli impegni presi con gli alleati italici.
A Siracusa la sua flotta si scontrò con quella cartaginese perdendo molte navi, le città siciliane rifiutarono di fornire aiuti in uomini e finanze al governo di Pirro che in breve perse il regno che aveva costruite in Sicilia e vide sfumare i suoi progetti.
Giunto alle coste italiche, Pirro tentò di prendere Reggio ma venne respinto, riuscì a prendere Locri e rientrò a Taranto.
Nel 275 ingaggiò battaglia a Benevento con il console Manio Curio ma questa volta venne sconfitto e fu privato dai Romani di molti uomini, caduti o catturati, e delle sue riserve finanziarie tanto che con il bottino fu più tardi costruito un acquedotto.
Chiedendo e non ricevendo aiuti dalla Macedonia in quello stesso anno Pirro tornò in Grecia dove tentò con qualche successo di costruire un regno finché non cadde miseramente in combattimento ad Argo nel 272 a.C.
Dopo la sua morte il generale Milone, che fino a quel momento aveva difeso Taranto, cedette la città al console romano Lucio Papirio.
I Cartaginesi che stavano per assediare Taranto, vedendola in mano ai romani tornarono indietro e sostennero di essersi mossi soltanto per aiutare gli alleati in forza del trattato.
Taranto venne disarmata e privata delle mura; Lucani, Bruzi e Sanniti si arresero e a Reggio e Messina i Mamertini furono sconfitti e muniti con l'aiuto di Gerone nuovo signore di Siracusa.
Così nel 270 tutta l'Italia era sottomessa a Roma e pacificata con l'eccezione degli irriducibili Sanniti che continuarono per qualche tempo azioni di guerriglia.
Furono fondate nuove colonie a Pesto, Cosa, Benevento, Esernia, Arimino, Firmo, Brindisi. La strada militare fu prolungata fino a Taranto e Brindisi.
Se il potere romano sulla penisola era ben saldo, le cose in mare andavano diversamente perché Roma, pur continuando a mantenere una propria flotta, aveva necessariamente trascurato di agire sul Mediterraneo mentre era impegnata nelle conquiste terrestri, quindi la navigazione era in mano ai Greci di Sicilia e soprattutto ai Cartaginesi.
Nel 348 a.C. Roma e Cartagine conclusero un trattato che regolamentava i commerci marittimi. In forza di questo trattato e di uno analogo stipulato con Taranto, le navi romane venivano praticamente escluse dal Mediterraneo Orientale, situazione difficilmente accettabile per il senato romano che, una volta assicuratosi il controllo dell'Italia, si occupò di migliorare la posizione romana sul mare.
Le colonie di nuova fondazione permisero ai Romani di acquisire un efficace controllo delle coste, si passò quindi a potenziare la flotta.
Un primo nucleo di navi da guerra fu formato con quelle sequestrate ad Anzio e quelle fornite dalle città greche del meridione che ormai facevano parte della clientela romana, tuttavia un nuovo trattato con Cartagine risultò ancora più restrittivo per i Romani ai quali fu proibito il commercio marittimo lungo le coste atlantiche, in Africa e in Corsica.
Nel 267 a.C. furono istituiti quattro questori della flotta: il primo controllava il porto di Ostia, il secondo da Cales controllava la costa campana, il terzo a Rimini le coste adriatiche, non è noto il compito del quarto.
I rapporti con Cartagine si erano dimostrati instabili già durante la guerra con Pirro e Roma per conquistare la supremazia sul mare cercò l'alleanza degli stati greci. Già da tempo Roma era in amicizia con Massalia, Rodi e Apollonia. Partito Pirro si avvicinò anche a Siracusa.
L'Italia era unificata sotto le leggi romane ma non si conoscono nei dettagli le modalità con cui Roma esercitava il potere sui comuni sottomessi. Sappiamo che questi ultimi non potevano battere moneta, dichiarare guerra ad uno stato straniero o sottoscrivere trattati internazionali, mentre le decisioni militari e politiche del senato romano coinvolgevano implicitamente tutta la comunità italica e la moneta romana aveva corso nell'intera penisola.
Non tutti i sudditi godevano degli stessi diritti, ma erano divisi in tre classi. Coloro che abitavano la pianura pontina e i territori già degli Etruschi, Ernici e Volsci più prossimi a Roma erano considerati cittadini abitanti fuori città e godevano dei pieni diritti di cittadinanza. Analogo trattamento fu esteso nel tempo alle città sabine.
Nei comuni soggetti i cittadini erano privati soltanto del diritto di essere eletti e di quello di votare. La giustizia era amministrata da magistrati romani. Ad alcuni di questi comuni, come a Capua, venne lasciata autonomia amministrativa.
La classe più favorita era quella delle città latine alle quali fu concesso di ingrandire i propri territori con la fondazione delle "colonie latine". I loro cittadini erano parificati con i Romani nel godimento in usufrutto di parte dei domini pubblici e nel diritto di concorrere agli appalti statali.
Per i comuni non latini legati a Roma tramite leghe perpetue, le norme potevano essere molto variabili. Alcuni godevano di diritti paragonabili a quelli dei Latini, altri erano governati in modo più dispotico, specialmente quelli del Sannio.
Furono sciolte tutte le leghe esistenti fra le varie comunità alle quali Roma non partecipasse e furono proibiti i matrimoni fra appartenenti a comunità diverse. Tutti i comuni italici furono obbligati a conferire a Roma soldati o navi da guerra.
Faceva parte del metodo di governo di Roma il dividere i sudditi sciogliendo le loro alleanze e isolandoli in tante piccole comunità di poca importanza.
Nelle città la popolazione era divisa fra la plebe e una nobiltà che per proteggere i propri interessi doveva necessariamente adeguarsi alle norme romane. Il più chiaro esempio di questa situazione fu la nobiltà di Capua che godeva di grandi privilegi e per conservarli combattè a Sentino.
Nel complesso il senato si preoccupò di rendere duraturo il potere di Roma governando i comuni sottoposti con moderazione e concedendo loro la libera costituzione comunale e vari vantaggi concreti. Con lo stesso obiettivo Roma rinunciò ad imporre tributi e se tutti erano tenuti a contribuire alla difesa dello stato anche il popolo della città dominante era soggetto a quest'obbligo.
Con l'istituzione di magistrati con sede fuori Roma e del censimento venne via via a crearsi l'impianto di uno stato nazionale e, fra le genti italiche, cominciò a formarsi un sentimento di unità che si faceva evidente quando si trattava di difendersi da insidie esterne e in particolare dai Celti, mentre il latino diveniva rapidamente la lingua comune di tutto lo stato romano.


Libro II - Capitolo VIII - Diritto - Religione - Guerra - Economia popolare - Nazionalità


Nel primo periodo repubblicano fu introdotto un controllo dei costumi le le magistrature esercitavano multando chi contravveniva alle leggi dell'ordine.
La definizione delle violazioni era spesso vaga e l'importo della multo (inizialmente corrisposta in bestiame poi in denaro) non sempre era predeterminato e veniva lasciato all'arbitrio delle autorità.
I Romani potevano essere multati per abuso dei pascoli pubblici, per approvazione indebita di terreni del pubblico demanio, per usura ma anche per costumi licenziosi o troppo sontuosi.
In alcuni casi la pena, oltre alle sanzioni pecuniarie, comportava la perdita dei diritti politici e ciò permise spesso ai magistrati in carica di neutralizzare i rivali privandoli della possibilità di essere eletti.
Con la legge delle Dodici Tavole vennero introdotte molte innovazioni rispetto al più antico diritto romano dimostrando quella che l'Autore definisce "una tendenza più umana e moderna" riferendosi ad esempio al libero diritto di associazione, alle norme che mitigavano le pene per i ladri e per i debitori insolventi, alle leggi in materia di testamento, di autorità paterna e di matrimonio.
In materia giudiziaria la stessa introduzione di una legge scritta servì a limitare l'arbitrio dei giudici. Furono istituiti gli ufficiali di polizia o edili che nell'ambito della propria giurisdizione giudicavano in materia civile e commerciale e si pronunciavano come giudici di prima istanza sull'applicazione delle multe.
Tre magistrati di livello inferiore venivano detti "i tre uomini della notte o capitali" (Tres viri nocturni o Capitales) e si occupavano di sorveglianza notturna, di sicurezza e degli incendi.
Con la crescita del territorio vennero istituiti anche magistrati con sede distaccata per amministrare la giustizia nei comuni assoggettati.
Importanti cambiamenti furono apportati alle procedure giudiziarie rendendole più precise e codificando i limiti del potere dei magistrati.
Il tribunale popolare che in età monarchica si occupava solo di domande di grazia, divenne corte d'appello ed aveva il diritto di confermare o rigettare le sentenze dei magistrati.
La persona del cittadino era inviolabile in casa sua e l'arresto doveva essere eseguito all'esterno, si doveva evitare la detenzione preventiva.
Pur nella "crescente umanità" di queste norme, tuttavia, la procedura giudiziaria fu spesso disattesa per motivi politici o per la lentezza della sua applicazione specialmente quando si trattava di giudicare schiavi o non cittadini.
In campo religioso il romano conservò la tendenza a spiritualizzare ciò che è terreno, inoltre si cominciò a recepire l'influenza di religioni straniere e sorsero a Roma i primi templi dedicati a divinità dell'Ellade. Il primo fu il tempio dedicato ai Dioscuri dopo la battaglia del Lago Regillo: si sosteneva che Castore e Polluce fossero apparsi come combattenti nelle file romane, una leggenda di stampo chiaramente greco.
Nel 431 a.C. fu edificato un tempio ad Apollo che già da tempo riceveva offerte votive dai Romani nel santuario di Delfi.
Le istituzioni sacerdotali non subirono grandi cambiamenti ma aumentarono di numero in relazione alla proliferazione di nuovi dei da venerare e, nel tempo, accrebbero la loro influenza politica.
In questo periodo le legioni sostituirono gli antichi schieramenti greco-italici mentre la cavalleria fu disposta ai lati, spesso come funzione di riserva. Le prime due file delle legioni schierate furono munite del "pilo", un'arma da lancio in legno con punta di ferro. Lanciato il pilo al momento dell'attacco, si passava ad impugnare la spada. Diversamente dalla falange greca che rimaneva compatta, la legione durante lo scontro si divideva in due metà composte da tre divisioni ciascuna: astati, principi e triari le quali si ordinavano in più gruppi lasciando spazio ai combattimenti individuali.
Fra gli ufficiali si distinguevano quelli subalterni che dovevano guadagnare sul campo ogni avanzamento di grado, dai tribuni di guerra, sei per legione, che mantenevano sempre la stessa posizione e di solito appartenevano alle classi più elevate della cittadinanza.
Non cambiò la severissima disciplina che consentiva ai comandanti supremi di comminare pene corporali o condanne capitali ai militari di qualsiasi grado per crimini comuni, disobbedienza o comportamento vile in combattimento. Rispetto all'età più antica però si crearono scuole militari e i soldati furono addestrati più seriamente.
Mommsen individua tre principi nell'organizzazione romana che si rivelarono vincenti: le riserve (i veterani che venivano tenuti in serbo per l'ultimo urto decisivo), la combinazione fra il corpo a corpo e la battaglia a distanza (il lancio del pilo che precedeva l'uso della spada) e la combinazione tattica di offesa e difesa basata sul sistema di accampamenti fortificati che consentiva di scegliere se accettare o meno lo scontro e di combattere in ambiente protetto.
Non è certa l'epoca un cui l'esercito romano passò dal modella della falange greca alla legione manipolare. Secondo molte narrazioni l'autore dell'innovazione fu Marco Furio Camillo, ipotesi ragionevole secondo Mommsen perché il nuovo assetto di combattimento si prestava a smorzare l'impeto dell'attacco dei Galli.
Alla base dell'economia romana rimase l'agricoltura ma in questo periodo si verificò la tendenza a passare dalla tenuta di piccole dimensioni al latifondo.
Ancora in quest'epoca avvenne per gli Italici il passaggio dal sistema di scambio a quello monetario, basato su modelli greci, probabilmente al tempo dei Decemviri.
Inizialmente si usarono gli assi, monete fuse in rame di grandi dimensioni. Ogni comune poteva battere la propria moneta ma di fatto le monete in rame dell'Italia Centrale e Settentrionale erano divise in tre gruppi: quelle etrusco-umbre, quelle romane e quelle del litorale adriatico.
La somiglianza fra le varie monete inoltre dimostra l'esistenza di relazioni commerciali fra gli Etruschi e l'Attica, fra i Siculi e i Latini, fra la Magna Grecia e le coste adriatiche.
Si importavano ceramiche dall'Attica, da Corcira e dalla Sicilia. A Roma fiorivano piccole imprese artigianali generalmente gestite da schiavi e liberti ma poiché i loro introiti finivano in buona parte nelle casse dei padroni, cioè delle grandi famiglie nobiliari, non si sviluppò un ceto medio.
I proprietari delle industrie e delle imprese commerciali più importanti investivano nei latifondi e controllavano la finanza e i lavori su appalto statale.
La città cresceva e con essa il numero degli schiavi e quello dei liberti. Questi ultimi spesso venivano emancipati proprio perché i padroni trovavano più redditizio affidare a loro le attività artigianali partecipando ai proventi che gestirle in proprio tramite gli schiavi.
La città venne divisa in quattro distretti in ognuno dei quali un edile aveva il compito di presiedere alla manutenzione di strade e cloache, all'approvvigionamento dei mercati e alle funzioni di polizia urbana.
In architettura non si fece molto nei primi due secoli perché senatori e cittadini non gradivano edifici e templi sfarzosi. Fu Appio Claudio, censore nel 312 a.C. il primo a varare grandi lavori pubblici come la prima grande strada militare e il primo acquedotto di Roma.
Nel 271 Manio Curio Dentato fece costruire un canale per far defluire le acque del Velino nel fiume Nera nei pressi di Terni (Cascata delle Marmore) e nel 272 ordinò la costruzione di un secondo acquedotto. Queste opere così come i lavori per lastricare le strade e costruire edifici pubblici venivano in genere finanziati con bottini di guerra e con i proventi delle multe.
Nacque l'usanza di collocare sulla rocca e nel Foro statue dedicate a cittadini illustri, personaggi famosi, consoli trionfatori, filantropi, ecc.
Dal 269 a.C. i sistemi monetari italici furono unificati e tutti i comuni, con l'eccezione di Capua, adottarono una nuova moneta d'argento che si coniava solo a Roma.
Se in quel periodo la latinizzazione dell'Italia centro-meridionale procedeva inesorabilmente diffondendo lingua e costumi di Roma fra i popoli sottomessi, anche la cultura ellenica andava affermandosi in Italia, soprattutto in Apulia, più di quanto non avesse fatto nei secoli precedenti.
Dagli inizi del quarto secolo, con la conquista della Campania, l'influenza greca sulla cultura e sulla società romane crebbe rapidamente. Questo processo si riscontra in molti nuovi usi, come gli epitaffi funebri sulle sepolture, l'innalzare monumenti agli antenati da parte di privati, i rami di palma come trofei per i lottatori.
Già nel quinto secolo gli ambasciatori romani si esprimevano in greco e la lingua greca faceva parte degli studi di chi voleva intraprendere la carriera diplomatica.
La fondamentale differenza fra Greci e Romani era nell'individualismo, caratteristica principale dei primi del tutto assente nei secondi. Mommsen nota come dei singoli artefici di grandi eventi e cambiamenti di questo periodo spesso non sia rimasta traccia nella storia, come ogni cittadino fosse considerato semplicemente come tale mentre i tentativi di mettersi in evidenza con il lusso e l'ostentazione venivano puniti dai censori. Scrive Mommsen: La Roma di questo tempo non appartiene a nessun privato; tutti i cittadini devono essere uguali fra loro, affinché ciascuno sia uguale a un re.
Fa eccezione la figura di Appio Claudio, console nel 307 e 296 a.C., censore nel 312 a.C., pronipote del decemviri, autore di molte leggi fortemente innovative, costruttore di acquedotti e strade, innovatore della giurisprudenza e dell'eloquenza.
Per Mommsen Appio Claudio è l'anello di congiunzione fra la Roma dei Tarquini e quella dei Cesari, tuttavia non era il genio dell'individuo singolo che imperava in Roma e per mezzo di Roma sull'Italia ma il genio di un pensiero politico.


Libro II - Capitolo IX - Arte e scienza

Nei primi secoli della Repubblica la festa popolare di ringraziamento agli dei (ludi romani o massimi) che era già improntata al modello greco, crebbe di importanza e fu prolungata da uno a quattro giorni.
Al termine, dopo giochi, spettacoli e vari divertimenti, si correva la corsa delle bighe.
Dal 364 a.C. fu aggiunto al centro dell'ippodromo un palcoscenico in legno dove si esibivano suonatori, danzatori e mimi. Poco più avanti salirono sul palco anche i poeti di strada per pronunciare le loro composizioni in versi saturni accompagnati da un flauto.
Ai suoi inizi l'arte teatrale fu disprezzata dai Romani e le esibizioni satiriche venivano punite dalla Legge delle Dodici Tavole. Saltimbanchi, attori, cantanti e poeti erano considerati gente da evitare ed in genere non erano ammessi al voto.
Tutti gli spettacoli venivano controllati da funzionari di polizia che avevano l'autorità, in caso di mancato rispetto dei regolamenti, di comminare pene corporali per i teatranti ed infliggerle immediatamente.
I testi erano spesso improvvisati o tramandati oralmente, dei testi teatrali scritti abbiamo soltanto pochi versi.
Contemporaneamente a questi primordi della poesia nacque la storiografia romana, inizialmente basata sugli elenchi dei magistrati correnti e di quelli antichi, che si conservavano nel tempio di Giove Capitolino.
I Fasti erano l'elenco ufficiale dei magistrati ed erano aggiornati dai pontefici, ma risalivano fino al 390 a.C. a causa delle perdite dovute all'invasione dei Galli.
Poiché i periodi di vacanza delle cariche consolari nei tempi più antichi venivano considerati come anni interi, gli elenchi dei consoli di quel periodo non sono affidabili per le datazioni. I Fasti cominciano a coincidere con buona approssimazione al calendario dal 463 a.C.
Non soltanto Roma ma anche molti altri comuni avevano sacerdoti incaricati di redigere annali, ma gli storiografi antichi non ne tennero conto e spesso integrarono la lacunosa fonte romana con leggende e racconti tradizionali.
Un'altra fonte è costituita dagli alberi genealogici che le famiglie signorili dipingevano nel vestibolo corredandoli con notizie sui personaggi e sulle cariche da loro ricoperte.
Anche le orazioni funebri per personaggi illustri che sono state tramandate contengono notizie importanti ma anche molte falsificazioni.
Molti racconti relativi alla "preistoria" di Roma nacquero per spiegare usanze e istituzioni tradizionali oppure, come nel caso del racconto della fondazione, per dimostrare i legami fra Romani e Latini.
La leggenda di Romolo e Remo deve avere origini molto antiche se già nel 296 a.C. fu installato a Roma un gruppo marmoreo rappresentante la lupa che allattava i gemelli.
Pur non mancando di influenze greche, i racconti della fondazione di Roma sono per Mommsen di carattere nazionale.
Fu Stesicoro (632 - 553) il primo a parlare della venuta di Enea nel Mediterraneo dopo la distruzione di Troia. In particolare il poeta, nativo della Sicilia, intendeva stabilire una relazione fra la sua gente e gli eroi troiani.
Per Ellanico Enea fondò Roma dopo che le donne che erano con lui avevano bruciato le navi sulla costa laziale per porre fine all'interminabile viaggio. Aristotele cita una versione per cui da marinai achei fermatisi nel Lazio sarebbero discesi i Latini.
Con Timeo di Tauromenio, autore di Storie fino all'anno 262 a.C., il racconto assunse la forma canonica: Enea fondò Lavinio e più tardi Roma. Timeo inserì nel racconto anche la figura di Didone, attribuendole la fondazione di Cartagine.
Il più antico "libro romano" è il codice giuridico detto "Legge delle Dodici Tavole" compilato intorno al 450 a.C. Nella stessa epoca venivano registrati i senato-consulti e le decisioni dell'assemblea popolare. In parallelo cresceva la giurisprudenza. I sacerdoti venivano spesso consultati non solo in merito a questioni religiose o rituali ma anche su casi di diritto privato.
Intorno al 304 a.C. Appio Claudio pubblicò un primo codice procedurale raccogliendo questi pareri e le sentenze emesse.
Quanto alla lingua, i resti delle Dodici Tavole dimostrano che in questo periodo il latino era già sostanzialmente formato, nel quinto secolo la relazione fra scrittura e pronuncia si fece più precisa e la pronuncia stessa divenne più fine ed elegante per influsso della cultura greca.
Questi sviluppi in campo giuridico e in campo linguistico portarono ad una più ampia diffusione dell'istruzione elementare. Si studiava il latino ma spesso anche il greco, indispensabile per i politici e i commercianti. L'insegnamento era impartito da pedagoghi schiavi o da maestri privati.
I Decemviri tentarono una riforma del calendario adattando calcoli in uso nell'Attica ma per scrupoli religiosi non adottarono in giorno intercalare negli anni bisestili per non sopprimere la festa del dio Termine.
Più tardi nelle campagne italiche si cominciò ad usare il "calendario villereccio" computato da Eudosso sull'anno egiziano di trecentosessantacinque giorni e un quarto.
L'arte e l'architettura del quinto secolo mancavano di originalità ma la diffusa imitazione del modello greco dimostra quanto profonda fu l'influenza culturale dell'Ellade fra Italici ed Etruschi.
L'architettura nell'Etruria e nel Lazio non fece progressi nel quinto secolo, fu solo alla fine di quest'epoca, con l'introduzione dell'arco, che quest'arte conobbe la rinascita.
Non ci sono elementi per affermare che l'arco e la volta siano stati inventati in Italia, ma non si può negare la grande applicazione che ne fecero i Romani. Per affinità i Romani adottarono anche la forma rotonda dei templi e la cupola, elementi caratteristici soprattutto degli edifici di culto dedicati a divinità non greche come Vesta.
Le arti figurative si formarono prima in Etruria che nel Lazio, in particolare la scultura in argilla tipica dei templi etruschi. Molto precoci furono anche l'oreficeria e la fusione in bronzo, più recente la scultura in pietra.
Essenzialmente basati sui modelli greci erano i disegnatori e i pittori etruschi.
I Sabelli che rimasero nel loro territorio d'origine non svilupparono particolari espressioni artistiche, mentre quelli che si trasferirono sulle coste tirreniche o ioniche si appropriarono dell'arte ellenica.
Quanto ai Romani furono certamente debitori alla Campania dell'acquisizione dell'arte ellenica che raggiunsero appunto per il tramite di Capua e di altre colonie, ma citando opere come la Lupa Capitolina, il sarcofago del console Lucio Scipione e la statua colossale di Giove Capitolino ottenuta dalla fusione delle armi sannitiche, Mommsen riconosce che gli artefici latini raggiunsero una propria originalità.
Gli Etruschi, invece, una volta acquisiti i principi dell'arte greca, non furono in grado di evolverli e rimasero ad uno stadio primitivo. Ciò è molto più vero per l'Etruria settentrionale dove non si trovano tombe dipinte e dove tutta la cultura rimase molto più indietro.


Volume I - Tomo II

Dall'unione d'Italia sino alla sottomissione di Cartagine e degli Stati Greci


Libro III - Capitolo I - Cartagine

La striscia di litorale fra l'Asia Minore e l'Egitto chiamata Canaan (la pianura) era abitata da genti di stirpe semitica che gli Italici chiamavano Fenici o Punici.
Questo popolo sviluppò la propria attitudine alla navigazione e al commercio fin dai tempi più antichi raggiungendo tutti i porti del Mediterraneo e spingendosi fino alle coste atlantiche dell'Europa e ai mari del nord.
Rozzi e primitivi sul piano spirituale e religioso, i Fenici riuscirono tuttavia a veicolare germi di civiltà appropriandosi delle scoperte dei Babilonesi per applicarle alla navigazione (osservazioni astronomiche), al commercio (pesi e misure), alla comunicazione (alfabeto).
Interessati ai loro traffici più che alla politica e alla libertà, si rassegnarono spesso a sottomettersi e versare tributi a dominatori venuti dalla Mesopotamia o dall'Egitto.
Per il supremo interesse dei loro commerci i Fenici evitarono generalmente la guerra preferendo sbarcare nei porti che visitavano come mercanti e non come conquistatori. Le loro colonie erano delle pacifiche basi commerciali o fattorie, mai insediamenti militari. Le più importanti si trovavano sulla costa meridionale della Spagna e su quella settentrionale dell'Africa, lontane da Persia e Greci.
La più fiorente era Karthada o Karchedon o Cartagine, sul golfo di Tunisi, che divenne presto la più importante colonia fenicia grazie alla posizione particolarmente favorevole sia all'agricoltura sia al commercio.
Anche i Cartaginesi dimostravano la passività politica ed il pragmatismo tipici della madre patria e pagavano tributi al re persiano e ai Berberi libici per poter svolgere indisturbati i loro commerci, tuttavia l'espansione dei mercanti greci nel Mediterraneo li costrinse a reagire.
Per conquistare l'egemonia sulla Libia e sul Mediterraneo, Cartagine fece ricorso soprattutto a truppe mercenarie. Incoraggiati dagli eventi militari con cui affermarono il proprio dominio sul mare, i Cartaginesi si occuparono di consolidare il possesso del territorio liberandosi del canone di affitto del suolo che versavano ai Berberi ed occupando enormi latifondi che facevano lavorare da schiavi e da contabili retribuiti.
Assoggettarono inoltre le popolazioni sedentarie limitrofe e cacciarono quelle nomadi. Fondarono nuove colonie lungo la costa nordoccidentale africana e ridussero in sudditanza altre colonie fenicie già esistenti come Susa, Tapso, Leptis Parva e Leptis Magna.
Cartagine divenne così la capitale di un forte impero che andava dal deserto tripolitano alla costa atlantica e dominava le città e i popoli indigeni esistenti su quel territorio.
Il processo che portò Cartagine a questi libelli fu lento e graduale e corrispose approssimativamente ai secoli quarto e quinto di Roma, intanto per effetto di discordie interne e delle invasioni assire, babilonesi e macedoniche, Tiro, Sidone e in genere la Fenicia decadevano, le famiglie più importanti e facoltose si trasferivano a Cartagine contribuendo ad accrescerne la potenza.
I Cartaginesi svilupparono inarrestabilmente il controllo sul mare fondando nuove colonie in Spagna, nelle Baleari e in Sardegna. In Sicilia i Fenici riuscirono a preservare le colonie sulla costa occidentale dall'espansione dei Greci e trovarono il modo di convivere con questi. Con il tramonto degli Etruschi, tuttavia, Siracusa progettò di impadronirsi dell'intera isola e si controllare il Mediterraneo, costringendo i Cartaginesi a una politica più attiva.
Agli inizi del quarto secolo a.C. la guerra fra Cartagine e Dionisio di Siracusa provocò la distruzione degli stati minori dell'isola e la devastazione di molte città come Selinunte, Imera, Gela, Agrigento e Messana.
Dopo la vittoria di Magone a Kronion nel 383 a.C., Cartagine acquisì grandi territori che comprendevano tra l'altro Selinunte e Eraclea Minoa. Fu firmata una pace in questo senso ma presto le ostilità ripresero e fra il 344 e il 278 a.C. i Cartaginesi assediarono quattro volte Siracusa.
Governava Cartagine un consiglio di anziani composto da due re e ventotto consiglieri eletti annualmente dai cittadini. Il consiglio nominava un capitano generale al quale veniva affidato il supremo comando militare.
All'epoca dei Decemviri fu istituita una corporazione di centoquattro giudici la cui origine politica stava nella volontà dell'aristocrazia di bilanciare il potere di alcune famiglie, quella di Magone in particolare.
I giudici vigilavano sui gerusisti e sui magistrati e avevano il potere di destituirli e punirli anche con la morte.
La società cartaginese, dice Mommsen, era guidata da un governo di capitalisti, industriali o latifondisti molto ricchi e potenti, mentre gran parte della popolazione era non abbiente e godeva di scarsi diritti.
L'opposizione democratica era molto debole e solo dopo la guerra con Roma riuscì ad acquisire più potere. Fu proprio Annibale a proporre che i giudici non potessero restare in carica più di un anno instaurando una forma di democrazia che, tuttavia, non riuscì a salvare Cartagine dalla generalizzata corruzione.
Dal punto di vista finanziario Cartagine era uno degli stati più ricchi del mondo grazie alle rendite del commercio, della manifattura e dell'agricoltura razionale i cui metodi, descritti dal trattatista Magone, furono adottati anche dai Romani.
Culturalmente anche i Cartaginesi erano influenzati dai Greci, ma le loro opere letterarie più importanti erano trattati di utilità pratica come quello di Magone sull'agricoltura o l'opera geografica di Annone.
Particolarmente avanzata era l'amministrazione economica e finanziaria dello stato che, nonostante la diffusa corruzione dei funzionari, permetteva di non prelevare imposte dai cittadini bastando quelle pagate dai sudditi e i proventi pubblici a coprire le spese.
Già molto prima che in Europa circolava a Cartagine una moneta priva di valore materiale.
Mommsen confronta Cartagine con Roma nell'epoca precedente alla guerra. Avevano in comune l'essere città mercantile con governo aristocratico, l'economia e lo stile di vita dei Cartaginesi erano più evoluti ma in politica il senato romano godeva di un consenso della nobiltà e del popolo che i giudici di Cartagine certamente non avevano.
Entrambe le città avevano assoggettato i popoli vicini ma mentre Roma procedeva estendendo la cittadinanza progressivamente a tutti i suoi domini, i sudditi di Cartagine non potevano nutrire speranze di parificazione.
Con il suo metodo dispotico il governo cartaginese non poteva contare in caso di pericolo sull'appoggio dei popoli assoggettati mentre gli Italici sudditi di Roma avrebbero avuto spesso molto da perdere nel caso di un cambiamento della situazione.
Le forze militari si bilanciavano numericamente, ma la popolazione dei Romani era nettamente superiore e l'esercito cartaginese era in gran parte formato da mercenari.
La situazione era diversa per quanto riguardava la flotta da guerra: quella cartaginese era la più potente dell'epoca e le poche navi da guerra romane non avrebbero potuto affrontarla.


Libro III - Capitolo II - La guerra per la Sicilia fra Roma e Cartagine

Cartaginesi e Siracusani combatterono più di un secolo per il possesso della Sicilia. Con la pace del 314 Cartagine possedeva un terzo dell'isola, la parte occidentale. Nel 275 dopo la cacciata di Pirro, ai Siracusani rimase solo la parte sudorientale, mentre il resto era in mano ai Cartaginesi ad eccezione di Messana occupata da mercenari ribelli provenienti dalla Campania che avevano servito sotto Agatocle fino alla sua morte (289 a.C.) e dopo anni di brigantaggio nel 284 a.C. avevano occupato la città. Si definivano Mamertini (Uomini di Marte) e presto ottennero il controllo della Sicilia nordorientale, cambiamento che i Cartaginesi gradivano in quanto indeboliva Siracusa.
A Siracusa il giovane Gerone, parente di Pirro, che si era segnalato combattendo sotto quest'ultimo, raggiunse il potere con la proclamazione dell'esercito ma con la sua saggezza e moderazione si procurò anche la stima e il consenso della popolazione civile.
Dopo aver riorganizzato l'esercito ed essersi accordato con i Romani, Gerone mosse guerra ai Mamertini. Ottenne una prima grande vittoria nel 270 a.C. costringendo i Mamertini a chiudersi nelle mura di Messana, iniziò quindi un lungo assedio e i Mamertini decisero di consegnare la città ai Romani.
Per il senato si trattava di tradire l'alleanza con Gerone e di proteggere dei briganti che si erano macchiati di numerosi e gravi crimini, ma l'occasione di prendere possesso di una zona strategica come quella di Messana era troppo importante e d'altra parte i senatori erano consapevoli che di fronte al loro rifiuto i Mamertini si sarebbero dati ai Cartaginesi.
Probabilmente i Romani non prevedevano una guerra con Cartagine fra le possibili conseguenze della decisione, comunque si discusse a lungo: i consoli proposero di intervenire in favore dei Mamertini, il senato rimise la decisione al popolo che approvò e i Mamertini furono accolti nella confederazione italica.
I Romani inviarono ambasciatori a Cartagine per chiedere conto delle operazioni a Taranto di sette anni prima e i Cartaginesi risposero con estrema prudenza, ma quando si seppe che le legioni romane erano pronte per intervenire a Messana, Cartagine negoziò la pace fra Gerone e i Mamertini, occupò il porto di Messana con la sua flotta ed insediò un presidio nella città.
I Mamertini comunicarono ai Romani di non aver più bisogno del loro aiuto ma il tribuno Gaio Claudio che comandava la flotta romana passò ugualmente lo stretto. La flotta cartaginese respinse le navi romane al primo tentativo ma al secondo Claudio riuscì a passare, catturò l'ammiraglio Annone e lo costrinse a sgombrare Messana. Il governo cartaginese condannò a morte Annone e dichiarò guerra a Roma mandando una nuova flotta comandata da un altro Annone ad assediare Messana.
Gerone, che fino a quel momento aveva preso tempo, accorse a sua volta ad assediare Messana. Tuttavia gli assedianti furono rapidamente sconfitti dalla legioni romane comandate dal console Appio Claudio Caudice che liberata la città vi lasciò un forte presidio.
L'anno seguente entrambi i consoli sbarcarono in Sicilia con ingenti forze.
Nel 263 a.C. a seguito di una grande vittoria del console Marco Valerio Massimo (Messalla) che sbaragliò l'esercito cartaginese, Gerone trattò separatamente pace ed alleanza con i Romani. Gerone aveva capito che si trattava di scegliere fra la sottomissione ai Romani o ai Cartaginesi e aveva scelto i primi per evitare il dominio tirannico dei secondi. Da quel momento il signore di Siracusa osservò sempre l'alleanza con Roma con estrema lealtà.
Potendo controllare con Siracusa la costa orientale, i Romani potevano ora combattere con maggiore facilità e l'anno seguente bastarono due legioni a respingere i Cartaginesi in tutta la Sicilia costringendoli a riparare nelle loro fortezze.
Il generale Annibale figlio di Giscone accorse a difendere l'importante piazza di Agrigento e fu subito assediato dai Romani. La flotta cartaginese comandata da Annone riuscì a tagliare gli approvvigionamenti agli assedianti, ma l'episodio si conclude con una battaglia campale vinta dai Romani che ottennero così il controllo dell'intera isola ad esclusione delle fortezze marittime.
Le ostilità in Sicilia cessarono ma i Cartaginesi, veri padroni del mare, riuscirono presto a bloccare il commercio marittimo fra Roma e i suoi confederati e inoltre presero a compiere rapide incursioni saccheggiando le coste italiche.
I Romani decisero che era necessario dotarsi di una flotta più potente e moderna, ritenendo pericoloso fare affidamento soltanto sulle navi degli alleati siracusani e massalioti. Con uno sforzo straordinario i Romani vararono nella primavera del 260 centoventi navi da guerra costruite sul modello di un'imbarcazione cartaginese catturata.
Per controbilanciare l'inesperienza degli equipaggi, i Romani adottarono una nuova tattica basata su un ponte mobile montato sulla prua che permetteva ai soldati di passare sulla nave nemica e combattere come se si trovassero a terra. Nel primo viaggio una squadra di diciassette navi comandate dal console Gneo Cornelio Scipione fu catturata a Lipari, ma il resto della flotta riportò una vittoria sui Cartaginesi e l'altro console Caio Duilio raggiunse il porto di Messana.
Poco dopo una flotta comandata dall'ammiraglio Annibale affrontò quella romana nei pressi di Milazzo e l'invenzione dei ponti mobili dimostrò tutta la sua micidiale efficacia e i Romani affondarono o catturarono oltre cinquanta navi nemiche fra cui l'ammiraglia.
La nuova flotta dava ai Romani la possibilità di combattere sulle coste italiche per cacciarne i nemici o di attaccare direttamente in Africa. Si scelse la prima opzione e nel 259 il console Lucio Scipione occupò il porto di Alesia in Corsica per farne la base verso la Sardegna.
Fallito un primo tentativo di prendere Olbia si riuscì nel 258 a sbarcarvi e a saccheggiare il litorale ma non a stabilirvisi. In Sicilia il generale Amilcare difendeva validamente le postazioni cartaginesi e spesso convinceva delle piccole città a passare dalla sua parte con la propaganda politica.
In questo periodo i Romani riuscirono a far cessare le incursioni sulle coste italiche ma non a liberare il commercio dalla interferenze delle navi nemiche.
Il senato decise di attaccare direttamente Cartagine e nella primavera del 256 inviò trecentotrenta navi con quattro legioni comandate dai consoli Marco Atilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone.
Nei pressi di Ecnomo i Romani incontrarono trecentocinquanta navi cartaginesi, probabilmente fu la più grande battaglia navale fino ad allora combattuta.
I Romani si dimostrarono superiori e i Cartaginesi, dopo aver perduto quasi cento navi, si schierarono davanti al golfo di Cartagine per impedire ai nemici di entrarvi, tuttavia i Romani sbarcarono più a est, nella baia di Clupea, e da qui le legioni presero a devastare il paese facendo oltre ventimila prigionieri.
Sicuro di aver ormai vinto la guerra il senato richiamò gran parte della flotta. Regolo rimase accampato a Tunisi con quindicimila uomini e quaranta navi.
I Cartaginesi chiesero la pace ma di fronte alle condizioni offerte da Regolo, che voleva consegnassero l'intera flotta ai Romani, tornarono ad organizzarsi per la guerra assoldando molti mercenari fra cui il famoso Santippo di Sparta.
Regolo rimase inattivo a Tunisi durante l'inverno per poi portarsi sotto le mura di Cartagine senza prendere le opportune precauzioni ma nella primavera del 255 i Cartaginesi, che erano pronti a combattere e volevano vincere prima che i Romani mandassero rinforzi, scesero in campo offrendo la battaglia.
Santippo di Sparta comandò abilmente le forze cartaginesi e questa volta i Romani vennero sconfitti e massacrati, si salvarono solo duemila uomini fra cui Atilio Regolo che più tardi morì a Cartagine. I parenti di Regolo a Roma si vendicarono sui prigionieri cartaginesi tanto spietatamente che i tribuni intervennero per fermarli. Mommsen rigetta decisamente gli episodi leggendari sull'eroismo di Regolo ricordando che in effetti nulla si conosce sulle circostanze della sua fine.
I Romani inviarono una nuova flotta a Clupea per recuperare i duemila superstiti e vinsero una nuova battaglia ma commisero l'errore di far tornare indietro queste navi dopo il salvataggio mentre avrebbero facilmente potuto occupare una posizione strategica, inoltre durante il viaggio tre quarti delle navi furono distrutte da una tempesta.
Intanto i Cartaginesi riempivano le loro casse a spese dei sudditi infedeli che avevano aiutato i Romani e riprendevano la guerra mandando in Sicilia un esercito comandato da Asdrubale figlio di Annone e dotato di molti elefanti.
In soli tre mesi i Romani ricostruirono la flotta varando duecentoventi navi e nella primavera del 254 conquistarono Panormo (Palermo) ed altre città minori, ma non osarono attaccare i Cartaginesi per timore degli elefanti.
Nel 253 i consoli compirono un'incursione sulla costa africana ma di nuovo una tempesta distrusse molte navi. Il senato decise di rinunciare alla guerra navale e di concentrare gli sforzi in Sicilia e nel 251 a.C. il console Lucio Cecilio Metello sconfisse presso Panormo l'esercito cartaginese nonostante gli elefanti per poi passare a espugnare Erice.
I Cartaginesi, che ormai possedevano in Sicilia solo Lilibeo e Drepana, chiesero di nuovo la pace ma il senato respinse la proposta e, allestite duecento nuove navi, assediò le due città.
L'assedio di Lilibeo, il primo grande assedio dei romani, fu lungo e doloroso perché nonostante la flotta romana alcuni navigatori cartaginesi riuscirono spesso a penetrare nel porto per rifornire gli assediati.
Il nuovo console Publio Claudio decise di sorprendere il nemico attaccando improvvisamente Drepana, ma a causa di una manovra inopportuna la sua flotta si ritrovò circondata da quella cartaginese comandata dall'ammiraglio Atarba.
Il console si salvò ma perse oltre novanta navi e buona parte dei suoi soldati furono fatti prigionieri.
L'altro console, Lucio Giunio Pullo, dimostrò altrettanta imperizia. Scortando navi da carico che portavano rifornimenti agli assedianti di Lilibeo, fu intercettato dall'ammiraglio cartaginese Cartalo che costrinse le navi romane a rifugiarsi a Gela e Camerina, spiagge inospitali dove furono distrutte dalla prima tempesta (249 a.C.).
Dopo sedici anni di guerra e le grandi perdite subite il senato romano era scoraggiato e privo di risorse, licenziò la flotta e si limitò a proteggere le fortezze romane in Sicilia.
I Cartaginesi non colsero l'occasione per colpire a fondo il nemico ma continuarono a combattere episodicamente e per oltre sei anni il conflitto si limitò ad azioni di guerriglia e pirateria.
Nel 247 a.C. il giovane generale cartaginese Amilcare Barca prese il comando supremo in Sicilia. Buon comandante e buon conoscitore degli uomini fu in grado di ottenere dai mercenari l'affezione e la lealtà che non potevano nascere da sentimenti patriottici.
Stabilito il campo sul Monte Pellegrino presso Panormo, permise ai soldati di essere raggiunti dalle famiglie e facendo saccheggiare le coste italiche dalla flotta garantì abbondanti rifornimenti senza gravare sull'erario cartaginese.
Amilcare occupò anche il Monte Erice e Trapani senza che i Romani riuscissero ad opporgli una valida resistenza.
Mentre il senato rimaneva incapace di intervenire, un gruppo di facoltosi cittadini romani finanziò l'allestimento di una flotta ed affidò al console Caio Lutazio Catulo duecento navi e sessantamila uomini. Con queste risorse Catulo occupò rapidamente i porti di Lilibeo e Drepana ed assediò le due fortezze.
Una flotta cartaginese fu pronta soltanto nella primavera successiva (241 a.C.) ma le navi romane comandate dal pretore Publio Valerio Falto le intercettarono a largo, presso l'isola di Egusa (Favignana) impedendole di caricare soldati a Drepana e la sconfisse duramente affondando cinquanta navi e catturandone settanta.
La sconfitta fu tanto grave che Amilcare ottenne i pieni poteri per trattare la pace e rinunciò all'isola. Dal canto suo Catulo pose condizioni molto moderate ma a Roma l'assemblea dei finanziatori della flotta non ratificò il trattato. Le trattative furono portate a termine da ambasciatori riunitisi in Sicilia e in conclusione non mutarono la sostanza del primo accordo limitandosi ad aumentare le sanzioni pecuniarie a danno di Cartagine. Amilcare consegnò le fortezze ai Romani e i Cartaginesi lasciarono la Sicilia.
Durata ventiquattro anni questa fu una delle più grandi guerre combattute dai Romani e la prima a richiedere l'impiego di una flotta. Secondo Mommsen i Romani la condussero in modo confuso ed incerto a causa della novità delle circostanze e del nemico e dell'inesperienza marittima.
Se la flotta fu più volte armata durante la guerra ed alla fine risultò decisiva nonostante la mancante vocazione marinara dei Romani, non fu invece possibile risolvere le inadeguatezze del sistema politico romano di fronte ad una lunga guerra combattuta fuori dal territorio italico quali ad esempio la discontinuità di strategia derivante dall'annuale avvicendamento dei consoli.



Libro III - Capitolo III - Estensione dell'Italia fino ai suoi confini naturali

La federazione italica che aveva esteso il suo territorio oltre l'Appennino fino a Sena e Ariminum dopo la vittoria romana su Cartagine arrivò a comprendere città del meridione sullo Ionio e in Sicilia, tutte sotto l'egemonia romana e tutte equiparate nei diritti civili e politici.
Se fino a quel momento questi ampliamenti erano derivati da eventi di diversa natura, sconfitti i Fenici i Romani si concentrarono sul progetto di dominare la penisola fino alle Alpi ed il Tirreno in modo incontrastato.
In Sicilia fu rispettato lo stato di Gerone di Siracusa che si era mantenuto fedele durante tutta la guerra mentre il resto dell'isola venne rapidamente conquistato, ma la Sardegna rimaneva ai Cartaginesi.
in Africa il mancato pagamento del soldo ai mercenari di Amilcare ne provocò l'ammutinamento. Gli insorti, che sapevano quale atroce destino sarebbe loro toccato in caso di insuccesso, fecero rapidamente dilagare la rivolta fra la popolazione esasperata dal fisco cartaginese e quando l'esercito regolare tentò di reprimerli fu interamente distrutto.
I Romani tennero di fronte a questa situazione un atteggiamento ambiguo, concessero ai Cartaginesi di arruolare milizie italiche per difendersi ma non curarono l'osservanza del divieto di commerciare con i ribelli. Quando i presidi cartaginesi in Sardegna, anche loro ribelli, offrirono l'isola ai Romani questi accettarono senza indugi.
Superata la ribellione grazie ad Amilcare, Cartagine protestò richiedendo la restituzione della Sardegna ma i Romani addussero una serie di pretesti e dichiararono una nuova guerra. Cartagine tuttavia, stremata dal conflitto precedente e dalla violenta rivoluzione interna, non era in grado di raccogliere la sfida e per evitare il peggio offrì un ricco tributo come indennizzo.
Così i Romani si impossessarono facilmente della Sardegna e della Corsica limitandosi ad occuparne i litorali ed evitando di combattere contro le bellicose popolazioni interne fra la quali si limitavano a catturare schiavi.
Il possesso delle tre isole maggiori, che rendeva ben saldo il dominio romano sul mare, comportò la necessità di istituire nuove magistrature per amministrare queste terre troppo lontane dalla giurisdizione dei consoli. Furono così istituiti i pretori provinciali che in Sicilia, Sardegna e Corsica avevano poteri militari e giudiziari mentre l'amministrazione finanziaria spettava a questori appositamente nominati.
In modo progressivo ma celere l'organizzazione delle province insulari fu resa analoga a quella dei comuni italici della penisola: nessuna indipendenza verso gli stati esteri, libera circolazione della valuta romana, restrizioni del diritto di coniare moneta, una buona autonomia amministrativa.
La differenza sostanziale fra vecchie e nuove province era che le prime in forza di trattati contribuivano sul piano militare mentre alle seconde era tolto il diritto alle armi e per difendersi necessitavano del consenso del pretore romano.
Gli isolani pagavano decime sui raccolti e dazi sui commerci come avevano fatto in precedenza con i dominatori Cartaginesi o Greci. Questa regola, inesistente in precedenza, prevedeva comunque eccezioni come nel caso di Messina, Segesta, Palermo ed altre città.
Le potenze orientali come la Macedonia e la Siria non preoccupavano per il momento i Romani che concentrati nel completare la colonizzazione dell'Italia continentale non cercavano di intervenire nei casi di quelle nazioni. Tuttavia quando la Macedonia, che non aveva più motivo di proteggere i commerci ellenici nell'Adriatico, prese a collaborare con i pirati, la situazione si fece troppo seria per essere ignorata.
I pirati illirici attaccavano qualsiasi nave e più volte assediarono città costiere arrivando più a sud fino all'Epiro e all'Acarnania. Inutilmente Etoli e Achei cercarono di contrastarli e furono sconfitti. I pirati si impossessarono di Corcira.
Il senato romano inviò i fratelli Lucio e Caio Coruncanio a Scodra (Scutari) per protestare presso Agrone re degli Illiri ma dei due ambasciatori uno venne ucciso.
Nella primavera del 229 a.C. una spedizione romana contro Scodra costrinse la regina Teuta vedova di Agrone a liberare i territori occupati con la pirateria e fu proibita la circolazione di navi illiriche armate.
Scodra divenne tributaria di Roma e Demetrio di Faro, passato da Teuta ai Romani, fu posto al governo della Dalmazia.
Così Roma consolidò il suo dominio anche sull'Adriatico con soddisfazione dei Greci e di quanti erano stati liberati dai pirati.
Alcuni anni più tardi Demetrio di Faro si sottrasse al dominio romano ed intraprese la pirateria con il sostegno del re di Macedonia Antigono Dosone. Antigono morì nel 220 e nel 219 il console Lucio Emilio Paolo sconfisse Demetrio e lo cacciò dal suo regno.
In Italia regnava la pace a sud degli Appennini ma a nord un vasto territorio fino alle Alpi non era ancora in mano ai Romani.
A sud del Po vivevano i Boi, i Liguri e vari gruppi celtici mentre a nord del fiume si trovavano Veneti, Cenomani e Insubri. Nel 238 i Boi si allearono con i Galli Transalpini e nel 236 un grande esercito celtico si accampò presso Rimini ma questa situazione si risolse grazie alle discordie fra i capi celti che portarono l'esercito a sciogliersi e i transalpini a tornare nei loro paesi.
Negli anni successivi, tuttavia, i Celti italici non rimasero tranquilli e nel 225 un nuovo esercito marciò verso l'Appennino. I Romani giudicarono il pericolo seriamente e presero adeguate misure inviando in Etruria i due eserciti dei consoli Caio Attilio Regolo e Lucio Emilio Papo. Contemporaneamente agli alleati umbri fu dato incarico di compiere irruzioni nei territori dei Celti rimasti incustoditi mentre milizie degli Etruschi e dei Sabini dovevano ostacolare l'avanzata degli invasori.
In Etruria i Celti riportarono una vittoria su questi alleati dei Romani e per il momento preferirono retrocedere per portare al sicuro il ricco bottino, ma presso Talamone furono intercettati dall'esercito di Attilio Regolo che, proveniente dalla Sardegna, era sbarcato a Pisa.
Nella battaglia che seguì Attilio Regolo perse la vita ma presto i Celti si trovarono bloccati fra il suo esercito e quello di Papo che li aveva seguiti e nonostante la loro coraggiosa resistenza furono sconfitti perdendo quarantamila uomini. I Romani fecero diecimila prigionieri fra cui il re Concolitano.
Con la sottomissione dei Boi, dei Longoni e degli Anari fra il 224 a.C. e il 223 a.C. tutta la pianura a sud del Po passò sotto il dominio romano.
Nel 223 a.C. Caio Flaminio passò il Po e condusse una difficile campagna che portò alla vittoria sugli Insubri ma non alla loro totale sottomissione.
Nel 222 a.C. una nuova campagna contro gli Insubri spinse questi ultimi ad attaccare la fortezza romana di Clastidium (Casteggio) difesa dal console Marco Marcello che uccise il re dei Galli Videmaro mentre l'altro console Gneo Scipione espugnava Milano e Como completando la sottomissione dei Celti Italici.
Roma da quel momento garantì la sicurezza della penisola contro ogni insidia transalpina, tollerò le popolazioni a nord del Po mentre i Celti a sud del fiume furono rapidamente annientati o dispersi anche per effetto dell'intensa colonizzazione che portò molti Italici a trasferirsi in quella regione.
La via Flaminia fu prolungata fino a Rimini e fu la prima strada a congiungere la costa tirrenica con quella adriatica. Il transito sul Po fu assicurato con la fondazione di Piacenza e Cremona sulle opposte rive del fiume e la città di Mutina (Modena) venne fortificata.


Libro III - Capitolo IV - Amilcare e Annibale

Anche se l'armistizio del 241 a.C. portò la pace, i Cartaginesi si rendevano conto che il pericolo sussisteva e che la guerra poteva ricominciare in qualsiasi momento rischiando di distruggere il loro stato.
In città esistevano un partito della pace che faceva capo a Annone il Grande ed uno della guerra basato sulle forze popolari e militari il cui leader era Asdrubale.
In questa delicata situazione scoppiò la rivoluzione libica e Cartagine sfiorò il disastro per l'imperizia militare di Annone salvandoli soltanto per la grande abilità di Amilcare Barca che ebbe il comando supremo, sia pure con Annone come collega.
Finita la fase più critica della guerra libica, Annone fu richiamato e ad Amilcare furono conferiti pieni poteri, ma l'esercito di cui disponeva aveva urgente bisogno di essere ristrutturato. Non facendo affidamento sulle risorse statali che erano nelle mani del partito al governo a lui ostile, Amilcare compì ogni azione e compromesso utili per procurarsi i mezzi finanziari e quando finalmente vi riuscì fece giurare al figlio Annibale odio eterno verso i Romani e partì da Cartagine nel 236 a.C. alla volta della Spagna dove estese i domini cartaginesi fino a farne un regno che dopo la sua morte (228 ) fu retto e consolidato da Asdrubale, suo genero e luogotenente e fondatore di Cartagena.
Le rendite della nuova ricca provincia finanziavano l'esercito e ne rimaneva abbastanza da mandare contributi in patria, mentre dal punto di vista commerciale la Spagna compensava i Cartaginesi di quanto avevano perduto con la Sicilia e la Sardegna.
A Roma si riteneva impossibile una guerra aggressiva da parte di Cartagine e si rimase indifferenti alle imprese spagnole di Amilcare fino al 226 quando il senato prese a preoccuparsi delle crescente potenza della nuova provincia dei Fenici e strinse alleanza con due città di fondazione greca, Sagunto e Emporia (Empurias), sulla costa orientale della Spagna ingiungendo ai Cartaginesi di non superare l'Ebro.
Ma quando giunse il momento propizio per attaccare, l'esercito cartaginese aveva perso con Amilcare il suo grande condottiero e il suo successore Asdrubale, che non era un uomo d'armi, rimandò l'impresa.
Nel 220 a.C. Asdrubale venne assassinato e gli ufficiali affidarono il comando a Annibale primogenito di Amilcare. Colto e preparato, Annibale aveva militato nell'esercito del padre e comandato la cavalleria sotto Asdrubale.
Mommsen traccia un breve profilo di Annibale, grande generale, grande politico e grande uomo, non celando la sua ammirazione e rigettando come diffamazioni le critiche degli antichi romani e cartaginesi.
Immediatamente Annibale decise di attaccare per prevenire il nemico e per avvantaggiarsi dei problemi che Roma affrontava in quel periodo contro i Celti e gli Illiri, ma gli mancava la dichiarazione di guerra ufficiale e l'autorità Cartaginese, prevalendo il partito della pace, lo ostacolava ed avversava. Intanto il tempo passava e i Romani stavano risolvendo le ostilità su altri fronti, perciò nel 219 Annibale attaccò improvvisamente Sagunto con il pretesto che i suoi abitanti avevano recato danno ad altre genti suddite di Cartagine.
I Saguntini resistettero eroicamente ma i Romani indugiarono nel soccorrerli e dopo otto mesi di assedio Sagunto fu espugnata.
Ambasciatori romani chiesero la consegna di Annibale e non ottenendola dichiararono la guerra. Nel 218 Annibale tornò in Africa per preparare l'attacco e la difesa dello stato.
Il generale disponeva di centoventimila uomini oltre a cavalli, elefanti e navi. Pochi erano i mercenari e prima di muoversi seppe incoraggiare e motivare i soldati. Lasciò una parte delle truppe a proteggere Cartagine e il territorio africano e una parte in Spagna al comando del fratello minore Asdrubale.
Ottenne che Cartagine inviasse due modeste squadre navali per azioni di disturbo sulle coste italiche e siciliane e si mise personalmente al comando del grosso dell'esercito per penetrare in Italia e attaccare direttamente Roma.
Per procurarsi delle basi avanzate verso l'Italia, Annibale concluse accordi con Insubri e Boi che si impegnarono volentieri ad aiutarlo per odio verso gli italici. Stabilì anche relazioni con i Macedoni che in quel periodo non avevano buoni rapporti con i Romani.
Mancano certezze sul motivo per cui preferì la via di terra al mare, probabilmente perché sapeva il Mediterraneo completamente controllato dal nemico.
Partì con novantamila uomini, dodicimila cavalli e trentasette elefanti da Cartagine nella primavera del 218 a.C.
Intanto a Roma ci si era lasciati andare all'incuria che non aveva permesso di eliminare il pericolo dei Celti, di disarmare i Cartaginesi e di mantenere la pace con i Macedoni. Ora si era lasciato ad Annibale il tempo di organizzare il suo esercito e il modo di scegliere l'Italia come teatro del conflitto mentre era mancata la prontezza di intervenire con un esercito in Spagna ai tempi dell'assedio di Sagunto. Quando Annibale giunse all'Ebro le forze romane comandate dal console Publio Cornelio Scipione che erano finalmente in partenza per la Spagna furono distratte da un'insurrezione nella pianura padana.
Oltre l'Ebro vivevano popolazioni filoromane che ostacolarono energicamente Annibale che comunque in pochi mesi giunse ai Pirenei, perdendo un quarto dei soldati ma soggiogando la Catalogna.
Congedata una parte dei soldati, Annibale varcò i Pirenei con cinquantamila fanti e novemila cavalieri, attraversò senza problemi il paese dei Celti e a fine luglio raggiunse il Rodano. Qui rischiò di scontrarsi con l'esercito del console Scipione che marciava verso la Spagna ma acquistando tutte le barche reperibili nella zona e costruendo zattere riuscì a traghettare l'intero esercito in un solo giorno. Intanto Annone figlio di Bomilcare manovrava per attaccare alle spalle i Galli alleati dei Romani che presi alla sprovvista fuggirono senza interferire con l'attraversamento dei fiume.
Scipione, che aveva temporeggiato a Massalia, mandò una squadra in ricognizione e quando seppe che il nemico aveva superato il Rodano si precipitò tardivamente verso Avignone senza trarne alcun vantaggio.
Annibale poteva scegliere fra il passo del Monginevro e quello del Piccolo San Bernardo. Scelse il secondo perché più facile e perché conduceva a territori di Celti suoi alleati.
I Cartaginesi impiegarono sedici giorni per giungere ai piedi delle montagne ma qui furono avvertiti che le popolazioni locali presidiavano il valico per non lasciarli passare. Annibale superò il problema occupando a sorpresa il valico durante la notte.
Ridiscendendo oltre il primo valico incontrarono serie difficoltà per la strada ripida e sdrucciolevole e per gli attacchi degli Allobrogi. Giunti a valle aggredirono la più vicina città allobrogica per rifarsi dei cavalli perduti e per dare una dimostrazione alle popolazioni della regione.
Quattro giorni più tardi, dopo aver evitato un'imboscata dei Centroni, i Cartaginesi raggiunsero la sommità del passo. La discesa fu molto difficile, un tratto interessato da frane e da ghiaccio perenne costrinse i Cartaginesi ad aprirsi il cammino con varie giornate di lavoro duro e ininterrotto.
Giunti infine nella piana di Ivrea e accolti amichevolmente dai Salassi godettero di quindici giorni di riposo. La traversata aveva avuto un costo elevato, oltre la metà dei soldati erano morti nei combattimenti o per le insidie naturali della montagna.

Libro III - Capitolo V - Guerra di Annibale fino alla battaglia di Canne

All'arrivo dell'esercito cartaginese al di qua delle Alpi la regione risultava sguarnita per i Romani: uno dei grandi eserciti romani, infatti, si trovava in Spagna, l'altro era in Sicilia sul punto di imbarcarsi per l'Africa mentre le forze che normalmente operavano nella Valle del Po erano concentrate nei pressi di Modena per fronteggiare un'insurrezione dei Galli Boi.
In generale i Romani avevano sottovalutato la capacità cartaginese di superare le Alpi e nel momento decisivo nel luogo più importante non c'erano avamposti romani. Annibale fece riposare il suo esercito mentre convinceva, o costringeva, tutti i centri dei Celti e dei Liguri nella valle superiore del Po ad allearsi con lui.
Scipione, assunto il comando nella valle del Po, doveva fermare i Cartaginesi e contemporaneamente vigilare sugli insorti Insubri e Boi che ancora minacciavano le colonie romane del Modenese. Superò il Po a Piacenza e nei pressi di Vercelli, lungo il Ticino, si scontrò con il nemico subendo una grave sconfitta e salvando a stento la propria vita. I Romani si ritirarono sull'altra sponda del Po per riorganizzarsi. Ancora molestato dai Galli insorti, Scipione dovette ritirarsi ulteriormente sulle colline del Trebbia.
Il secondo esercito romano proveniente da Lilibeo giunse a Piacenza e si unì all'esercito del Po. In questa posizione, forte di quarantamila uomini, Scipione avrebbe potuto limitarsi ad attendere bloccando l'esercito nemico ma a causa di una ferita dovette cedere temporaneamente il comando all'altro console Tiberio Sempronio. Dopo non molto Annibale attaccò improvvisamente cogliendo i Romani di sorpresa e riuscì a far spostare l'avanguardia romana in terreno a lui favorevole al di là del Trebbia.
La cavalleria cartaginese era molto più numerosa di quella romana ma l'esito della battaglia fu deciso da un corpo scelto che attaccò i Romani alle spalle e fece una strage. La prima linea della fanteria romana riuscì a sfondare le file nemiche e si portò in salvo a Piacenza mentre il resto dell'esercito fu distrutto dalle truppe leggere nemiche. Anche i vincitori subirono molte perdite sul campo e più tardi per le malattie provocate dal freddo. Morirono anche quasi tutti gli elefanti. I Romani ripararono a Piacenza e Cremona, isolati da Roma, e anche Annibale decise di non tentare altre imprese durante l'inverno.
Per la campagna del 217 a.C. si mandarono rinforzi in Spagna, Sicilia, Sardegna e Taranto, per le legioni in Italia ci si limitò a rimpiazzare le perdite. I consoli occuparono le due strade principali verso il settentrione. Nonostante la vittoria sulla Trebbia, la situazione militare dei Cartaginesi era difficoltosa per l'insicurezza degli approvvigionamenti e per la minore perizia dei soldati. Annibale era consapevole che le sue vittorie non riuscivano a scuotere la superiorità del suo nemico, Capiva - dice Mommsen - che batteva sempre i generali non la città.
Per questo motivo decise di condurre la guerra in modo imprevedibile, spostandosi continuamente, ingannando l'avversario con azioni improvvise e sforzandosi di stringere alleanze con le popolazioni italiche delle quali si atteggiava a liberatore.
Al termine dell'inverno i Cartaginesi lasciarono la valle del Po e superarono l'Appennino prima che il console Caio Flaminio raggiungesse e bloccasse i valichi. Fu tuttavia una marcia estenuante perché le paludi tra l'Arno e il Serchio erano allagate dal disgelo. Molti cavalli morirono, molti uomini si ammalarono, lo stesso Annibale perse un occhio per una grave oftalmia.
Quando Annibale giunse a Fiesole, Caio Flaminio era ancora a Arezzo e attendeva di congiungere il proprio esercito con quello del collega che non aveva più ragione di sostare a Rimini.
Caio Flaminio era un politico democratico in contrasto con il senato ed era deciso a conquistare la massima gloria militare. Annibale ne era consapevole e seppe sfruttare la situazione: portò il suo esercito non molto lontano da Flaminio e lasciò che i Galli del suo seguito saccheggiassero la regione. Flaminio, senza attendere il collega, mosse verso di lui e fu attirato nel campo scelto da Annibale, un luogo stretto tra le montagne e delimitato dal Lago Trasimeno. I Cartaginesi circondarono i Romani e ne fecero strage, lo stesso comandante venne ucciso.
I Romani ebbero 15.000 morti e altrettanti prigionieri, i Cartaginesi persero 1.500 uomini, quasi tutti Galli. Anche la cavalleria di Gneo Servilio che stava raggiungendo Flaminio fu circondata e massacrata.
A Roma si presero provvedimenti straordinari per preparare la difesa della città ma Annibale, agendo di nuovo in modo imprevisto, non puntò su Roma ma portò l'esercito a riposare sull'Adriatico. Quando i suoi soldati furono rinfrancati, Annibale prese ad avanzare lentamente verso l'Italia Meridionale cercando di accordarsi con gli Italici ma tutte le città alle quali via via si avvicinava chiusero le porte.
Quinto Fabio Massimo, uomo di età avanzata e di grande esperienza, fu nominato dittatore e assunse il comando formando un esercito che giunse in vista del nemico a Lucera. Annibale superò Benevento e tentò senza successo di portare Capua dalla sua parte. Fallito il tentativo prese la via dell'Apulia e Fabio gli sbarrò la strada a Casilino (l'attuale Capua). Annibale ricorse allo stratagemma di far spingere un gran numero di buoni con fascine accese tra le corna per far credere, nel buio, che l'intero esercito si ritirasse. I Romani si spostarono per seguire quello che credevano essere l'esercito nemico e così liberarono il passaggio per le truppe di Annibale che si portarono nell'Apulia Settentrionale, paese ricchissimo di grano e di fieno.
Marco Minucio, luogotenente di Fabio Massimo, riuscì ad ostacolare le sortite del nemico per i rifornimenti. Questa notizia fece crescere a Roma le polemiche sul conto di Fabio Massimo e sulla sua strategia difensiva. Il nemico che avrebbe dovuto cedere per fame si era già procurato abbondanti provviste per l'inverno. Ne conseguì un duro scontro politico che culminò con un'operazione del tutto irregolare: a Marco Minucio furono conferiti gli stessi poteri dittatoriali di cui disponeva Fabio Massimo. Così "promosso" Marco Minucio si ritenne in dovere di affrontare il nemico in campo aperto e il disastro fu evitato solo grazie al tempestivo intervento di Fabio Massimo.
A questo punto a Roma si decise di formare il più forte esercito mai organizzato: otto legioni potenziate di un quinto della forza normale ed altrettanti federati: oltre il doppio delle forze del nemico. Si trattava di affidare il comando supremo a chi fosse meno impopolare di Fabio Massimo. Si elessero i consoli: Lucio Emilio Paolo (vincitore nell'Illirico) e Caio Terenzio Varrone, noto oppositore del senato.
A Primavera Annibale si mosse verso sud, superò il fiume Ofanto e prese il castello di Canne, tra Canosa e Barletta. Per fermare i progressi di Annibale giunsero in Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone (216 a.C.), mentre Fabio Massimo aveva deposto la dittatura in autunno. Il nuovo esercito contava, tra cittadini e federati, 80.000 fanti e 6.000 cavalieri, Annibale disponeva di 40.000 fanti e 10.000 cavalieri.
Annibale si accampò presso Canne sulla riva destra del fiume Aufidus, Paolo sulla riva sinistra ma mandò un forte corpo sulla riva destra per bloccare i rifornimenti del nemici. Annibale passò il fiume e offrì battaglia ma Paolo non accettò. I consoli comandavano a giorni alterni, perciò il giorno successivo Varrone riunì tutte le forze romane sulla riva destra e offrì battaglia.
Lo scontro, di cui Mommsen descrive i momenti principali, vide i Romani subire gravi perdite e i Cartaginesi conquistare rapidamente la vittoria nonostante le risorse modeste al confronto di quelle nemiche. I Romani persero 70.000 uomini dei 76.000 schierati in battaglia, morirono anche il console Lucio Paolo e il proconsole Gneo Servilio.
Il console Marco Varrone si salvò fuggendo a Venosa. Gran parte dei diecimila romani rimasti a presidiare l'accampamento furono fatti prigionieri.
Nello stesso periodo della battaglia di Canne i generali Gneo Scipione e Publio Scipione sconfissero duramente Asdrubale mentre tentava di superare i Pirenei. I Celtiberi e altre genti spagnole si misero dalla parte degli Scipioni e per questi motivi Annibale non aveva alcuna possibilità di ricevere aiuti dalla Spagna. Da Cartagine non giungeva da tempo alcun aiuto per Annibale ma la notizia della vittoria di Canne mise a tacere gli oppositori politici e Annibale ricevette importanti sussidi in denaro e rinforzi in uomini, cavalli ed elefanti.
Si concluse un trattato di alleanza tra Cartagine e la Macedonia che prevedeva l'invio di un esercito macedone in Italia contro la promessa di recuperare i possedimenti romani in Epiro. Il re Gerone di Siracusa rinnovò l'amicizia con Roma ma morì nel 216 a.C. e suo figlio Geronimo si accordò con i Cartaginesi. Un avvenimento di grande importanza fu lo schierarsi con Annibale della maggior parte dei comuni dell'Italia Meridionale, tuttavia le opposizioni interne dei nobili favorevoli ai Romani diminuirono i vantaggi che i Cartaginesi avrebbero potuto trarre da queste alleanze. A Capua Annibale fece arrestare e tradurre a Cartagine un suo ostinato oppositore di nome Decio Magio. I Greci dell'Italia Meridionale rimasero fedeli ai Romani: Napoli, Reggio, Turio, Metaponto, Taranto e altrettanto, ovviamente, fecero le colonie latine come Brindisi, Venosa, Pesto, Cosa e Cales.
Secondo Mommsen la costituzione romana con la nomina dei magistrati annuali non era adatta per affrontare un conflitto delle dimensioni della guerra annibalica e, inoltre, il disaccordo tra senato e popolo aveva portato a decisioni sbagliate a tutto vantaggio dei Cartaginesi. Fu il superamento di questo disaccordo a consentire a Roma di riprendersi dopo le tragiche sconfitte del Trasimeno e di Canne.
A Canusio, dove si erano rifugiati i superstiti di Canne, due tribuni militari, Appio Claudio e Publio Scipione figlio, riuscirono a ridare coraggio a quegli uomini e agli altri che si andavano via via unendo fino a formare quasi due legioni. Assunse il comando il pretore Marco Claudio Marcello. A Roma si procedette all'arruolamento di nuovi soldati, anche giovanissimi. Furono reclutati prigionieri e delinquenti oltre a ottomila schiavi affrancati con denaro pubblico.

Libro III - Capitolo VI - Guerra di Annibale da Canne a Zama

Il comportamento delle città dell'Italia Meridionale nei confronti di Annibale dopo la battaglia di Canne non fu quello che Annibale aveva sperato. In generale si sottomisero passivamente ai Cartaginesi ma ogni speranza di Annibale di poterli condurre contro Roma in una sorta di guerra di liberazione rimase delusa.
Da parte loro i Romani trassero insegnamento dalle sconfitte ed adottarono più prudenti accorgimenti nel selezionare i comandanti e nel decidere se e quando accettare battaglia. Per ottenere questi miglioramenti, senato e popolo decisero di affidare il comando a Marco Claudio Marcello, un esperto ufficiale reduce delle guerre contro Amilcare e contro i Celti.
Annibale, consapevole che un attacco diretto alla città di Roma non avrebbe dato risultati, preferì dirigersi direttamente a Capua e con molte difficoltà riuscì a far passare questa città dalla sua parte. Marco Marcello e il dittatore Marco Giunio che concentrarono le loro forze presso Teano non arrivarono in tempo per salvare Capua, ma riuscirono a evitare che Annibale si impadronisse di Napoli e del suo porto. Marcello intervenne tempestivamente a Nola dove il partito popolare era favorevole ai Cartaginesi e mantenne la città fedele ai Romani, inoltre combattè alle porte di Nola infliggendo ad Annibale la prima sconfitta.
Annibale conquistò in Campania Nocera, Acerra e, dopo un lungo assedio, Casilino e condannò a morte i senatori di quella città che gli erano stati ostili. Giungendo l'inverno Annibale pose i suoi quartieri in Capua dove le comodità avranno certamente intaccato la disciplina dei soldati.
L'anno successivo i Romani armarono tre eserciti comandati da Marco Marcello, Tiberio Sempronio Gracco e Quinto Fabio Massimo che circondarono Capua e ripresero varie piccole piazze della regione. Un altro esercito comandato dal pretore Marco Valerio si era stanziato presso Lucera per controllare gli insorti sanniti, lucani e irpini e per prevenire eventuali mosse dei Macedoni.
Annibale si scontrò con Marco Marcello presso Cuma, fu sconfitto e dovette abbandonare la Campania. Annibale si rese conto di non essere in grado di portare avanti nuove offensive e di essere in difficoltà anche nel difendere le posizioni già conquistate con le forze a sua disposizione. I suoi oppositori politici operarono in modo che Cartagine rifiutasse di mandare rinforzi in Italia, da parte sua Annibale non aveva importanti sostenitori nel senato cartaginese e fu costretto a cercare aiuti da altre nazioni, come la Spagna, Siracusa e la Macedonia.
I Romani combatterono contro queste nazioni mentre la guerra in Italia si riduceva ad assedi e razzie, con lo scopo di isolare sempre di più Annibale.
Gli Scipioni spostarono il fronte spagnolo dall'Ebro al Guadalquivir e conseguirono importanti vittorie in Andalusia. Tito Manlio Torquato distrusse l'esercito cartaginese in Sardegna recuperando il controllo dell'isola.
In Sicilia le legioni di Canne combatterono contro i Cartaginesi e le forze di Geronimo, quest'ultimo fu assassinato nel 215. Gli ambasciatori macedoni inviati a trattare l'alleanza con Annibale furono catturati dai Romani che si procurarono così il tempo e la possibilità di acquisire il controllo di Brindisi con la flotta e con l'esercito per dominare l'Apulia e, se necessario, attaccare la Macedonia.
Dopo la morte di Geronimo, Siracusa sembrava disposta a tornare all'alleanza con i Romani ma la situazione politica interna era instabile e Ippocrate e Epicide, emissari di Annibale, fecero fallire i tentativi di pace prendendo con la forza il potere. Marcello assediò Siracusa ma la difesa, grazie anche alle invenzioni del matematico Archimede, fu molto valida e costrinse i Romani a passare dall'assedio al blocco degli accessi alla città per mare e per terra.
Da Cartagine giunse in Sicilia un esercito comandato da Imilcone che sbarcò a Eraclea Minoa e occupò Agrigento, non riuscì tuttavia a rimuovere i blocchi di Siracusa mantenuti da Marcello.
Nel 212, durante una festa, i Romani penetrarono nei sobborghi di Siracusa tagliando fuori la fortezza di Eurialo che si arrese poco dopo. Imilcone e Ippocrate tentarono un attacco combinato con la flotta ma i Romani resistettero ancora e i due eserciti attaccanti si accamparono nei pressi della città in un'insalubre zona paludosa dove furono sterminati dalle febbri che uccisero anche i due comandanti Imilcone e Ippocrate.
L'ammiraglio Bomilcare fuggì quando i Romani gli offrirono battaglia mentre Epicide che comandava la città riparò in Agrigento. I soldati mercenari si sollevarono e i loro capi assunsero il governo della città, Marcello trattò con uno di questi e ottenne parte della città (l'isola), in seguito i cittadini aprirono le porta anche del resto (Acradina). I Romani non tennero conto delle responsabilità dei mercenari e Siracusa non ottenne giustizia. La città fu duramente saccheggiata (in quest'occasione fu ucciso Archimede), il senato rigettò le proteste dei Siracusani, Siracusa e le città da essa dipendenti furono sottoposte a tributi.
Annibale conferì il comando della cavalleria numidica a un ufficiale di nome Mutinete che iniziò una guerra di bande. Annone, per gelosia, attaccò i Romani senza coinvolgere Mutinete e fu sconfitto sul fiume Imera.
Mutinete rimase in Sicilia e occupò alcune città ottenendo discreti successi ma Annone gli tolse il comando della cavalleria e lo affidò a suo figlio, ma i cavalieri rifiutarono il cambiamento e Mutinete trattò con Marco Valerio Levino al quale consegnò Agrigento. Annone fuggì a Cartagine e i Romani massacrarono il presidio cartaginese di Agrigento, i cittadini venduti come schiavi e i Romani selezionarono nuovi abitanti a loro devoti. L'isola fu pacificata e i Cartaginesi non vi mandarono più la flotta per riprendere la guerra.
In Oriente la grande alleanza antiromana immaginata da Annibale non fu realizzata, Antioco il Grande a causa delle sollevazioni interne del suo stato e della perenne minaccia di guerra con l'Egitto non prese iniziative contro i Romani. La corte egiziana era favorevole a Roma. La discordia tra Macedonia e Grecia impediva a questi stati di influire sulla situazione italica.
Nel 216 a.C. Filippo tentò di impadronirsi di ma si ritirò quando ebbe la notizia dell'arrivo di una flotta romana. Nel 215 progettò di attaccare la costa di Brindisi con una flottiglia di barche ma per paura delle quinqueremi romane abbandonò il progetto non rispettando un impegno preso con Annibale. Nel 214 Filippo aggredì e saccheggiò i possedimenti romani in Epiro, la reazione dei Romani che trasferirono rapidamente parte dell'esercito a Brindisi in Epiro bastò per spingere Filippo alla completa inazione lasciando trascorrere alcuni anni senza dare ascolto alle sollecitazioni di Annibale.
In Grecia i Romani promossero una coalizione antimacedone e si allearono con gli Etoli e in seguito con Atene, Elide, Messene, Sparta e poi Pergamo. Tutto ciò costrinse Filippo a consumare le proprie energie per difendersi dai continui atti ostili delle forze greche e romane che lo impegnavano su più fronti. La guerra con la Macedonia non portò a risultati significativi, gli Etoli si trovarono a sostenere la maggior parte dello sforzo bellico mentre i Romani impegnavano soltanto pochi vascelli. Infine gli Etoli accettarono la mediazione di altri stati (Rodi, Bisanzio, Atene e altri) e conclusero la pace con la Macedonia.
I Romani avrebbero potuto reagire violentemente a questa pace che costituiva la rottura della loro alleanza con gli Etoli ma poiché intendeva concentrare tutte le risorse in una spedizione africana, il senato preferì trattare la pace con Filippo, offrendogli condizioni favorevoli e ponendo fine a una guerra durata dieci anni.
In Spagna Gneo e Publio Scipione conseguirono diversi successi: mantennero il confine dei Pirenei che i Cartaginesi tentavano di forzare per ripristinare le comunicazioni terrestri con Annibale, fortificarono Tarragona, combatterono con buoni esiti in Andalusia ed estesero la presenza romana nella parte meridionale della penisola.
Nel 213 i Romani si allearono con il principe Siface contro il quale Asdrubale Barca si portò nel territorio libico di Cartagine, il re Gala si schierò con Cartagine e suo figlio Massinissa sconfisse Siface costringendolo alla pace. Nel 211 Asdrubale tornò in Spagna insieme a Massinissa e gli Scipioni, assaliti da forze superiori alle loro, assoldarono ventimila Celtiberi. Asdrubale riuscì a corrompere col denaro molti Spagnoli spingendoli ad abbandonare l'esercito romano e Gneo Scipione fu costretto a iniziare la ritirata con metà delle forze romane mentre l'altra metà, comandata da Publio Scipione, veniva sconfitta dai Cartaginesi con l'aiuto della cavalleria di Massinissa e lo stesso Publio Scipione perdeva la vita. Gli eserciti cartaginesi e i loro alleati si concentrarono contro le truppe di Gneo Scipione che furono circondate e massacrate, di Gneo Scipione non si ebbero più notizie. I superstiti romani dei due eserciti furono raccolti e guidati oltre l'Ebro dagli ufficiali Caio Marcio e Tito Fonteio. Dimostrandosi abile condottiero Caio Marcio riuscì a rimandare indietro i Cartaginesi che avevano superato l'Ebro e a mantenere la linea del fiume fino all'arrivo di un nuovo esercito forte di dodicimila uomini comandati da Caio Claudio Nerone.
Questi era un valente ufficiale ma non era adatto a trattare i rapporti politici con gli Spagnoli, inoltre si sapeva che a Cartagine erano in corso preparativi per sferrare una nuova grande offensiva in Spagna. Per questo il senato deliberò di spedire nuovi rinforzi in Spagna affidandoli a un comandante straordinario. Nessuno si candidò per questo incarico tranne il giovane Publio Scipione, figlio dell'omonimo, che si era distinto nelle battaglie del Ticino e di Canne e che fu proposto all'elezione popolare senza avversari. Mommsen si sofferma sulla figura carismatica di Scipione il cui fascino era avvertito dai soldati e dalla donne, dai Romani e dagli Spagnoli, dai suoi alleati e dai suoi avversari.
Partì per la Spagna nel 210 o nel 209 a.C., insieme al propretore Marco Silano e all'ammiraglio Gaio Lelio.
In Spagna i tre eserciti cartaginesi si trovavano in varie località distanti almeno dieci giorni di marcia da Nuova Cartagine. Scipione nella primavera del 209 a.C. attaccò improvvisamente questa città che si trovava in una stretta lingua di terra protesa nel mare.
Circondata da tre lati dalla flotta romana, la città fu attaccata per via di terra e quando, come Scipione aveva previsto, la marea lasciò allo scoperto altro terreno, i Romani ne approfittarono per assalire le mura indifese.
Nuova Cartagine fu conquistata in un solo giorno insieme a ottanta navi, una cassa con seicento talenti e diecimila prigionieri. La vittoria fu un grande successo per Scipione al quale venne rinnovato il comando a tempo indeterminato. Egli licenziò la flotta arruolando i marinai nell'esercito e nel 208 avanzò verso l'Andalusia. Durante la marcia incontrò presso Becula Asdrubale diretto ai Pirenei e lo sconfisse ma pur perdendo una parte del suo esercito il Cartaginese riuscì ad entrare in Gallia prima dell'inverno. I due comandanti cartaginesi rimasti in Spagna si ritirarono in Lusitania (Asdrubale di Giscone) e nelle Isole Baleari (Magone) lasciando ai Romani la costa orientale.
Nel 207 giunse dall'Africa Annone con un terzo esercito per ricongiungersi in Andalusia con Asdrubale di Giscone e Magone, ma Annone e Magone furono sconfitti da Marco Silano mentre Asdrubale distribuì le sue forze tra le città andaluse.
Nel 207 giunse dall'Africa Annone con un terzo esercito per ricongiungersi in Andalusia con Asdrubale di Giscone e Magone, ma Annone e Magone furono sconfitti da Marco Silano mentre Asdrubale distribuì le sue forze tra le città andaluse.
Nel 206 scese in campo un nuovo potente esercito cartaginese e Scipione, che disponeva di meno della metà dei soldati, lo sconfisse di nuovo presso Becula.
Nella Spagna ormai libera dai Cartaginesi scoppiò una nuova rivolta antiromana ma Scipione la bloccò sul nascere. Non riuscì però a impedire che Magone riunisse le forze disperse nella Penisola Iberica e recuperasse navi e denaro per armare una nuova spedizione in Italia.
Con la partenza di Magone anche Cadice si arrese ai Romani e l'intera Spagna, dopo tredici anni di guerra, divenne provincia romana.
Mentre nel 206 Scipione tornava a Roma per riferire personalmente i suoi successi, gran parte dell'Italia Meridionale era ancora in mano a Annibale che si trovava con il suo esercito presso Arpi e di Annone che sostava nel Bruzio con un secondo esercito. L'Italia Settentrionale invece era stata recuperata dai Romani quando Annibale se ne era allontanato.
I Romani avevano in campo quattro legioni agli ordini dei consoli Quinto Fabio e Marco Marcello, due legioni erano di riserva a Roma, altri eserciti si trovavano in Sicilia, Sardegna e Spagna, la flotta controllava il Mediterraneo per un impegno complessivo di almeno duecentomila uomini.
In attesa di ricevere aiuti dalla Spagna o dalla Macedonia, i Cartaginesi in Italia entrarono in una fase difensiva in Campania e Puglia. Annibale tentò di prendere Taranto senza riuscirci mentre presso Benevento Tiberio Gracco vinceva Annone con una legione composta da schiavi arruolati per forza che furono premiati con la libertà.
Molte città del Mediterraneo passarono ai Romani mentre i Cartaginesi riuscirono a occupare Taranto con la collaborazione degli abitanti, analogamente presero Eraclea, Turio e Metaponto.
Grazie a un'imboscata che costò la vita a Tiberio Gracco, i Cartaginesi riuscirono a conquistare Capua ma quando Annibale si allontanò i Romani circondarono la città con tre campi fortificati impedendo ogni accesso. Annibale accorse con le sue migliori truppe e pose il campo vicino a Capua ma i Romani mantennero le loro posizioni. Il Cartaginese escogitò un nuovo espediente e si allontanò da Capua per puntare direttamente su Roma. Giunto a breve distanza dalla capitale, fuori Porta Capena, Annibale tornò indietro certo che i comandanti nemici avrebbero abbandonato Capua per soccorrere Roma ma questa volta il suo piano non ebbe successo perché le legioni rimasero immobili presso Capua.
A Capua ventotto senatori si suicidarono mentre gli altri consegnarono la città ai Romani. Seguirono condanne, esecuzioni e confische ai danni dei dirigenti capuani e molti cittadini furono venduti come schiavi. Passando ai Cartaginesi, i Capuani avevano assassinato tutti i Romani che si trovavano in città e ovviamente questo atto fu punito con la più dura repressione. La costituzione municipale e le istituzioni di Capua vennero soppresse e in questo modo - secondo Mommsen - i Romani soddisfecero l'antica rivalità che provavano nei confronti della seconda città di Italia.
La perdita di Capua fu un duro colpo per la fiducia degli alleati italici in Annibale mentre i Romani recuperarono la certezza di vincere la guerra.
Conclusa la guerra in Sicilia, Marco Marcello assunse il comando supremo e marciò alla riconquista di Taranto. Riportò una difficile vittoria contro Annibale mentre il console Quinto Fulvio riportava Lucani e Irpini dalla parte di Roma. Annibale accorse a difendere Reggio da una serie di scorrerie mentre il console Quinto Fabio riprendeva Taranto per il tradimento di una guarnigione di difensori seguì un massacro della cittadinanza, il saccheggio delle case, la vendita di trentamila Tarentini. Si concluse con questo episodio la carriera dell'ottantenne Quinto Fabio.
Marco Marcello fu eletto console per l'anno successivo (208 a.C.) e progettava insieme al collega Tito Quinzio Crispino di condurre la guerra ma i due consoli furono sorpresi da una divisione di cavalleria africana e persero entrambi la vita.
Si era nell'undicesimo anno di guerra e le finanze romane erano sfinite nonostante la disponibilità dei cittadini più ricchi e tutti i provvedimenti presi da una commissione di esperti appositamente costituita. I campi erano spesso abbandonati per la mancanza di braccia e il prezzo del grano era aumentato del trecento per cento. L'enorme sforzo economico e finanziario coinvolgeva anche gli alleati latini molti dei quali smisero di fornire truppe e denaro. Nel 208 si seppe che Asdrubale fratello di Annibale aveva varcato i Pirenei e che i Cartaginesi avevano arruolato ottomila Liguri. A Roma si procedette a massicci arruolamenti richiamando anche i volontari e gli esenti dal servizio militare, ma prima di poter agire sui passi alpini, Asdrubale era giunto al Po, aveva reclutato molti Galli e assalito Piacenza.
Mentre il console Marco Livio marciava rapidamente verso nord, i pretori Gaio Nerone e Caio Ostilio Tubulo schieravano quarantamila uomini per impedire a Annibale di muovere dal Bruzio per congiungersi con il fratello.
Gaio Nerone si attribuì la vittoria della battaglia di Grumento ma Annibale riuscì comunque a procedere e si accampò presso Canusio. I soldati di Nerone intercettarono un dispaccio di Annibale che indicava il percorso scelto per raggiungere Annibale nei pressi di Narni. Nerone decise di muovere contro Asdrubale approfittando del fatto di avere informazioni che Annibale ignorava. Raggiunse il console Marco Livio presso Senigallia e insieme avanzarono contro Asdrubale che era impegnato nel superare il Metauro. Asdrubale condusse la battaglia con grande perizia ma la strategia di Nerone ebbe il sopravvento e l'esercito cartaginese fu distrutto. Asdrubale cadde in combattimento e Nerone tornò rapidamente in Apulia dove Annibale era ancora fermo in attesa di conoscere l'itinerario di Asdrubale. Il Cartaginese fu informato della situazione dai Romani che gettarono la testa di Asdrubale agli avamposti del suo campo. Non gli restò che muovere verso la costa meridionale del Bruzio i cui porti rappresentavano ormai la sola possibilità di salvezza.
Grazie all'ottimismo che derivò dalla vittoria, i Romani allentarono la tensione per darsi un poco di riposo. Nel frattempo Annibale riuscì a resistere ancora in Italia Meridionale e ricevette rinforzi da Cartagine. Il fratello minore Magone si portò in Liguria con i resti dell'esercito spagnolo, devastò Genova e arruolò Liguri e Galli ma le sue forze e quelle di Annibale non erano ormai sufficienti per affrontare un'impresa nell'Italia Meridionale.
Era giunto per i Romani il momento di portare la guerra in Africa e l'uomo più adatto per assumere il comando sembrava essere Scipione che in quel momento rientrava dalla Spagna e veniva eletto console (205 a.C.). Tuttavia la maggioranza dei senatori nutriva dubbi e preoccupazioni rispetto alla scelta di Scipione come comandante supremo. Gli si rimproverava un certo lassismo in materia di disciplina militare e si dubitava che nel corso della guerra Scipione sarebbe stato disposto a rispettare in ogni caso le decisioni del senato. Queste difficoltà ritardarono le urgenti decisioni del momento ma alla fine si volle evitare di esasperare gli attriti e grazie al buon senso dimostrato da tutti gli interessati Scipione ottenne il comando dopo essersi formalmente rimesso alle decisioni del senato.
A Scipione fu assegnato l'esercito che si trovava in Sicilia composto dalle due legioni reduci di Canne, un corpo che da anni veniva trascurato perché privo di credibilità. Altrettanto sottodimensionati furono i mezzi finanziari messi a disposizione del generale, ma Scipione, assolutamente sicuro di se, non protestò ed accettò senza discutere quanto gli veniva fornito, riuscì tuttavia a rinforzare l'esercito con circa settemila volontari che accorsero alla chiamata del famiso generale.
Nel febbraio 204 a.C. Scipione salpò verso l'Africa con due legioni di veterani (trentamila uomini), quaranta navi da guerra e quattrocento da trasporto ed approdò al promontorio nei pressi di Utica.
Trovò a difendere Cartagine un esercito di ventimila fanti, seimila cavalieri e centoquaranta elefanti oltre ai contingenti dell'alleato Siface. L'altro re berbero, Massinissa, che era stato battuto e privato del suo territorio, si mise subito a disposizione di Scipione. Scipione vinse facilmente i primi scontri con l'esercito cartaginese ma quando giunse Siface con sessantamila uomini fu costretto a riparare in un campo fortificato tra Utica e Cartagine.
Trascorse l'inverno e a primavera, dopo aver avviato trattative di pace, Scipione attaccò improvvisamente di notte i due campi, dei Cartaginesi e dei Numidi di Siface, sfruttando il fattore sorpresa per fare strage dei nemici.
Ricevuti rinforzi dai Celtiberi e dai Macedoni, i Cartaginesi offrirono battaglia in campo aperto, Scipione accettò e riportò una nuova importante vittoria.
La fazione cartaginese favorevole alla pace ebbe a questo punto il sopravvento, Asdrubale figlio di Giscone fu condannato a morte in contumacia e fu proposto l'armistizio a Scipione che pose condizioni molto favorevoli per i Cartaginesi.
Il partito patriottico cartaginese non aveva intenzione di rinunciare a combattere ed era la sua linea a prevalere nella cittadinanza. Magone e Annibale, in Italia, ricevettero l'ordine di rientrare in patria. Magone aveva recentemente subito una sconfitta presso Milano ed era stato ferito. Si ritirò in Liguria e da qui si imbarcò per Cartagine ma morì durante il viaggio.
Annibale fece uccidere tutti i suoi cavalli e i soldati italici che non vollero seguirlo, quindi si imbarcò a sua volta. In quell'occasione il vecchio Quinto Fabio fu insignito della corona d'erba. Annibale tornò in patria dopo trentasei anni di assenza e il suo ritorno portò nuova vita al partito patriottico: fu respinta la sanzione di pace e l'armistizio fu rotto con assalti a navi romane.
Scipione mosse dal suo campo presso Tunisi ed incontrò Annibale il quale tentò un abboccamento per migliorare le condizioni concordate ma si trattava, secondo Mommsen, di una mossa politica per dimostrare ai Cartaginesi che il suo partito non era contrario alla pace. Fallita la conferenza si venne alla definitiva battaglia di Zama. Entrambi i generali disposero le proprie forze su tre file, ordinandole in modo da schivare gli attacchi degli elefanti di Annibale che sbandarono lateralmente scompigliando la cavalleria cartaginese.
Mentre la cavalleria romana, forte degli apporti di Massinissa, inseguiva i cavalieri nemici le prime due file si scontrarono violentemente finché la milizia cartaginese cercò un momento di tregua nella seconda linea in modo disordinato. Si venne ad un nuovo scontro ancora più sanguinoso che ebbe termine quando la cavalleria romana, rientrando dall'inseguimento, circondò i nemici. L'esercito cartaginese fu distrutto e Annibale fuggì a Adrumeto con pochi uomini.
Dopo questa sconfitta nessun cartaginese poteva sperare di continuare la guerra. Scipione non volle assediare Cartagine concesse la pace aggravando le condizioni con nuovi tributi e con il divieto di combattere contro chiunque senza il permesso di Roma. Molti criticarono Scipione per la sua moderazione e per non aver raso al suolo la città nemica. Alcuni insinuarono che il generale ebbe fretta di concludere la guerra per non lasciare l'onore a un successore, tuttavia è probabile che Scipione volle trovare una conclusione che mitigasse il desiderio di vendetta dei vincitori e l'ostinazione dei vinti. Così si concluse la guerra di Annibale durata diciassette anni.
Il risultato della guerra, secondo Mommsen, fu per Roma di aver reso innocuo un pericoloso rivale e non di aver acquisito il dominio del Mediterraneo che ottennero per effetto delle circostanze e senza intenzione. La Spagna divenne una doppia provincia romana, il regno di Siracusa fu incorporato nella provincia di Sicilia, il patronato romano fu esteso ai regni numidi.
In pratica Roma raggiunse l'egemonia sui traffici del Mediterraneo occidentale e gettò le basi per sottomettere anche le regioni orientali dominate dalle monarchie alessandrine. In Italia era iniziata la distruzione delle popolazioni celtiche mentre nella federazione romana prevaleva la componente latina e venivano oppressi i popoli non latinizzati come Umbri e Sabelli.
La potente città di Capua, che era stata il più forte alleato di Annibale, fu privata della sua costituzione e trasformata in un villaggio, privata di gran parte del suo territorio. Analoghe sanzioni furono comminate da Roma a tutti i centri dell'Italia centromeridionale che avevano sostenuto i Cartaginesi. Furono fondate colonie di veterani romani in Campania, nel Sannio e nell'Apulia.
La popolazione dotata di cittadinanza romana fu dalla guerra ridotta a un quarto, si parla di trecentomila caduti italici. Il senato era ridotto a centoventitre membri e con fatica fu possibile riempire i centosettantasette seggi vacanti.
L'economia pubblica fu profondamente scossa e quanto lo stato guadagnò con le confische (soprattutto in Campania) ebbe un pesante corrispettivo a carico della popolazione, furono distrutti centinaia di villaggi e si diffuse il brigantaggio. Roma e la nazione latina uscivano da un lungo e devastante periodo di guerra e si doveva pensare alla ricostruzione mentre per un momento il ritorno dei militari e dei prigionieri donava l'allegria alle feste di ringraziamento.